Silence

cover silenceKim Allen e Kathryn Kluge
Silence (Id., 2017)
Rhino Records RWAC559628.2
25 brani – Durata: 51’54”

Il Naturlaut, o “suono di natura”, è un concetto che si fa generalmente risalire al pensiero musicale di Gustav Mahler, che lo annotò come precisa indicazione agogica all’inizio del primo movimento della sua Sinfonia n.1 “Il Titano”. Con esso si intende la volontà di riprodurre con mezzi autonomi un suono di matrice naturalistica e ambientale al fine di inserirlo comunque nel contesto di un apparato e di un’architettura musicali. Si tratta di qualcosa che va oltre il semplice descrittivismo di matrice tardoromantica ma che confina piuttosto con i territori delle avanguardie, situandosi in posizione trasversale rispetto ai generi, e che ha affascinato diverse scuole e figure compositive, dal minimalismo di Philip Glass all’”ambient” di Brian Eno, senza parlare della sua fortissima influenza nella cultura New Age.

 Questa è solo una delle dimensioni attraverso cui si muove l’irrequieta e poliedrica figura di Kim Allen Kluge, compositore, produttore ed estroverso direttore d’orchestra americano che insieme alla moglie Kathryn forma un “team” distintosi negli anni per una inesausta ricerca culturale che dalla matrice inequivocabilmente classica li ha condotti a sperimentare tecniche, atmosfere e forme delle più diverse. Celebre in tal senso il loro “American Concerto” per pianoforte e orchestra del 2016, di ispirazione sontuosamente neoromantica: meno noto e più ridotto, sinora, il loro apporto al cinema, iniziato nel 2009 con la partitura per il dramma indipendente Sleeping and Waking di Joe Banno e proseguito poi in alcuni cortometraggi.
 L’impresa di Silence rappresenta senz’altro la fatica più impegnativa dei coniugi Kluge, stanti lo spessore profondamente spirituale e nel contempo materico del film nonché il particolarissimo, spesso “scomodo” ruolo che da sempre Martin Scorsese assegna all’elemento musicale del proprio cinema. Ed il misticismo radicale, unito alla devozione per la natura e ad una contemplazione quasi estatica della crudeltà umana, che permea il film, ha prodotto un affresco di suoni che potrebbe richiamare alla memoria il ciclo “De natura sonoris” di Krzysztof Penderecki: non fosse che per il polacco l’esplorazione ai confini della materia acustica passa sempre e comunque attraverso la manipolazione e lo sfruttamento intensivo delle risorse orchestrali, mediante una scrittura per cluster in cui agli esecutori è lasciato un ampio margine di discrezionalità; mentre per i Kluge suono naturale e suono artificiale finiscono per coincidere in un’unica filosofia sperimentale fatta di algoritmi associati a rumori, versi di animali abbinati a pulsazioni elettroniche dal profondo, il tutto governato da un’ingegneria sonora accuratissima e sorvegliata costantemente.
 Al risultato, indiscutibilmente disorientante anche per l’ascoltatore più smaliziato, ha poi contribuito l’apporto in molte tracce del musicista e performer californiano Francesco Lupica e della sua “Cosmic Beam Experience Live”, la cui attività si muove appunto lungo il crinale della sperimentazione acustica più avanzata, e il cui intervento si è già potuto ascoltare nei soundtrack di film come Kong: Skull Island, The Tree of Life e nel discusso (e molto discutibile) documentario no-vax Vaxxed: from Cover up to Catastrophe. Ecco allora che lo scrosciare della pioggia (“Rain falls unceasingly on the sea”) o il frinire delle cicale (i quasi undici minuti immobili di “Meditation”) o il verso di altri animali (“Rhytmic cicadas”) o il soffiare del vento (”Blowing through the grove”), registrati in Giappone da una squadra di tecnici del suono, si intrecciano con fantasmatici assoli di flauto, scheletrici interventi della viola da gamba (“Cosmic Ocean”, “Sea angels”), nebbiosi contrappunti tra cello e apparizioni corali (“Dreams and echoes”), sommessi scampanii sostenuti da una pressoché costante base di pedali bassi (“Sea bells”)…
 Si tratta di un magma solo apparentemente caotico, che va oltre anche lo stesso banale concetto di “sound design”: l’estremismo rumoristico di alcune soluzioni (“Sea monks”) si alterna infatti a precise evocazioni di musica e strumenti locali, sia portoghesi (la “viola de cocho”) che giapponesi (il “biwa”, un liuto a manico corto), con inserimenti dell’organo (“Darkness”) di sapore prettamente liturgico, di cori senza parole (“Whispers in the dark” e “Secret sacrament”), o di lentissimi ma inesorabili crescendo percussionistici (l’impressionante “Ferreira in the pit”). Queste interazioni fra i due aspetti, suono della natura e forme della musica, portano a sovrapposizioni dal valore fortemente simbolico, come in “Cicada voices in his head”, dove il verso stridulo degli insetti si avvicina inquietantemente alle grida dei martiri torturati; o in “Saints and heroes”, dove la cupezza brutale delle percussioni si fa perorazione tribale. Ne deriva che gli stessi strumenti selezionati, in particolare la viola da gamba (“Foreboding sea”), diventano a loro volta “suoni di natura”, mentre questi ultimi nella propria immediatezza perdono ogni aleatorietà per trasformarsi di fatto in “strumenti”: una sintesi ben espressa nel finale “Only God can answer” perfettamente diviso tra il canto della viola e il ritorno, quale profondo richiamo di rigenerazione, delle cicale.
 Lavoro che è anche un’esperienza percettiva e mentale di non facile penetrazione, la OST di Silence ha subìto non a caso l’esclusione, l’anno scorso, dalle nomination all’Oscar per la colonna sonora. Scelta goffa e infelice culturalmente, che da un lato sancisce l’anticonvenzionalità del lavoro dei Kluge ma dall’altro nulla toglie alla sua particolare e vibrante “musicalità”. Piuttosto, ribadisce la miope ristrettezza di vedute dell’Academy, che d’altronde nei decenni di cantonate ne ha prese a non finire, e non solo in questa categoria.

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