Logan

cover loganMarco Beltrami
Logan: The Wolverine (Logan, 2017)
Sony Classical
25 brani – Durata: 57’33”



Il successo per certi versi inaspettato di Deadpool, cinefumetto a dir poco sui generis, ha dimostrato alla 20th Century Fox che si possono fare soldi anche con prodotti più adulti rispetto ai coevi film supereroistici targati Disney-Marvel o DC; non che lì ci fosse chissà quanta più sostanza - anzi - ma si rilevava l’intenzione di osare grazie alla presenza di una violenza particolarmente spinta e di un linguaggio (molto gratuitamente, in realtà) scurrile.

Sulla stessa scia, questo nuovo episodio dedicato al supereroe Wolverine ci presenta un Logan invecchiato che usa spesso la parola con la “c” e picchia molto più forte del solito (si sfiora di frequente lo splatter); ma rispetto a Deadpool si respira aria di vero cinema: ambientazioni western splendidamente fotografate - regista e compositore sono gli stessi di Quel treno per Yuma - e belle interpretazioni (sorprendente la giovanissima Dafne Keen) per quella che tutto sommato è “semplicemente” una toccante storia di amore paterno. Niente deliri fantasy alla Justice League, dunque, e la colonna sonora di Marco Beltrami sfodera giustamente sonorità crude e niente affatto “supereroiche”: i “Main Titles” con piano, chitarra elettrica e armonica a bocca blueseggianti a richiamare il doloroso disincanto del protagonista, potrebbero essere usciti da Vampires di John Carpenter, ma è tutto lo score a grondare di atmosfere sudicie che sembrano provenire da un futuro lo-tech come quello del film. Lo sperimentalismo beltramiano deflagra in questo lavoro con una spregiudicatezza di accostamenti timbrici che ricorda, non tanto negli esiti quanto nell’atteggiamento, le partiture per certi western italiani degli anni ’60 e ’70: il pianoforte impazzito e i virtuosismi di tromba alla “Volo del calabrone” di “El Limo-nator”, i glissandi e gli assoli di batteria di “Forest Fight” mostrano una scrittura che concede poco o nulla alla routine dell’action-music elettronica di matrice para-zimmeriana.
Non che gli elementi synt siano banditi da questo lavoro, in cui si fa anzi largo uso di sonorità artificiali soprattutto per tradurre il clima di minaccia che agita l’intera pellicola (“Farm Aid”); ma sono per lo più a sostegno di un prominente senso quasi tattile delle esplosioni di timbri orchestrali, in particolare ottoni e archi quasi sempre in dissonanza e percussioni assordanti (“Feral Tween”). Suggestivi, come sempre, gli squarci lirici (“Gabriella’s Video”, “You Can’t Break the Mould”, “Don’t Be What They Made You”), spesso dominati dal semplice e commovente tema che esordisce in “Laura”, dedicato all’omonima bambina mutante del film e vibrante di un assetto armonico e un’andatura melodica che lo fanno somigliare a una danza latino-americana (la ricapitolazione del tema in “Eternum – Laura’s Theme” lo avvicina sensibilmente ai ritmi del tango, genere che sappiamo essere caro al compositore fin dai tempi di Mimic); la traccia “Laura”, in particolare, costituisce un fulgido esempio dell’intensa drammaturgia beltramiana, con i violini chiamati a intensificare progressivamente l’atmosfera carillonante del tema fino alla degenerazione nella dissonanza e all’incursione ostile dell’elettronica, per una scena fra l’horror e il melodramma.
Insieme all’azione, questi si possono dire i generi chiave su cui gravita da sempre la musica di Beltrami; e se, come dice Laura nel film citando un vecchio western, “quando si uccide… rimane sempre un marchio… che non si cancella più”, anche nell’arte di Beltrami sembra rimanere impresso, fin dai capolavori per i film di Wes Craven, il marchio di quel cinema violento e febbricitante che ha spesso frequentato.

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