The Bergman Suites

cover bergman suitesErik Nordgren
The Bergman Suites (2016)
Naxos 8.573370
24 brani – Durata: 53’21”

Sotto il profilo musicale, la filmografia di Ingmar Bergman si può suddividere in tre grandi blocchi. Con una premessa. Nella poetica dell’immenso maestro svedese, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita (Uppsala, 1918 – Fårö, 2007), la “musica” nelle sue più ampie accezioni (compresa la sua assenza) ha sempre svolto un ruolo basilare. Essa appare ed emerge nei suoi film come elemento quasi filosofico, etico prima ancora che estetico: ed il silenzio che a volte ne prende il posto (sino a dare il titolo alla sua celebre “trilogia” comprendente Come in uno specchio, Luci d’inverno e appunto Il silenzio, 1961-1963) non costituisce affatto un “vuoto” ma al contrario una componente espressiva dall’impatto emotivo spesso devastante, in una dialettica interiore che è poi ciò che fa grande e modernissimo tutto il suo cinema “dell’anima”.

 Tre capitoli, dicevamo, o se preferite altrettanti periodi. Il primo va dagli esordi del regista, negli anni ’40, sino alla prima metà degli anni Sessanta, e corrisponde a quello in cui Bergman utilizzò prevalentemente partiture di commento tradizionale, commissionate a compositori specializzati del proprio paese, operanti nell’industria cinematografica di Stato, la Svensk Filmindustri, come Erik Nordgren (il maggiore), Erland von Koch o Karl-Birger Blomdahl. Poi c’è un periodo che va sino ai primi anni ’70 in cui la presenza della musica si assottiglia, pur rimanendo sempre significativa e qualificante, per lasciare spazio appunto a quei silenzi, a quei “vuoti” interiori desolati e intensi cui accennavamo prima. Infine, sino alle ultime prove, si apre una fioritura di film in cui la musica riprende il primo piano ma utilizzando prevalentemente pagine classiche, testi preesistenti variamente rielaborati, in soundtrack antologici che non denotano solo la mostruosa cultura e competenza musicale del regista, ma soprattutto la sua sensibilità e acutezza psicologica nell’evocare la pagina, il frammento, il compositore giusto per ogni momento. Questo è il periodo, per capirci, cui appartengono sia quella deliziosa e impagabile rilettura de Il flauto magico mozartiano girata nel ’74, sia l’ultimo capolavoro Fanny e Alexander dell’82, un affresco epocale con una crestomazia di brani che vanno da Britten a Chopin a Schumann: questi ultimi due tra i compositori prediletti dal regista, in una sorta di hit parade classica della sua filmografia, dove primeggia largamente Johann Sebastian Bach, seguito da Mozart e Beethoven. Ed è anche, nella filmografia di Bergman, l’arco di tempo in cui vedono la luce gemme il cui nucleo pulsante è squisitamente musicale, come Sussurri e grida del ’72 o Sonata (ci rifiutiamo di usare l’idiota titolo italiano “Sinfonia”) d’autunno del ’78.
 Inutile dire, tuttavia, che per l’appassionato di musica cinematografica il primo periodo è quello che suscita maggiore curiosità e interesse, anche per la scarsità di documentazione discografica esistente. Per questo nel 1996 venne accolta come una benedizione l’uscita, con l’etichetta Marco Polo, dell’antologia “The Bergman Suites” eseguita dalla  formidabile Slovak Radio Symphony Orchestra di Bratislava sotto la vigile e limpida bacchetta di Adriano (il direttore d’orchestra e compositore svizzero che tiene celato il proprio vero nome come un segreto di Stato), e dedicata monograficamente alle pagine scritte per Bergman dal suo compositore più noto e blasonato, appunto Erik Nordgren (1913 – 1992). Oltre vent’anni dopo la Naxos, che nel frattempo ha rilevato la propria consociata, ripropone lodevolmente questa antologia, anche se purtroppo sostituendo l’originale cover, che rappresentava Ingrid Thulin e Max von Sydow in una scena de Il volto, con un’immagine femminile generica e fuorviante.
 La genesi di quest’album fu a suo tempo non facile. Tutto nasce, come racconta lo stesso maestro elvetico nelle note del booklet, da un contatto avvenuto ad inizio del ’91 tra lui e Nordgren, nel quale Adriano proponeva al 78enne compositore di registrare alcune sue partiture filmiche. Operazione coerente con l’ampia opera di divulgazione di cinepartiture “storiche” di cui Adriano si è fatto carico negli anni alla guida dell’orchestra di Bratislava e appunto per l’etichetta Naxos/Marco Polo. Nordgren accettò entusiasticamente l’idea, ma nel ’93 Adriano si vide recapitare un voluminoso plico di spartiti accompagnato da una lettera di Costanze Nordgren, moglie del compositore, che ne annunciava l’avvenuta scomparsa; oltre a questo, la signora precisava che di molte partiture (ad esempio Il settimo sigillo) era impossibile trovare traccia, e ciò malgrado il marito fosse stato a lungo direttore musicale della Svensk Filmindustri. C’era tuttavia materiale sufficiente a giustificare la realizzazione di un’antologia, che Adriano ha curato partendo dai manoscritti originali e intervenendo, ove necessario, con passaggi di raccordo o sviluppo di frammenti appena abbozzati.
 Con poco meno di una cinquantina di partiture scritte lungo un trentennio, Nordgren, autore di molta musica orchestrale e da camera, è stato il compositore di riferimento della cinematografia svedese (una delle più importanti in Europa) e dei suoi  maestri più celebri, come – oltre a Bergman – Gustaf Molander e Alf Sjöberg. Per il regista di Uppsala ha scritto diciotto scores legate ai suoi più noti capolavori, da Sete (1949) sino a A proposito di tutte queste… signore (1964), se includiamo anche quelle per film dei quali Bergman è stato sceneggiatore, come ad esempio Eva e La furia del peccato (1947 e ’48), diretti da Molander. Il sodalizio, che era anche  un’amicizia personale, si interruppe a metà degli anni Sessanta, in coincidenza forse non casuale con il matrimonio avvenuto poco prima tra Bergman e la pianista  svedese di origine estone Käbi Laretei, il cui nome da lì in avanti ritroveremo spesso come esecutrice (ad esempio in Sonata d’autunno) o consulente nei soundtrack del regista. In realtà all’inizio degli anni ’90 Bergman e Nordgren  avevano riallacciato i contatti, progettando di riprendere in mano alcuni loro film per rivederne la parte musicale, soprattutto alla luce delle possibilità espressive apertesi  in quegli anni con la diffusione della musica elettronica e sperimentale, di cui Nordgren era sempre stato un attento e curioso precursore. Ma la scomparsa del compositore impedì lo sviluppo di questa idea. In realtà Nordgren era essenzialmente un compositore di area tardoromantica, influenzato dal sinfonismo nordico di musicisti a cavallo tra Otto e Novecento come il danese Carl Nielsen o il norvegese Christian Sinding, a loro volta impregnati di wagnerismo e di inquietudini mitteleuropee. Ed il felice esito del suo sodalizio con Bergman si deve proprio alla perfetta intesa tra i due sul fatto che la musica dovesse sempre avere una “ragione”, e che ad essa – in una serie di procedimenti sottrattivi – potesse e dovesse alternarsi il silenzio. Una sintesi che, nel cinema bergmaniano tra anni ’50 e ’60, oscillava tra una disperazione totale dei sentimenti, un continuo rovello interiore, e una drammaturgia violenta, stagliata, senz’altro memore del  teatro di Strindberg o Ibsen: a quest’ultimo aspetto corrispondevano le soluzioni più  audaci del compositore, che non esitava a spingersi ben oltre i confini della tonalità. Se ne ha un esempio nel tema con cinque variazioni da Donne in attesa (1952),  straordinario kammerfilm per quartetto femminile, dove l’afflato cantabile e  infuocato dell’idea principale viene spezzato, suddiviso e rielaborato in una serie di  parafrasi inquiete, dominate dagli archi, solisti o divisi e dissonanti, e da colori  orchestrali particolarmente delicati e fluttuanti, che deprivano il tema principale di qualsiasi stucchevolezza, in una desolazione incontenibile (Variazione IV) o tra accensioni e impennate strumentali brucianti (Variazione V).  La score per Sorrisi di una notte d’estate (1955), commedia sentimentale venata di umorismo poetico, ha dimensioni più vaste (si tratta della partitura nordgreniana più lunga per un film di Bergman) e connotati più tradizionali, che nell’effluvio melodico di “Chaste love” si sarebbe quasi tentati di definire filohollywoodiani; ma la marcetta per legni successiva, o il frenetico “Galop” e lo scoppiettante “The coach” (con un  occhio al Rota circense di Fellini e l’altro alle operette di von Suppé) ci dicono inequivocabilmente che in Nordgren scorre sempre sottotraccia una vena caricaturale  e acidula ben dissimulata dietro l’eleganza della scrittura e la forma scanzonata,  debitrice in questo caso ad un clima “viennese” festosamente nervoso e teso. Clima  che si stempera nelle liquescenze dell’arpa in “Dangerous wine” e si annuvola  minacciosamente in “Crisis”, dove il drammatismo sinfonico di Nordgren trascorre  dal timbro cupo del clarinetto basso alle frasi ansiose degli archi sino ad un  esplosivo   accordo dissonante. Ma eccoci di nuovo trasportati addirittura in un’atmosfera  neoclassica con gli impagabili “Menuet” e “Gavotte”, sublimi esercizi di stile in foggia settecentesca: quasi una musica di scena. La suite si chiude poi con “The park”, che fa dischiudere un appassionato e perorante tema negli archi di brahmsiana intensità, e con il movimentato “Escape”, scampolo di action music agitata che viene però sigillata da un ultimo, beffardo guizzo ironico. La relativamente breve suite da Il posto delle fragole (1957) ci conduce in cima ad una delle vette del cinema bergmaniano, in cui il regista non ancora quarantenne  rifletteva già con straordinario impatto visionario su temi come la memoria, il sogno, la vecchiaia e la morte. La partitura di Nordgren risponde qui a  criteri di estrema economia psicologica: “Emotions” affida ai violini e ai legni un  disegno melodico di straziante malinconia, il cui decorso a tratti sembra quasi ispirarsi a Puccini; ma gli interventi onirici dell’arpa, del vibrafono e degli archi in  tremolo sospendono l’atmosfera in un’incertezza nella quale sono di nuovo i violini a intervenire, prima di una breve e sconsolata coda dei legni; “Memories” si apre sullo struggente assolo del violoncello ad accentuare il carattere misterioso della partitura, perfezionato infine in “Dreans”, a suo modo un esempio di vera horror music raggelata tra nuovi tremoli degli archi e il moto pendolare di legni e vibrafono scandito dai timpani in sottofondo, mentre la dissoluzione dei baricentri tonali si fonde in un conclusivo accordo in crescendo, dissonante e opprimente. Anche Il volto (1958) affronta temi cari alle meditazioni bergmaniane, come il doppio, la finzione, la magia, inserite in quella cornice di attori girovaghi e illusionisti che ricorre spesso nei suoi film. Qui troviamo la vena pre-minimalista di Nordgren, che proprio in quegli anni iniziava i propri esperimenti di musica elettronica: il linguaggio si fa scheletrico, essenziale sino all’estremo, le sonorità  spigolose e incerte, come nel dialogo ossessivo e ritmato di arpe e chitarra in “Swindle and deceit”;  ma anche qui la musica diciamo così “d’occasione” evidenzia l’abilità del compositore nel rifarsi a modelli ben noti e di schietta vena popolaresca: sia la fanfara circense di “March” che il successivo, travolgente “Galop” guardano ai can-can parigini e a Offenbach, nella loro gagliarda ma anche livida brillantezza.
  Lustgården (1961, letteralmente “Il giardino del piacere”) fu diretto da Alf Kjellin, regista svedese poi molto attivo anche nella tv americana, e da Bergman scritto insieme all’amico Erland Josephson, più tardi uno dei suoi attori-feticcio insieme a Liv Ullmann, von Sydow, la Thulin, Harriet e Bibi Andersson, Gunnar Björnstrand (gli ultimi due qui anche nel cast). L’azione si situa agli  inizi del ‘900, e l’impianto è quello di una commedia sentimentale e di costume con forti impulsi di critica sociale. L’introduzione pastorale di “Secret chambers of the heart” precede un rigoroso fugato dal contrappuntismo hindemithiano seguito dagli archi in  un tema passionale e vigoroso; un nuovo galop di sapore ottocentesco, in “Small town affairs”, prepara la riproposizione del tema da parte del flauto in una parentesi idilliaca, ma il congedo è affidato di nuovo alle atmosfere travolgenti iniziali, con una coda trionfante e affermativa in puro stile operistico.
 Come si diceva, l’album offre uno sguardo pregevole ma parziale sulla presenza della musica nel cinema di Bergman: l’auspicio è che altre ricerche seguano, magari focalizzate sulle partiture per i primissimi film del maestro (come quelle di von Koch), o su quelle dei compositori – come Lars Werle, Owe Svenson o Rolf A.Wilhelm - che apportarono i propri contributi originali alla fase più tarda della sua produzione, in cui musiche di commento convivevano con un vastissimo repertorio classico. Sarebbe, oltre che un modo affascinante di ripercorrere la sua opera, anche il mezzo per alzare il sipario su una stagione e una scuola nazionale della musica cinematografica europea che contiene al proprio interno autentici, inesplorati tesori.

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