On the Waterfront

cover on the waterfrontLeonard Bernstein
Fronte del porto (On the Waterfront, 1954)
Intrada INT 7141
20 brani + 4 extra – Durata: 50’13”

Si può entrare nella storia della musica per film con un solo titolo? Se ci si chiama Leonard Bernstein sì.
 Per il semplice motivo che il leggendario maestro americano di radici ebreo-polacche, del quale si celebra quest’anno il centenario della nascita, ha talmente “abitato” la musica in ogni suo aspetto, anfratto, segreto e dispositivo da lasciare in ciascun campo nel quale ha operato un segno indelebile: anche quando, come nel caso appunto delle colonne sonore, il suo contributo è stato quantitativamente limitato.
 Direttore d’orchestra sommo, pianista virtuoso, compositore acclamato, didatta e pedagogo straordinario e amatissimo, Bernstein considerava se stesso – appunto – una bacchetta a tempo parziale al servizio di un musicista a tempo pieno, la cui missione consisteva nel condividere con il maggior numero possibile di persone tutto ciò che lui sentiva e conosceva della musica. Il che è avvenuto puntualmente operando un abbattimento, o meglio una mescolanza, dei diversi generi da Bernstein esplorati: ecco perché West Side Story sembra un musical ed è in realtà un’opera lirica tra le massime espressioni del teatro musicale del ‘900, o perché la partitura di Fronte del porto è a tutti gli effetti una delle più straordinarie prove di drammaturgia musicale applicata ad un film di tutta la storia del cinema, ma è anche una memorabile prova di sinfonismo moderno.

 Inoltre, ad un livello più alto dei rapporti generali tra (il far) musica e (il restituirne una) immagine Bernstein si poneva in gioco a 360 gradi, grazie ad una capacità interdisciplinare sconosciuta a qualunque altro direttore d’orchestra prima o dopo di lui. E nel far ciò, situandosi come punto di incrocio e mediazione fra autore, esecutori e pubblico, metteva in campo anche se stesso, le proprie doti di comico (“un Walter Matthau del podio” lo ha definito lo storico del cinema Fabrizio Borin) e, all’occorrenza, chiamava apertamente in causa riferimenti cinematografici, ossia di un linguaggio ed un’arte che amava molto e della quale percepiva appieno l’immensa potenza evocativa. Basti pensare a quegli straordinari documenti video che sono sia il celebre ciclo degli Young People’s Concerts tenuti alla Filarmonica di New York dalla fine degli anni ’50, sia trent’anni dopo alle prove della “Sagra della primavera” di Stravinsky e della Prima Sinfonia di Dimitri Shostakovich per altrettanti concerti che Bernstein diresse nell’88 a Salzau, in Germania, sul podio di un’eccezionale compagine di giovanissimi, la Musikfestival Orchestra dello Schleswig-Holstein: e durante le quali, per spiegare le proprie intenzioni interpretative, non esita a chiamare in causa una celebre sequenza del Fantasia disneyano o di Velluto blu di Lynch! Tutto questo, fortunatamente, documentato e consegnatoci in numerosi materiali video.
 La filmografia bernsteiniana come compositore effettivo (senza contare cioè le innumerevoli occasioni in cui la sua musica e le sue canzoni sono state prese a prestito o i documentari che lo hanno visto in primo piano) si esaurisce, come dicevamo, in pochissimi titoli significativi; ovviamente il capolavoro di West Side Story, realizzato nel 1961 da Robert Wise sul musical di quattro anni prima e vincitore di dieci Oscar tra cui quello per il miglior adattamento della colonna sonora al quartetto di arrangiatori; ma poi anche adattamenti da suoi musical o lavori teatrali, come Wonderful Town e Trouble in Tahiti, compresa una versione finlandese, Loistokaupunki (1996), del musical Un giorno a New York, portato già sullo schermo nel 1949 da Stanley Donen e Gene Kelly (anche protagonista insieme a Frank Sinatra), e ricavato dal suo balletto “Fancy Free”; oppure The Lark (1957) di George Schaefer, trasposizione filmica del dramma omonimo di Jean Anouilh dedicato alla figura di Giovanna D’Arco e per la quale Bernstein riadattò alcune proprie severe pagine corali.
 Resta il fatto che Fronte del porto è la prova più compiuta e alta del contributo di Bernstein al cinema: anche, va precisato, per la caratura e l’importanza intrinseca del film di Elia Kazan. Un dramma sociale, addirittura “operaio”, scritto magistralmente da Budd Schulberg, rivestito dalle coordinate di un gangster-movie o di un noir esplicito, nel quale il pugile fallito e confuso Terry Malloy, ridottosi a fare lo scaricatore e interpretato da Marlon Brando, si trova ad impersonare a ruoli rovesciati una sorta di alter ego dello stesso regista. Quest’ultimo infatti, finito nel mirino della famigerata commissione del senatore McCarthy, aveva pochi anni prima denunciato alcuni colleghi “rei” di simpatie verso il comunismo, salvando se stesso dalla galera ma guadagnandosi per il resto dei suoi giorni il marchio d’infamia del delatore. Per Terry, viceversa, si tratterà proprio di rompere la cappa di omertà e di vigliaccheria che protegge gli intrighi malavitosi e sfruttatori del sindacalismo portuale di New York dominato dal boss Johnny Kelly (Lee J.Cobb), smascherando dinanzi ad un’altra commissione, ma di giustizia, gli assassini di due amici e di suo fratello e ottenendo così il rispetto e la solidarietà dei colleghi, nonché l’amore della dolce Edie (Eva Marie Saint qui al debutto) e la stima del combattivo prete “di trincea” Padre Barry (Karl Malden).
 Argomenti scottanti per l’epoca, come si vede, imperniate sui temi della delazione e del tradimento, e strutturati in una significativa e non casuale simmetria con le tormentate vicende personali del regista, ma soprattutto costruiti con una drammaturgia straordinariamente efficace, tesa, intensa, e con un tocco reso particolarmente vivido dalla recitazione collettiva, in pieno stile Actors Studio, e dalla fotografia livida di Boris Kaufman. Che infatti si aggiudicò uno degli otto Oscar piovuti sul film: miglior pellicola, regia, attore e attrice, sceneggiatura, fotografia, scenografia e montaggio. Praticamente a tutti tranne che al compositore!
 Peraltro Bernstein aveva accolto l’invito del produttore Sam Spiegel e di Kazan (radici polacche in comune con il primo, di nascita greco-turca il secondo: due apolidi come lui) con estrema serietà, conscio sin dall’inizio che si trattava di creare qualcosa di molto speciale: una partitura che esprimesse battuta per battuta i sentimenti convulsi, le asprezze sociali e l’ambientazione “neorealista”, gli stati d’animo tempestosi e le fasi tragiche del racconto, ma che nel contempo potesse sviluppare un’autonomia tale da poter essere ascoltata sin da subito in sede concertistica: esattamente secondo la tradizione dei grandi poemi sinfonici “a programma” del tardo Ottocento, sia pure con un linguaggio moderno e spregiudicato che accanto al dono squisito di Bernstein per la melodia inglobava le suggestioni ritmiche e selvagge del sinfonismo russo-magiaro novecentesco (da Shostakovich a Bartók) e palesi influenze jazzistiche: a riprova dello smisurato eclettismo dell’autore.
 La suite sinfonica di una ventina di minuti che Bernstein ricavò immediatamente dalla score di Fronte del porto nacque proprio da questa esigenza e consapevolezza, incontrando subito grande fortuna. Normalmente eseguita nelle sale da concerto, essa vanta svariate esecuzioni discografiche tra le quali se ne segnalano due – monumentali - dello stesso Bernstein, più volte ristampate, una del 1969 per l’etichetta Cbs alla guida della “sua” Filarmonica di New York e abbinata alle danze di West Side Story, l’altra digitale per la Deutsche Grammophon nell’82 alla testa della Filarmonica di Israele, insieme forse non a caso ad alcune sue pagine di musica sacra. Altre prestigiose bacchette poi si sono susseguite nell’esecuzione di questo che è anche un autentico tour de force orchestrale: ricorderemo tra le principali il maestro coreano Myung-whun Chung e gli americani John Axelrod, Carl Davis e Steven Jarvi, l’altra americana Marin Alsop, i britannici Stanley Black e Paul Bateman, l’italiano Guido Maria Guida… ed anche un altro Bernstein, Elmer, che ben conosciamo come divulgatore e direttore generoso, oltre che come compositore della Golden Era.
 Diversa invece l’operazione filologica voluta dalla Intrada, che ha finalmente reso disponibile una versione ufficiale della OST, uscita peraltro l’anno scorso anche in un bootleg della Soundtrack Factory pubblicato ad Andorra (!); una versione originale di grande valore storico perché presenta tutte le tracce nell’ordine cronologico in cui appaiono nel film e soprattutto nella forma per esso concepita, con la Columbia Pictures Orchestra sotto la guida di quel Morris Stoloff (1898 – 1980) che nel suo curriculum hollywoodiano vanta lungo quarant’anni (il suo nome è legato al primo film sonoro della storia, Il cantante di jazz, 1927) qualcosa come 500 titoli, di cui è stato “musical director”, supervisore, occasionale compositore ma soprattutto ferreo, rigoroso direttore d’orchestra dal timbro toscaniniano.
 L’apertura dei Main title è di per se stessa rivelatrice dell’impianto formale, della cura strumentale e dell’atmosfera dell’intero lavoro. Dal corno o dalla tromba soli (quest’ultima prevista, annota l’autore, solo se il registro risultasse troppo alto per il corno), all’unisono, si alza in “mezzo piano” una melopea in fa minore di sapore liturgico, marcata “Andante (with dignity)” che si srotola dolcemente spegnendosi apparentemente ma solo per lasciare spazio, dalla settima battuta, ad un sublime, ieratico canone cui partecipano i flauti e il trombone solo con sordina. Dalla battuta 13 su questo impianto si inserisce un controcanto già in qualche modo funebre, affidato a trombe lontanissime in sordina (oppure oboi, sempre che come nel caso precedente per le trombe il registro risulti impraticabile), contrappuntato da note basse di clarinetto e arpa. Ai clarinetti è delegata anche una brevissima sussurrante coda prima che da battuta 20 parta una delle più straordinarie invenzioni della partitura, a connotare l’agguato in cui Terry attira l’amico reo di aver fatto la spia, mentre sul tetto dell’edificio sono appostati i suoi killer. Si tratta di uno sconvolgente “Presto barbaro” in 3/4, in forma di una virtuosistica fuga per percussioni rinforzate da violente note gravi di sostegno del piano, che si avvita in un crescendo soffocante fino a battuta 40 e all’ingresso, petulante e drammatico insieme, del sax alto (“crudely”, scrive Bernstein) in un tema – o meglio un inciso – che riascolteremo spessissimo. Lo sviluppo, sempre più minaccioso e selvaggio, esplode apocalittico nel “tutti”, a partire da battuta 58, in una sorta di danza tribale che si arresta solo in una tesissima sospensione acuita dagli accenti marcati dei violini in registro acuto. Questo, ovviamente, avviene nella suite che si conclude con le cinque celebri, violentissime raffiche in fortissimo preceduto dal brutale accumulo di quinte aperte scolpite a partire dagli ottoni e sorrette con violento effetto di contrasto da un pedale in pianissimo degli archi: un passaggio che nel film interviene solo molto più tardi. La versione originale inserisce invece, tra le ultime due fasi, un moto ansioso di archi agitati che preludia cupamente alla tragedia imminente, bruscamente troncata da un accordo secco.
 La parentesi idilliaca di “Roof morning” con l’oboe introdotto da arpa e trilli dei flauti, ha un’impronta quasi debussyana mentre “Scramble” è di nuovo un Allegro agitato irregolare e asimmetrico, demoniaco, sotto al quale però i celli profetizzano per un istante quello che sarà poi il nucleo del love theme: anche qui denotando la meticolosa perizia contrappuntistica di Bernstein. Il moto perpetuo e ostinato dei violini in “Riot in Church” sospinge una serie di variazioni infuocate degli ottoni sul tema esposto dal sax in apertura, mentre in “Glove scene” può finalmente dispiegarsi ancora in forma di canone, il tema d’amore fra Terry e Edie. Un’idea gentile, bucolica e semplice per flauto e clarinetto cui si aggiungono nello sviluppo i violini con sordina, e che sembra – come altri passi della partitura - già contenere i germi di alcune pagine liriche di West Side Story (in particolare della struggente “Somewhere”): la breve “Coda” inoltre, irrompe come una staffilata di dolore negli archi, mentre il pianoforte saltella nel registro grave con forte effetto di contrasto.
 Il Love theme diventa da qui in poi il protagonista emozionale della partitura, attraverso trattamenti ora di aperta cantabilità (“Pigeons and beer”) ora più raccolti come in “Saloon love”, che comincia esponendo il tema nel fagotto sugli archi divisi, per passare poi ai celli e troncarsi bruscamente su una versione bandistica, acceleratissima e parodistica della Marcia nuziale dal “Lohengrin” wagneriano: il “Waterfront love theme” poi non è che un’ulteriore variazione del tema, in puro stile “lounge music”. Ma sul fronte delle contaminazioni, che Bernstein ha sempre teorizzato e praticato, è notevolissimo anche il trattamento jazzistico strascicato e suadente  che “Blue Goon Blues” riserva al famoso tema per sax del “Presto barbaro” iniziale.
 La parte sinfonica tuttavia si fa ulteriormente incandescente e carica di fatalismo nell’intensità tragica degli archi di “After the sermon” a precedere l’assolo del flauto nell’esposizione del love theme in “Roof 3”, la cui conclusione però – si badi – è affidata ai violini con una sinistra e inattesa modulazione nell’accordo finale. Archi che, tra stridule dissonanze e raddoppi dei fiati, riaggrediscono il tema del sax (qui davvero “crudely”…) in “Confession scene”, mentre ecco che in “Kangaroo court” compaiono le famose quinte aperte degli ottoni cui accennavamo più sopra, questa volta in fortissimo mentre in “Cab and bedroom” la stessa idea viene ripresa in un minaccioso pianissimo che prepara nella parte centrale una straziante parentesi degli archi in forma di perorazione quasi ciakovskiana, per proseguire poi in un frenetico susseguirsi di episodi sempre gestiti con grande maestria, con il moto perpetuo scattante di “Riot in Church” a introdurre un’energica riaffermazione del love theme.
 Semplicemente superba è poi “Charley’s death”, che accompagna la sequenza dell’assassinio del fratello di Terry, Charley (Rod Steiger): si inizia concitatamente con il Presto barbaro ma solo per arrestarsi attoniti dal dolore in quell’episodio centrale per archi anticipato in “Cab and bedroom”, che anche grazie al rintocco dei timpani diviene dolentissima marcia funebre. La formidabile partizione dei leit-motifs, che rivela nel compositore una perizia sconosciuta a molti suoi colleghi “specializzati”, persino in quella Hollywood d’oro, si evince anche da “Throwing the gun”, dove il tema del sax trascorre in pochi secondi dal cupo e ovattato suono di celli e bassi all’urlo imperativo degli ottoni. E, a proposito di marce funebri, “Dead pigeons” individua a partire dal quartetto d’archi per estendersi poi a tutta la sezione un’ulteriore idea in modalità di nenia mestissima le cui atmosfere sembrano anticipare di quasi un trentennio quelle del notturno per flauto e orchestra “Halil”, che Bernstein comporrà nel 1981; la coda tuttavia è affidata a un sublime intarsio di trombe e legni fra il tema iniziale dell’”Andante con dignità” e il love theme. Un intreccio di sentimenti e pensieri che Bernstein traduce mirabilmente in contrappunto.
 Proprio quel canone torna, volitivo e inappellabile, fra archi legni e ottoni, in “The challenge and the fight”, precedendo il riapparire dell’allegro esagitato di “Scramble” chiuso, sul picchettare dei flauti, dagli archi con il tema del sax.
 Ed infine l’epilogo di “Walk and End title”, ovvero la sofferta, penosa ma vittoriosa camminata finale di Terry che trascinerà dietro di sé i compagni finalmente alleati e ribellatisi alle vessazioni del boss: si inizia con una versione rallentatissima di “Scramble” per passare attraverso ulteriori brevi variazioni dell’Andante con cui si era cominciato (particolarmente suggestiva una per arpa), che esplode nella propria luminosa potenza di canone, sul quale la tromba acuta innalza il love theme, il tutto scandito in controtempo dai timpani. Pagina di una potenza epica senza eguali.
 Pregevoli anche quattro extra con versione alternativa dei Main title, un blues fischiettato sul tema del sax, ma soprattutto, come source music, il corale organistico 67 BWV320 “Gott lbet noch” di Johann Sebastian Bach nella trascrizione dello stesso Bernstein: quasi il simbolico sigillo ascetico impresso ad una partitura geniale, e che fa parte integrante del suo status di “musicista totale”.

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