Nude...si muore & Le vergini cavalcano la morte & L'ira di Achille

Carlo Savina
Nude… si muore (1968)
Beat Records CDCR 133
19 brani – durata: 58:02

Carlo Savina
Ceremonia sangrienta aka The Legend of Blood Castle aka Le vergini cavalcano la morte (1973)
Quartet Records QR-224
11 brani – durata: 38:57

Carlo Savina
L’ira di Achille (1962)
Digitmovies DGST014
29 brani – durata: 73:56

Carlo Savina appartiene a buon titolo alla golden age della musica italiana per il cinema ovvero il periodo intercorrente fra i primi anni Sessanta e (con tanta buona volontà) la seconda metà degli Ottanta, e il suo nome e le sue composizioni non sfigurano accanto ai blasonati Nino Rota, Ennio Morricone, Riz Ortolani, Piero Piccioni, Gianni Ferrio – per tacere dei tanti altri che contribuirono, nel loro piccolo, a rendere grande, bella e gloriosa la nostra cinematografia. Fornito di un background di prim’ordine (studi al Conservatorio di Torino e successivo perfezionamento alla Chigiana di Siena; diploma in composizione, direzione d’orchestra, pianoforte, violino e musica corale; primo violino dell’orchestra della RAI – una formazione solida che, sia detto per inciso, il più delle volte difetta nelle nuove leve), duttile ed aperto a tutti i settori della musica compreso il versante “leggero”, abile direttore (ha diretto molte partiture di Nino Rota, Philippe Sarde,…), attivo nel cinema dalla seconda metà dei Cinquanta sia come compositore sia come “direttore musicale”.

La sua filmografia è estesa e abbraccia tutti i generi, dal peplum al western, dalla fantascienza al thriller, dalla commedia all’horror. Di lui ha scritto Ermanno Comuzio: “Ha […] dalla sua un argomento formidabile: il suo mestiere gli piace, lo ha scelto lui, e ama farlo bene” (1). Ed Ennio Morricone lo ha definito “un eccellente compositore e direttore d’orchestra” (2). Proprio nel cinema di genere ha dato di sé il meglio, rivestendo di note eleganti e suadenti pellicole non sempre eccelse e che pure, grazie anche alla sua musica tesa a sottolineare la drammaturgia filmica attraverso “effetti” di prima qualità, acquisivano uno status più che dignitoso. In sintesi, un abilissimo artigiano e non solo, la sua musica vive in quella zona limitrofa ed ambigua ove artigianato ed arte – per usare una terminologia generica e tuttavia comoda - si (con)fondono con esiti suggestivi e risultati durevoli (e “artista/artigiano” lo aveva già definito Comuzio).
A partire dal nuovo millennio si è assistito ad una riscoperta del compositore da parte di numerose etichette specializzate (nel quadro di un più vasto recupero del nostro patrimonio cine-musicale), molti suoi lavori inediti hanno visto la luce consentendo di definirne con maggiore precisione il profilo. Tra il 2016 e il 2017 sono usciti tre titoli di indubbio interesse e per la loro rarità e per la qualità intrinseca della musica. Si tratta del peplum L’ira di Achille, dello pseudohorror Ceremonia sangrienta e del thriller Nude… si muore, ad opera rispettivamente della Digitmovies, della Quartet Records e della Beat Records – tre etichette che non abbisognano di presentazione.

Nude… si muore, diretto da Antonio “Anthony M. Dawson” Margheriti (in origine doveva essere Mario Bava che diede forfait per girare Diabolik) nel 1968, appartiene al filone del thriller cosiddetto preargentiano. Il titolo, fumettistico e ad effetto come allora si usava, promette più di quanto concede (la censura all’epoca legava le mani): le avvenenti fanciulle ospiti di un collegio per ragazze facoltose in Francia e sistematicamente assassinate appaiono al massimo parzialmente discinte, gli omicidi sono più allusi che mostrati nella loro efferatezza rispetto a come sarà in seguito (si pensi, per portare un solo esempio, a La bestia uccide a sangue freddo – Fernando Di Leo, 1971 -, ben più spinto sul versante erotico e assai più esplicito nella raffigurazione delle morti). Pur moderato, il film non manca di atmosfera, Margheriti gioca bene sugli spazi chiusi, sui volti, sull’attesa dell’evento feralmente risolutivo; annacquano la tensione alcuni momenti sentimentali, certi toni da commedia, i siparietti pseudosaffici.
Ciò premesso, e passando alla musica, occorre subito rimarcare l’eccellente fattura del commento – come un tempo si era usi denominarlo - del maestro Savina (già Marco Giusti aveva parlato di “grande colonna sonora [sic]”(3)), non nuovo a collaborare con Margheriti (il sodalizio tra i due era iniziato nel 1966 e proseguirà sino al 1982, con prove autoriali come il gotico paranormale Contronatura del 1969 e il western-horror E Dio disse a Caino… del 1970). Si privilegia il versante tensivo della vicenda (delle diciannove tracce ben tredici sono scary music declinata in tutte le possibili sfaccettature), senza peraltro ignorarne le componenti più morbide e rilassate e tuttavia senza esagerare ed evitando in tal maniera toni e timbri fastidiosamente soft. Ché anzi gli esiti migliori si realizzano quando le due modalità si associano, mescolandosi ed alternandosi come avviene nelle Seq. 5, 6, 16 e 17. “Seq. 5” (traccia 6) esordisce con un fraseggio discontinuo del sax che inaugura una sorta di balletto sfociante in melodia per organo e piano cui seguono glissandi degli archi con effetto di pantomima stilizzata per concludere in piena minaccia con archi in tremolo e crescendo). “Seq. 6” (traccia 7) dalla durata ragguardevole di 6'01” (che consente alla musica di svincolarsi dalla tirannia dei sincroni e di rigettare vittoriosamente l’accusa – una fra le tante - spesso mossa alle note scritte per il cinema, ovvero l’impossibilità di sviluppo proprio a motivo della durata delle immagini e/o sequenze) è un microcosmo mosso e diversificato: percussioni, piano ed archi effondono note isolate, disperse; tale clima sospensivo approda ad un inattesa apertura melodica affidata dapprima ad una chitarra lenta arpeggiante su di una base di archi vellutati, in seguito il motivo è ripreso dall’organo, torna la chitarra rimpolpata questa volta dalla massa degli archi divenuti ora protagonisti, si conclude tensivamente con sax cupo ed archi in tremolo. Sulla durata e sui continui trapassi giocano anche le seq. 14 e 15 (tracce 16 e 17). La prima ripropone in parte “Seq. 6”; la seconda è di una staticità estenuante esposta dagli archi immoti e poi dall’organo sibilante sopra confusi borborigmi, si dinamizza un poco con l’intervento del piano che quasi improvvisa scale e martellati decisi mentre gli archi divengono isterici, subentrano improvvisi e graditi chitarra ed archi addolciti per una pausa cantabile ed illusoria, segue infatti una breve coda minacciosa. Dei brani esclusivamente di tensione, la perla è “Seq. 10” (traccia 12) che vanta una durata di 7'22” e anche in ragione di ciò si dà come sintesi dei vari e sparsi momenti di suspense presenti nella partitura. Il ben noto inciso sibilante dell’organo viene replicato ossessivamente e funge da collante tra i vari segmenti, momenti statici si alternano a spazi sonori più articolati (percussioni), ad un certo punto si inserisce il sax che letteralmente urla sugli archi ipertesi e sovracuti in un crescendo bruscamente interrotto. Da segnalare ancora in questo primo ambito semantico e timbrico le Seqq. 12-13 (tracce 14-15), formidabile dittico ove troviamo percussioni, sfondi di organo, effetti terroristici in un contesto di immobilità progressiva (“Seq. 12”), nevrotiche scale al pianoforte e solfeggi di un sax minaccioso e démodé (“Seq. 13”). Musica ben fruibile in sé e assai efficace nel film che proprio grazie ad essa recupera l’implicito potenziale ansiogeno e malsano che non sempre lo script riesce a mantenere (4).
Il secondo nucleo dell’OST gravita attorno al brano “Nightmare” (e Cry Nightmare doveva in origine essere il titolo per il mercato internazionale) proposto in versione cantata (“Titoli vocal”, traccia 1) e strumentale (traccia 9) e citato in altri momenti della score. Interpretato da Rose Brennen (della quale poco o nulla si sa) su testo di Don Powell (nome/nume ben presente in quegli anni, anche in veste di interprete), è un motivo di gusto pop, assai ritmato e dinamico, con impiego a tutto tondo di percussioni, fiati, archi e coro urlante Nightmare Nightmare…: un poco freddo, anche se in taluni momenti accenna a sciogliersi in una cantabilità più distesa; comunque godibile. Nella pellicola risuona sullo scorrere dei titoli di testa. Chi lo sa se pensava proprio a questo pezzo Paolo Mereghetti che nel suo Dizionario dei film parla di “colonna sonora superkitsch di Carlo Savina” (5). La versione strumentale, ove la voce non particolarmente suggestiva della Brennen è sostituita dall’orchestra ed archi e fiati si dispiegano energici talora con effetto big band, è di più certa e coinvolgente presa. “Nightmare” (titolo escluso) sembrerebbe poco in sintonia con il resto della musica, quasi un “a parte” (a differenza di altre OST nelle quali il melodico/orecchiabile è contraltare sensuale alla brutalità degli omicidi riservati alle vittime, per lo più di sesso femminile); ma poi, a ben ascoltare, la cellula melodica originaria viene recuperata proprio nei momenti più tesi, ad esempio nelle già ricordate sequenze 12 e 13, sia pure attraverso citazioni rapidissime del frammento “Nightmare”, e in forma più estesa e variata in “Seq. 11” (traccia 13): riprese che conferiscono al tutto organicità e compattezza. Proprio “Seq. 11” regala una piacevole sorpresa, il motivo si innesta su di un accompagnamento di clavicembalo (o pianoforte a puntine) in ritmo e basso elettrico che gli conferisce concitazione ed espressività. Dopo l’incipit tensivo attacca il leitmotiv in versione quasi “poliziottesco” (in effetti compaiono qui una timbrica ed una ritmica che richiamano tutto un sound dell’epoca, si pensi mutatis mutandis a certe cose morriconiane o di Stelvio Cipriani o di Franco Micalizzi: al di là delle differenze, certi suoni erano in quegli anni nell’aria, uno “spirito del tempo”). Se si dovesse dare un titolo, potrebbe essere “Pursuit”. Davvero bello e coinvolgente, vale da solo l’intero CD.      
Completano “Seq. 2” (traccia 3), balletto comico-grottesco che apre nuovi impreveduti paesaggi melodico-timbrici, ripreso brevemente in “Seq. 17” (traccia 19), conclusione festosa o forse solo stralunata di una partitura piena di risorse; “Seq. 3” (traccia 4), ballabile anni Sessanta molto leggero e non particolarmente significativo; “Seq. 16” (traccia 18) che riprende il segmento melodico già udito in abbinamento alle sonorità dissonanti, questa volta da solo e con una diversa e superba orchestrazione (non si dimentichi che Savina aveva negli anni Cinquanta dato vita ad un’orchestra di musica leggera e conosceva bene la nobile arte dell’arrangiare): il motivo, esposto da una sorta di organetto su ritmo lento-ballabile (effetto night club garantito) e istoriato da un piano delizioso introduce una pausa melodica e morbida all’interno di uno spartito in prevalenza teso e graffiante. Insomma, nude sì; ma soprattutto -nude o vestite-, si muore.

Con Ceremonia sangrienta siamo nei paraggi dell’horror. Il film di Jorge Grau, coproduzione italo-spagnola datata 1973, mette in scena una discendente della famigerata Erzsébeth Báthory (6) (la vicenda si svolge nel primo decennio dell’Ottocento con location spostata dalla Slovacchia alla Spagna), l’ungherese “contessa Dracula” cui sono attribuite le ben note nefandezze da lei perpetrate tra fine Cinquecento – inizio Seicento, ovvero bagnarsi nel sangue di vergini fanciulle per garantirsi imperitura giovinezza. Non più in fiore per quanto ancora bella, in crisi matrimoniale (il marito le preferisce i falconi e le fresche villanelle), tormentata da pensieri di vecchiaia e di morte, tenta ella pure di fermare il tempo rinverdendo le gesta della diabolica antenata con l’aiuto di una serva fattucchiera e del marito che provvede a sgozzare le sacrificande di turno. Dopo avere accoppato il conte da lei medesima sorpreso a sollazzarsi con una delle giovani prima d’immolarla, confessa anche gli altri delitti e sarà murata viva nel suo palazzo insieme con la serva, alla quale è stata mozzata la lingua. L’ultima tremenda immagine – l’unica autenticamente horror - mostra una mano che accumula ciotole di cibo non consumato e sullo sfondo lei, la Contessa, immota invecchita, lo sguardo perso in un vuoto atroce. Il film è malriuscito, la regia sciapa (sembra che Grau sia stato assistente di Sergio Leone ne Il colosso di Rodi e tuttavia non pare avere assimilato alcunché della lezione del grande cineasta; occorreva qui ben altra mano, ben più possente forza visionaria e trasfiguratrice: si pensi a come avrebbero trattato la vicenda un Argento, un Fulci, un Massaccesi…), atmosfera poca, sangue il minimo sindacale (in una vicenda che pur di sangue gronda), recitazione approssimativa. Si salvano Lucia Bosé bella e tirata, intensa nei silenzi e negli sguardi, ipnotica nella sua declinante maturità che s’ingoia in un boccone le jeunes filles appetite dal conte (c’è anche Ewa Aulin…) e successivamente mandate al macello per i cruenti lavacri della dark lady; e – appunto - la musica. Assistiamo anzi ad un fenomeno curioso anche se non infrequente: la musica “funziona” meglio fuori che dentro il film. Percepita alla men peggio (colpa di un pessimo missaggio) lungo lo scorrere dei fotogrammi, è una stinta tappezzeria sonora e quasi non si sente, non partecipa, non si fa diegesi. Ascoltata in modalità autonoma, come “musica assoluta” cioè a dire non legata ad un’altra forma d’arte, acquisisce valore e dignità impensati. Il che va tutto a lode del compositore, e a disdoro del regista cui, in quanto supremo artifex, spetterebbe il compito di valorizzare ed armonizzare le molteplici componenti dell’opera collettiva che è il film.
Prevalgono – com’è giusto - i timbri cupi. Un colore oscuro, perso (7), pennella le note e neppure chi ascolta nell’intimità domestica riesce a prendere le debite distanze e a sottrarsi (in piena sospensione d’incredulità) al disagio e all’inquietudine. I “Main Titles”, concisa ouverture (1'55”), contestualizzano una delle anime della storia, quella “esterna” (non mancano i riferimenti al vampirismo con relative pratiche esorcistiche, in un clima da Inquisizione): percussioni in ritmo binario e coro salmodiante in ascesa (ennesima bella prova dei Cantori Moderni di Alessandroni) sono la “cornice” (sonora e tematica) della partitura, l’involucro che imbozzola il privato aberrante all’interno del maniero e per il quale il maestro torinese scrive note ad hoc e ad personam. Un prologo insomma, ripreso ed aumentato (nella durata e nell’orchestrazione) in “Night Terror” (attacco tesissimo, coro litaniante solennizzato dai fiati, pausa affidata ad archi minaccevoli, ripresa corale in martellante crescendo sino alla brusca chiusa), in “Hungry Ghosts” (nuovamente il coro questa volta contrappuntato da altre voci fantasmatiche, poi solo ritmo percussivo binario che ad un certo momento raddoppia con splendido effetto sospeso e vagamente tribale); nel “Finale” con attacco funebre e pomposo del coro seguito da una voce femminile isolata dapprima in seguito fluttuante su piano ed archi, canto che si fa via via più definito e pieno e si spegne su accordi del cembalo. Il coro nell’esordio e nella conclusione salda il cerchio, con l’aggiunta della componente “virginale”, altra presenza importante dell’OST e infatti già udibile in alcuni precedenti passaggi. La voce femminile si percepisce la prima volta in “Devil’s Hunt”, poi in “The Haunting”. E’ una voce di bambina, o adolescente, che intona una breve cantilena in sé tranquillizzante, se non fosse che ad infrangere l’idillio di facciata intervengono il pianoforte in scala bassa ascendente, le percussioni, lo sfondo inquieto e precario che offusca la melodia replicata dall’arpa e ancora dalla voce di fanciulla in chiusura; detta voce si fa strada a fatica in “The Haunting” su di un ritmo franto di archi e strumentini e tra scale del clavicembalo. Una nota cromatica diversa all’interno di un’opera al nero e per ciò destinata a dissolversi, affogata nelle onde di pece dopo faticosi annaspamenti e vani tentativi di emersione dal maligno magma sonoro.
Una terza sezione ingloba le tracce “Dark Presences”, “Into Hell” e “Bloody Ceremony” le quali potrebbero venire accorpate in un unico segmento (ma il discorso potrebbe valere anche per gli altri due blocchi presi in esame) poiché mostrano parecchi elementi comuni per quanto con sottigliezza variati. Costante è il violino, preceduto da archi mesti e funerei, che sullo sfondo ombroso dei contrabbassi intona una melodia discontinua su registro inizialmente acuto in seguito più greve, con interventi saltuari di ocarina e flauto ed effetti vari di minaccia risuonanti nel vuoto e negativamente presaghi. Carico d’una tristezza angosciosa ed angosciata, il canto del violino si risolve in una melopea carica di pena, è grido strozzato che non sa liberarsi, anima un universo concentrazionario ed autoreferenziale (i semioscuri corridoi del castello, il sangue lustrale sulla pelle della Contessa; ma soprattutto le sue ossessioni tormentanti, la criminale coazione a ripetere). E’ questo senza dubbio il “tema di Erzsebéth”, la sua voce d’insoluta disperazione, il suo umor nero (melancolico), il suo esser creatura fragile e demoniaca insieme (e il violino è strumento per eccellenza “satanico”), carnefice di se stessa e d’altrui. Il compositore ha sentito (diremmo “interpretato”) il personaggio nelle riposte ambigue pieghe ed ha concepito un fraseggio destrutturato (è un frammento melodico, non una successione lineare, di continuo interrotto da presenze disturbanti, sporcato da suoni tenebrosi ed atri) che conferisce profondità di tormento e di delirio alla Contessa Nera: la musica la rende complessa ed umana, troppo umana, assume un senso catartico, diviene pietas.
Ai tre momenti, o movimenti (piace immaginare le OST come composizioni unitarie da idealmente ricomporre in un continuum ove si alternano andanti, adagi, pianissimi e fortissimi, sezioni strumentali e corali, tonalità, atonalismo ed alea…) del coro – la cornice storico-sociologica -, della voce muliebre cioè le vergini da offrire alle brame malsane della Contessa, del violino-voce di Erzsebéth, i quali si alternano e rincorrono senza una struttura definita e “chiusa” (verace specchio della dominante disarmonia), si aggiungono due pregevoli tessere che incrementano in quantità e qualità il livello già elevato della partitura. La prima, “Maidens Ride Death”, echeggia il titolo del film e dovrebbe presentarsi come la sintesi, l’anima della storia e della musica da essa ispirata. In realtà il lungo brano (8'39”) riprende in parte il materiale già noto (un accenno soffocato al tema della voce virginea esposto dal pianoforte); per il resto, è suspense allo stato puro. Apre con contrabbassi sinistri (lo stilema del contrabbasso, tòpos conclamato della musica cinematografica di ogni epoca, oggi invero poco usato e pur sempre efficace), seguono le ben note percussioni binarie corredate da effetti sospensivi e brevi incisi minatori, poi le note solitarie del piano che accenna il motivo delle vergini destinate alla mattanza (presenze melodiche irrisolte e in seguito più definite, quasi una nenia un poco stonata), riprende il ritmo binario e poi di nuovo il piano cantilenante per concludere con una certa grandiosità e spegnersi nel nulla. Composizione che è l’antitesi dell’orecchiabilità, vi prevale la tensione statica che ne amplifica la durata; un’autentica prova di forza per chi ascolta, un esercizio di concentrazione paziente ed insieme di puro abbandono al fluire dei suoni che in fine ripaga ed appaga. Ma anche prova di virtuosismo del compositore, esercizio di stile sui loci communes della musica di tensione, così necessaria nel cinema e del pari soggetta a sclerotizzarsi in formule di repertorio, intercambiabili e buone per tutte le stagioni. Sarebbe troppo affermare che il brano può aspirare a dignità concertistica?
Se “Maidens Ride Death” non si discosta per organico, struttura e spirito dal resto della score, “Harpsichord Concert” apre un paesaggio differente – per quanto connesso al narrato filmico in forma esplicita ed implicita. E’ di sicuro un pezzo a la maniere de, un’esercitazione per clavicembalo solo che procede per piccoli tratti e scale separati da brevissime pause. Il brano risulta tutt’altro che freddo, l’intonazione è drammatica, il ritmo febbrile e assai mosso (rade le più distese intonazioni malinconiche). Musica d’ambientazione si potrebbe dire, richiamante aristocratici salotti; ma a suonarla è il conte, e proprio quando la moglie si bagna nel sangue cosmetico: per cui dal livello interno si passa a quello mediato e le note trascolorano da presenze esornative a narrazione in sottotraccia: vi si fondono mistero, avvisaglie premonitrici, spleen e soprattutto un’esasperata esaltazione omicida. Dal salotto ove “ascoltare un poco di musica” si passa alla stanza degli orrori, dall’eleganza nobiliare al sangue che asperge la pelle di seta della Contessa. E’ l’unico caso di utilizzo non banale e parecchio intrigante – per l’ambiguità indotta dal doppio compresente livello.
Al termine dei 38'57” si consolida l’impressione d’una musica emancipatasi dalla (presunta) funzione ancillare aprioristicamente attribuitale ed ascoltabile “a prescindere”. E dunque molto bene ha fatto la Quartet Records (non nuova ad operazioni al limite dello spericolato, si pensi alle malnote e forse ignote ed ora redivive partiture di Alfonso Santisteban per El asesino de muňecas e Necrophagus qualche mese fa editate in limited edition di 300 copie) a riesumarla dagli archivi della C.A.M. per quanti dell’ottava arte amano dilettarsi e per tutti i consapevoli che “oltre Sanremo c’è di più”.

Sempre da quel pozzo di san Patrizio che è la C.A.M. ha attinto la Digitmovies per la pubblicazione dell’inedito L’ira di Achille, peplum ispirato all’epopea omerica diretto nel 1962 da Marino Girolami, interpretato fra gli altri da Gordon Mitchell, Cristina Gajoni, Fosco Giachetti. In quegli anni il genere andava, negli U.S.A. (ma gli Americani giravano da noi, la celebre “Hollywood sul Tevere”) quanto in Italia, e i compositori si adoperavano a rivestire di reboanti note i kolossal hollywoodiani e i ”sandaloni” di casa nostra con esiti talora d’eccellenza (dire Miklos Rozsa è l’ovvio coincidente con il giusto; fra gli italiani i nomi di riferimento sono Mario Nascimbene, Angelo Francesco Lavagnino, Roberto Nicolosi), più spesso di medio artigianato. Era inevitabile che anche Savina rimanesse coinvolto in operazioni del genere (come anche De Masi, Ortolani, Rustichelli…).
Arruolato per L’ira di Achille, il compositore appronta una colonna musica di alto livello e collaudata professionalità. Ascoltando l’abbondante materiale recuperato e rimasterizzato in mono da Claudio Fuiano (deus ex machina di tante eccellenti operazioni di archeologia filmicomusicale), oltre 70’, si rimane ammirati di fronte alla perizia del maestro Savina che, da provetto “musicista del cinema”, si destreggia spigliato fra gli stilemi propri del genere e miscela pagine epiche, cromatismi bellici, suspense, pause bucoliche e sentimentali, il tutto non senza echi rozsiani qua e là diffusi (Savina aveva incontrato Rozsa in occasione di Ben Hur (8); e poi, era allora impossibile sottrarsi all’influsso del grande maestro ungherese – proprio come, qualche anno dopo, per i western sarebbe stato ben difficile emanciparsi dalla pesante presenza morriconiana). Nulla manca e tutto si amalgama, sinfonico e lussureggiante. La bonus track che chiude il CD (in stereo e ricostruita a posteriori come si legge nelle note allegate), nei suoi quasi 9’ di ben legati trapassi raccorda in una godibile suite i nuclei fondamentali della score. Nondimeno, in quanto summa, non può dare pieno conto delle numerose e ben studiate varianti dei temi principali e neppure dei suggestivi momenti “atmosferici”.
Nucleo fondante e generatore sono i “Titoli”: all’incipit sontuoso dei corni e degli archi segue la distesa solennità della piena orchestra (il modello rozsiano è dietro l’angolo) che si frange poi in pause e riprese melodiche intervallate da momenti più mossi. Il che è, a ben intendere, una delle cifre stilistiche della partitura. Non troviamo l’effusione epico-lirica-sentimentale prolungata; piuttosto, un dinamismo perenne di accelerazioni e rallentamenti, di suoni pregnanti e segmenti asciugati, di climax preparatori ed esplosioni più o meno contenute di strumenti e ritmi. Ripreso in più punti (come in “Solitaria malinconia”, breve adagio per violino e orchestra, bella atmosfera bucolica), il tema ritorna nel “Finale” ove all’avvio in pianissimo succede il motivo iniziale in solenne chiusa, e si inserisce come un DNA sparsamente nel testo musicale. Molte poi le pagine epiche e celebrative a sottolineare i momenti eroici e quelli propriamente bellici. “Achille, l’eroe” è un inno frantumato: archi con fiati in fanfara ma anche pause sospese. “L’ira funesta” apre con un coro quasi gemente che di seguito si anima, diviene grido mentre l’orchestra interviene con ripresa del main theme. Coro magniloquente ed archi contrassegnano “L’ultima battaglia”, orchestra e fiati spiccano in “La vendetta di Achille”. Facile il rischio di deriva pompieristica in simili frangenti; il musicista lo evita mantenendo una misura che si può ben definire “classica” (se classicità è controllo delle passioni ed equilibrio nella loro rappresentazione) e che potrebbe talora essere scambiata per freddezza. Invece il pathos non manca, salutarmente controbilanciato dalle frequenti interruzioni del flusso melodico. Anche nelle sezioni pensate per gli attacchi e le battaglie prevale la sobrietà. Ascoltate in sequenza e idealmente raccordate, comporrebbero una “sinfonia bellica” ove attesa e azione si inseguono ed armonizzano: corni, trombe e tromboni, tamburi ora rullanti ora in sordina, pizzicati e tremoli degli archi su sfondi probabilmente sintetici, timbri grevi dei contrabbassi, coro, sospensioni fascinose evocanti “paesaggi dopo la battaglia” sono gli elementi che dominano in “L’attacco”, “L’attacco continua”, “Battaglia sanguinaria”, “Seconda battaglia”, “L’ultima battaglia” (e si badi alla dizione molto esplicita, che potrebbe ricordare certi titoli di strips degli anni Cinquanta & Sessanta e che, riferita alla musica, evoca i Music Sheets utilizzati all’inizio del sonoro; titoli elementari, referenziali, ai quali corrisponde una più complessa e sfumata materia di suoni). Pagine più tranquille sono il già menzionato “Solitaria malinconia” e poi “Attimi d’amore” (brano molto disteso e lieve su organico prevalente di flauto ed archi, origina un clima romantico senza enfasi), “Incontro” (affidato a flauti orientaleggianti che conferiscono una grata patina d’antico – come anche in “Intrighi a palazzo” ove flauti e legni vari intonano cadenze prossime all’immobilità propria della musica orientale). La componente “d’atmosfera” prevale in “Piani notturni” (legni ed archi in sospensione), “Apparizione” (tipico esempio di musica “sovrannaturale” e visionaria), “Il tranello” (tensivo preparatorio con percussioni sole su indefiniti brontolii), “In pericolo” (archi in registro basso che poi si acutizzano su accordi d’arpa), “Piano strategico” (archi sordi evolventi in moto drammatico), “In azione” (melanconico tensivo statico per archi ed oboe). Taluni interventi sottolineano situazioni specifiche e adornano di novelli colori la già screziata tavolozza: “Fanfara e gong” apre un breve intermezzo (0'37”) per l’organico indicato; “Cerimonia” introduce un ottimale (0'38”) coro monodico; “All’alba” evoca una sfumata temperie prelucana; “Alla corte” è una fascinosa parentesi per arpa e voce femminile – una sorta di “interno cortigiano”; “Funerale” (in due tracce separate) una trenodia aperta da coro maschile su tamburi sommessamente rullanti, segue un interludio con legni, poi archi e fiati in eco. Tale “tema funerario” ritorna nella suite conclusiva, di cui è la struttura portante.
Questo Ira di Achille risulta in conclusione un piccolo grande poema sinfonico sulle gesta degli antichi eroi e di sicuro superiore alle modeste immagini per le quali fu pensato. Non è la prima volta né sarà l’ultima: il matrimonio tra cinema e musica s’ha da fare e tuttavia non sempre v’è armonia tra i due partners, e spesso a distinguersi in positivo è proprio la musica la quale, preservata e decontestualizzata, torna ad essere se stessa, puro suono e dialogo fra strumenti senza forzati ed artificiosi legami con ciò che è altro da sé; e si trasforma, da musica per l’immagine, in musica per l’immaginazione. De la musique avant toute chose.

NOTE

1: Voce SAVINA, Carlo in E. Comuzio, Colonna sonora. Dizionario ragionato dei musicisti cinematografici, Roma, Ente dello Spettacolo, 1992, p. 529.
2: E. Morricone, Inseguendo quel suono. La mia musica, la mia vita. Conversazioni con Alessandro De Rosa, Milano, Mondadori, 2016, p. 18.
3: M. Giusti, Dizionario dei film italiani stracult, Milano, Sperling & Kupfer, 1999, p. 517.
4: Un anonimo recensore dell’epoca disapprovò invece l’utilizzo della musica: “[…] la musica poi, sottolinea spasmodicamente tutti i momenti tragici, e addirittura li anticipa di qualche minuto, con un effetto ossessionante ma privo di alcuna vera tensione” (Vice, “Il resto del Carlino”, 11.08.1968; cit. in A. Poppi-M. Pecorari, Dizionario del cinema italiano – i film, vol. III, Roma, Gremese, 1992, p. 365).
5: P. Mereghetti, Dizionario dei film 2002, Milano, Baldini & Castoldi, 2001, p. 1442
6: Figura che non poteva invero sottrarsi alle brame della settima arte, e infatti v’è gran copia di titoli da lei ispirati con mutazioni e varianti d’ogni tipo, tra i quali il terzo dei Racconti immorali del regista polacco Walerian Borowczyk. Per una filmografia della Sanguinaria, A. Conti – F. Pezzini, Le vampire. Crimini e misfatti delle succhiasangue da Carmilla a Van Helsing, Roma, Castelvecchi, 2005, pp. 286-297.
7: “Lo perso è uno colore misto di purpureo e di nero, ma vince lo nero, e da lui si dinomina”: così Dante in Conv. IV, XX.
8: .

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