Miss Peregrine’s Home for Peculiar Children

cover miss peregrine specialMatthew Margeson, Michael Higham
Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali (Miss Peregrine’s Home for Peculiar Children, 2016)
La-La Land Records LLLCD 1413
21 brani – Durata: 70’20”

Non è la prima volta che il sodalizio ormai storico e ultratrentennale tra Tim Burton e Danny Elfman si interrompe. Le motivazioni però sono cambiate: ai tempi di Ed Wood si parlò di una incolmabile divergenza di vedute artistiche tra il compositore (cui subentrò Howard Shore, con esiti molto “nostalgici” e cronenberghiani…) unita ad una momentanea indisponibilità di Elfman e a pressioni della casa di produzione, mentre l’oggettivo declino qualitativo di alcune tra le ultime prove del compositore ex-Oingo Boingo (soprattutto quelle sull’ormai spompato fronte “supereroico”), unito al superlavoro di cui lo stesso si è ultimamente caricato, farebbero piuttosto propendere per la necessità da parte del regista di ritrovare un sound portatore di quella freschezza fiabesca e incantatoria che trovò a suo tempo in Edward Mani di forbice il proprio capolavoro.

 Resta da vedere se l’accoppiata formata dall’americano Margeson, uno dei tanti prodotti della scuola zimmeriana, e l’inglese Michael Higham, produttore, ingegnere audio e surrettiziamente compositore soprattutto televisivo, possa pienamente colmare quel vuoto. Certo, la favola fantasy che Burton ha ricavato dal romanzo di Ransom Riggs ed interpretata dalla magnetica Eva Green sembra da questo punto di vista costituire un terreno ideale, almeno in partenza. Ed il tema iniziale degli archi nel brano d’apertura omonimo del film, pare indirizzarsi proprio verso un “lato oscuro” più misterioso che minaccioso, più intristito che impaurito; Margeson (che sul fronte puramente horror si è spinto molto oltre con il recente Ring 3) non “imita” certo Elfman, di cui non possiede l’estro inventivo né il tocco maligno ed insieme esoterico, ma si rivela capace, ad esempio in “Bedtime stories”, di trovare colori sospesi, ambigui e neoimpressionisti (vibrafono, archi, arpa), con una strumentazione molto ricercata e trasparente, fra gentili riverberi dei legni (“A place like this”) o del vibrafono, e lunghe note tenute dei violini (“Squirrel rescue”) che paiono spegnere sul nascere qualunque velleità “action”. Qui però sta il punto: al netto della piacevolezza complessiva, si ha la sensazione di una score almeno in parte bloccata sul registro di una féerie statica e un po’ ripetitiva, fondata sul grazioso tema principale e su un’orchestrazione diciamo così da “stanza dei bambini”…
 Ecco perché si accoglie con sollievo almeno un tentativo di movimentazione negli archi in “The Augusta”, tra l’altro corredato di un effetto corale molto elfmaniano…, peraltro rapidamente placati in un nuovo, placido e sommesso susseguirsi di pedali immobili. Qualcosa di più oscuro e terribile emerge da “I’ll be here forever”, “Barron’s experiment” e “Barron revealed”, con organo e ottoni aggressivi a calare una coltre di torbida minaccia, e uno svelto disegno ritmico di ottoni e flauti a rendere più dinamico (vale anche per “Surprise visitor”) un discorso musicale prevalentemente piuttosto orizzontale e monotono. Va anche detto che, pur senza toccare le vette burrascose dell’Elfman più ispirato, almeno a partire da “Hollow attack” e “Raising the Augusta” Margeson & Higham sembrano risvegliarsi e ambire a ottenere risultati più vividi. Il primo è una pagina ad esempio opportunamente surriscaldata sul piano timbrico e ritmico, così come “Blackpool” e “Standoff at Blackpool tower”, orchestrati rigogliosamente e imperiosamente; a parte alcune curiose concessioni disco-dance (come “Handy Candy”; ma nel soundtrack convivono anche Ciaikovski e Paloma Faith, per dire…) alla fine sembra che i due compositori omaggino apertamente (non subdolamente, di questo va dato loro atto) il modello elfmaniano con “Ymbrynes, Ymbrynes, here I come”, tra possenti cori maschili , glissandi di ottoni, sommovimenti di archi e accordi di organo. Anche “Peculiar vs. Wights” si anima di violenti conflitti tra sezioni orchestrali (scompaiono i delicati legni per lasciar posto alla brutalità degli ottoni), e una pagina come “Two takes”  vira decisamente verso latitudini horror.
 Molto suggestivo, in epilogo, “Go to her”, che si apre con la toccante esposizione del tema principale tra piano, archi e celesta, in un clima sognante e intimamente magico,  per lasciarsi andare nello sviluppo e nella conclusione ad un afflato decisamente romantico e ottimisticamente “disneyano”, quantunque troncato con una certa, inattesa, bruschezza…
 Compito decisamente difficile, quello che sovrastava i due compositori, e da essi onorato come meglio potevano; non si potevano pretendere quella stupefazione ambivalente, quei colori brillanti e insieme così inconfondibilmente “dark” propri del loro predecessore dei tempi migliori. Esattamente però – e non a caso – come dal regista non ci si attende ormai più, e da tempo, la fulminante e visionaria potenza dei film che lo hanno reso celebre.

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