I, Tonya

cover i tonyaPeter Nashel/AA.VV.
Tonya (I, Tonya, 2017)
Milan Records M2-36927
3 brani di commento + 13 canzoni – Durata: 67’06”



Resoconto della tormentata vita della pattinatrice artistica su ghiaccio Tonya Harding - dagli abusi della madre fino all’incredibile scandalo sportivo di cui è stata protagonista e oltre - I, Tonya ha tutte le carte in regola per compiacere anche gli spettatori più insofferenti alla dilagante moda del biopic. Pochissima tenerezza e molta crudeltà fanno infatti di questo film (non poco debitore del cinema di Scorsese e dei Coen) un interessante unicum nel genere: più che la celebrazione della tenacia della Harding (che diverrà poi anche pugile e farà financo l’attrice in un film d’azione di serie b) si mette in scena il vero e proprio calvario di un’artista superlativa, sopraffatta infine dalla stupidità umana che la circonda.

Dal punto di vista musicale, gli avvenimenti sono contrappuntati soprattutto da un’eccezionale compilation di brani provenienti dalle epoche più diverse: dalla Doris Day degli anni ‘50 fino all’hip hop di Mark Batson (“To Love Me”), mentre il breve commento originale di Peter Nashel - appena dieci minuti in totale - si tiene sulla media qualitativa di una discreta musica da docu-drama. Solo a tratti (gli arpeggi meccanici di archi e piano e le sottolineature del coro di “Tonya Suite”) il compositore tende la mano al minimalismo di Philip Glass, e solo in un frangente, ovvero nel finale di “The Incident”, riesce a cogliere il tono velenosamente sarcastico del film. Non si può tuttavia biasimare un musicista cui è stato dato così poco spazio per esprimersi: la parte grossa - s’è detto - è composta dalle songs, le quali nella loro diversificazione riescono a fornire un quadro musicale appropriatamente disorientante.
Si veda, ad esempio, come dal punk depresso dei Violent Femmes (la geniale “Gone Daddy Gone”) si passi bruscamente al jazz nostalgico di Doris Day (“Dream A Little Dream Of Me”), e come poi sopraggiunga, come sangue rappreso sulla neve, la voce angosciante di Siouxsie Sioux per la cover di “The Passenger” di Iggy Pop. Non mancano scelte più furbe, come attesta la presenza delle romantiche “Romeo And Juliet” (dei Dire Straits) e “How Can You Mend A Broken Heart” (di Chris Stills), ma in un panorama musicale così schizofrenico - da “Devil Woman” di Cliff Richard a “Barracuda” degli Heart - finiscono per apparire piuttosto come ironiche canzonature di un sentimentalismo illusorio. “Goodbye Stranger” dei Supertrump e “The Chain” dei Fleetwood confermano poi la forte presenza di brani degli anni’70, decennio in cui la Harding ha trascorso la sua difficilissima infanzia.
Una soundtrack prevalentemente “non originale”, dunque, in cui si sente forse la mancanza di un contributo “originale” più nutrito e in grado di entrare in maniera più ficcante nelle pieghe di questo tonitruante racconto di violenza e frustrazione.

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