A Cure For Wellness

cover cure for wellnessBenjamin Wallfisch
La cura del benessere (A Cure For Wellness, 2016)
Milan Records 36812-2  
17 brani + 1 canzone – Durata: 49’53”

Benjamin Wallfisch è una delle personalità più raffinate tra le molte sbocciate nell’orbita di “Herr” Hans Zimmer; e forse tra tutte è quella che ha conservato i legami più forti con una certa tradizione strumentale classica, probabilmente anche a causa della sua lunga pratica come attento e sapiente direttore d’orchestra: ciò non significa che Wallfisch componga “da direttore”, ossia per mettersi in mostra, ma solo che nella sua scrittura vibrano le suggestioni e le ambizioni di un compositore che sa guardarsi indietro e mettere a frutto tutto ciò che è venuto prima di lui.

 Questo atteggiamento che definiremo di rispetto ma non di sudditanza, unito ad una felice vena creativa, fa di Wallfisch un musicista molto duttile e variegato, capace di adattarsi a molti generi, fra i quali ultimamente (si veda l’imponente e impegnativo lavoro per il remake di IT) l’horror. Che però egli accosta da un’angolazione particolare: non quella dei prevedibili e ormai seriali sussulti o botti terroristici, bensì con un’attenzione al dettaglio psicologico, alla sfumatura e ad una linea compositiva che si muove di preferenza lungo le coordinate dell’insinuazione e di un ambiguo, accattivante ma ingannevole lirismo.
 La score per l’ “horror scientifico” di Gore Verbinski sembra appunto orbitare intorno a questi elementi centrali, e ne è un perfetto esempio il tema principale esposto sin da “Hannah and Volmer”, ossia una soave ma allarmante ninna-nanna esposta da una voce bianca in un tempo di ¾: è una melodia melliflua sfuggente, la cui sinistra orecchiabilità infantile fa venire alla mente l’utilizzo che di voci apparentemente “innocenti” si faceva in certe partiture thriller-horror, non solo italiane, degli anni ’70 e ’90 (si pensi ai Goblin di Argento o al Donaggio di Horror Puppet). Ma sono le stupefacenti trasformazioni di questa idea a renderla oltremodo interessante e originale: mutato in valzer apertamente viennese (“The rite”) o in danza con qualcosa di intrinsecamente demoniaco (“Feuerwalzer”), questo tema sembra oscillare fra una parafrasi del celebre Valzer n.2 dalla “Suite per orchestra di varietà” di Shostakovich (immortalato in Eyes Wide Shut di Kubrick) e una versione più conciliante del valzer goldsmithiano di Legend. Dilatazioni successive, ampiamenti e sviluppi, in un’orchestrazione dai colori scuri e pesanti, deformano, rallentano, distorcono ulteriormente il tema (“Actually I’m feeling much better”, “Clearly he’s lost his mind”) accostando il denso spessore degli archi a sobri ma efficaci interventi elettronici, in un connubio assai ben dosato.
 Con una altrettanto calibrata alternanza cromatica di timbri cupi ad altri di eterea, fragile lucentezza (“Volmer Institut”), di voci celestiali a cori di bassi che sembrano provenire dalla musica russo-ortodossa (“Nobody ever leaves”), Wallfisch ottiene un’instabilità emotiva preziosa per l’atmosfera del film ma anche di grande pregio espressivo: peccato che altrove (“Terrible darkness”, “Lipstick”) si conceda viceversa agli inevitabili stereotipi del genere, con pedali di archi gelidi e dissonanti o rombanti effetti percussivi che poco aggiungono al valore del suo lavoro.
 Appare comunque evidente che il trentottenne maestro britannico punta più sulla suspense che sulla sorpresa ed in tal senso anche pagine esplosive e convulse, di pura scenografia sonora, come “Zutritt verboten” trovano la loro ragion d’essere; ma è pur sempre in quella specie di mondo fatato e insieme incombente che egli evoca lungo morbidi accordi di violini o gocciolanti tintinnìi di celesta che lo stile di questa score sembra brillare con più originalità. Specie se, come in “There’s nothing wrong with you people”, vengono associati ad una deflagrazione selvaggia di percussioni ed effetti vocali da vera anticamera dell’inferno.
  L’intervento poi dell’organo, ad inspessire e avvolgere ulteriormente un sound a tratti massicciamente e volutamente invasivo, come in “Lockhart’s letter”, sottolinea il climax apocalittico e spaventoso, in netto e bellissimo contrasto con la chiusura di “Volmer’s lab”, dove un delicato e timido pianoforte cerca faticosamente di emergere enunciando in modo inizialmente incerto e frammentato il tema iniziale, per poi farlo riprendere dagli archi e dalla voce bianca.
 Va infine considerato come un guizzo di sagace ironia, visto l’argomento da “medical horror” del film, la presenza della cover di “I wanna be sedated”, celebre pezzo dei Ramones, qui nella carezzevole versione della cantante finnico-etiope Mirel Wagner: a cominciare, appunto, dal titolo diciamo così anestesiologico…

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