Napoli velata

cover napoli velataPasquale Catalano
Napoli velata (2017)
Fenix Entertainment/Warner Chappell 8051411743101
11 brani + 6 canzoni – Durata: 54’00”

Il profilo spiccatamente autoriale che attraversa la filmografia di Pasquale Catalano passa prepotentemente – anche se non vi si esaurisce – per la sua città natale, Napoli. Il compositore ha infatti collaborato con alcuni dei principali talenti registici usciti da questa città, da Pappi Corsicato a Paolo Sorrentino, da Antonio Capuano a Luca Miniero: per ciascuno di costoro trovando un registro poetico diverso ma accomunato dal rifiuto delle più trite convenzioni strapaesane o pseudopopolari in favore di uno stile compositivo asciutto, moderno ma all’occorrenza vibrante di passioni e di malinconie sotterranee.

Ai nomi già citati va tuttavia aggiunto quello dell’autore con cui Catalano ha intrecciato negli ultimi anni il sodalizio forse più fruttuoso e variegato, ossia Ferzan Ozpetek, di cui il compositore partenopeo coglie, esalta e valorizza (spesso oltre i meriti dello stesso regista) tutte le suggestioni mediterranee, le sfumature, i cambi di passo, le intersezioni fra sentimento, memoria, dolore e sorriso tipici del suo cinema. Lo si è constatato con Mine vaganti, Magnifica presenza, Allacciate le cinture e lo si può verificare ora con Napoli velata, un film che affonda le proprie radici in quel senso del mistero, dell’inafferrabile che è senz’altro una delle chiavi di perlustrazione di questa città. L’elemento fantastico, che sorregge e guida tutto il racconto dopo l’incipit passionale ed erotico, suggerisce a Catalano un colore sonoro quasi surreale, immateriale, onirico, ben rappresentato dal brano iniziale omonimo, una specie di accorata perorazione basata su un tema lungo e scivoloso che rimbalza tra archi pastosi rinforzati dall’elettronica e minacciosi effetti di ottoni, con improvvisi silenzi che si spalancano ad accogliere lievi e impalpabili tocchi finali di arpa. Non è certo un’atmosfera musicale consueta, tutt’altro.  Ma nemmeno il prosieguo scorre lungo linee tradizionali, anche se il linguaggio sembra farsi più riconoscibile e sanguigno: nella lunga ballata di “Decumano inferiore” per esempio, mandolino e fisarmonica tessono un arabesco danzante dalla filigrana sottile e agrodolce, e in “Adriana”, brano dedicato alla protagonista, il delicato movimento pianistico sostenuto dagli archi e ripreso più avanti dai violini svela tutta la matrice classica del compositore, concedendosi ad un intimismo sobrio e mai svenevole. Del pari, le variazioni su questo stesso tema intrecciate dal violino solo in “Museo archeologico”, raddoppiate dalla chitarra su un nuovo ritmo pacatamente danzante, dicono molto anche su quella sorta di ironia sospesa, imperscrutabile e amarognola che costituisce una delle venature sottotraccia del film. Un atteggiamento che si osserva anche nello scorrevole ”Il corpo mirabile”, ma che non esclude posizionamenti stilistici ben diversi: come il brevissimo, gelido “Obitorio” elettronico, o la sorprendente, fantascientifica “Stazione Toledo”.
Ma più il mistero si infittisce e la psicologia della protagonista si fa labirintica, più la musica di Catalano assume tonalità rarefatte, di radicale quanto insondabile semplicità, ricordando quasi Le conseguenze dell’amore, una delle sue prove più alte: a questo fa pensare ad esempio “Luca”, scandito dal ticchettare di un pizzicato sul quale flauto prima e arpeggi del piano poi, sostenuti da un lieve tappeto di archi, disegnano una trama impalpabile. L’idea verrà ripresa in “Cappella Sansevero”, per confluire però in un denso cantabile di archi, mentre “Porta Nolana” è uno scarno, quasi tribale esercizio per percussioni. All’assolo pianistico di “Lost Adriana”, infine, concepito intorno al suo tema, il compito di levare un’ultima, evaporante e partecipe elegia alla protagonista.
Come spesso accade nel cinema di Ozpetek, al contributo originale del compositore si aggiunge una serie di brani che ne sottolineano la vocazione multietnica e più sanguignamente immediata, ben oltre la funzione di un semplice “arredo” folkloristico o – peggio – di una concessione ai debordanti esibizionismi della sceneggiata. Ecco allora l’intensa “Ghir Enta” dell’algerina Souad Massi, la struggente “Senza voce” di Pietra Montecorvino, la  travolgente tammurriata di “Ritmo terra e cuore”di Stany Roggiero & i Bottari della Cantica Popolare di Macerata Campania, la sospirosa “Sexy rouge” di Pierre Terrasse, l’elaborata e drammaticissima “Tanos” di Lino Cannavacciuolo. Ma su tutte svetta la versione di “Vasame” appositamente commissionata da Ozpetek ad Arisa: una canzone, quella scritta dal cantautore Enzo Gragnaniello,  di straziante potenza evocativa, che la lettura in dialetto napoletano della cantante genovese, con la voce volutamente sforzata e quasi soffocata dall’emozione, illumina di un riverbero profondo e oscuro.
È il degno omaggio ad una città inafferrabile, incantata e incantatrice, dove il sublime e l’infimo, la speranza e lo sconforto, il sogghigno di scherno e la smorfia di dolore sono facce differenti di un’unica, affascinante “magnifica presenza”.

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