Thor Ragnarok

Mark Mothersbaugh
Thor Ragnarok (Id., 2017)
Hollywood Records ‎– D002722102
23 brani – Durata: 73’02”



Dai Devo (gruppo fondamentale della New Wave americana) al cinema supereroistico. Una traiettoria artistica alquanto bizzarra quella di Mark Mothersbaugh (analoga in parte a quella di Danny Elfman), che nel frattempo, è bene ricordarlo, ha avuto fruttuose esperienze col cinema di Wes Anderson e con i film d’animazione (la serie di Hotel Transylvania).

La scelta di questo compositore per musicare il film in questione apparirà forse meno stravagante una volta fatti i conti con il prodotto cinematografico in sé: trattasi di una pellicola che porta verso gli esiti più estremi (e francamente irritanti) la tendenza, ormai non troppo recente, di smitizzare l’eroismo al cinema; ma senza la furia iconoclasta di un Raimi o di un Burton, senza il benché minimo scavo psicologico (per carità),  semmai con la furbizia imperdonabile di chi spaccia la più gretta corsa ai guadagni (soprattutto tramite l’appeal crescente esercitato sui bambini da prodotti sempre più cartoonisticamente bidimensionali) per audace rilettura di un genere. Mothersbaugh, comunque, coglie il carattere autoparodico dell’operazione e tira fuori uno score che non si prende mai sul serio, dove il ricorso agli stereotipi musicali di genere (ottoni svettanti, nobili armonie degli archi) è talmente scontato da risultare mai sincero, e in cui l’utilizzo dell’elettronica appare quantomai straniante. Fin dalla prima traccia, infatti, gli elementi synt vanno a contrappuntare il tema dedicato all’eroe, abbastanza riuscito ma non propriamente memorabile, neutralizzandone la carica epica, invano ricercata anche da un certo senso di fatalismo delle armonie e da un utilizzo di voci bianche che ricorda il Giacchino di Jupiter Ascending. Tutto sommato si tratta di un mix sonoro divertente, soprattutto grazie al sapiente uso di ritmi indiavolati affidati ad una compagine techno-sinfonica barocca e variopinta, ma mai davvero eccitante, forse proprio in virtù di questo rifiuto a priori di un qualsivoglia intento celebrativo. Una precisa scelta poetica, forse, ma che tuttavia non riscatta la mancanza di un appropriato controllo sulla forma, continuamente violentato da ridondanti ghirigori timbrici che, paradossalmente, non fanno che amplificare la staticità di un discorso musicale che non si capisce mai bene dove voglia andare a parare. Le pagine più riuscite risultano quelle in cui Mothersbaugh abbandona ogni pomposità e rielabora in chiave personale le diverse espressioni del fantastico cine-musicale; “Weird Things Happen”, ad esempio, chiama in causa un grottesco clavicembalo elettrico e timbri synt simili al sitar, per atmosfere di un fantasy tetro vicine al Goldsmith di Gremlins, mentre i coretti scanditi e i flautandi di violini che imperversano in molte tracce richiamano irresistibilmente i tópoi compositivi di Danny Elfman; per non parlare di alcuni cupi rintocchi di techno-music (“Where Am I”, “No One Escapes”) che riportano ai frutti della collaborazione tra Marco Beltrami e Marilyn Manson per Resident Evil. Va detto che tracce come “Arena Fight” e “Asgard is a People” mostrano un senso spasmodico del ritmo a tratti autenticamente coinvolgente, ma per contro abbondano anche i brani d’azione dominati da facili rievocazioni nostalgiche, come “What Heroes Do”, dalle sonorità quasi alla Europe, o “The Revolution Has Begun”, pagina tra il discotecaro e il progressive, che in alcuni frangenti richiama addirittura la musica dei nostri Goblin. Momenti notevoli si raggiungono anche quando al gusto di Mothersbaugh per le sonorità pop e deliranti si unisce un utilizzo leggermente più sperimentale dell’elettronica (“Where Am I”, “Go”), quasi memore dell’ultimo Zimmer, come accade in “Flashback”; ma alla lunga a prevalere è un sound monotono nella sua sempre più inconcludente artificiosità. Di mera routine, poi, le solite raffiche di ottoni alla Star Wars, le rievocazioni di climi epici (“Twilight of the Gods”) e le frastornanti perorazioni di ottoni e percussioni alla Beltrami, luoghi comuni compositivi ormai usurati e privati di ogni urgenza espressiva; Mothersbaugh in questo si rivela davvero inadeguato a compiere un esaustivo e creativo ripensamento degli stereotipi; e se a tratti può anche stupire e divertire, come in “Grandmaster Jam Session” (brano sguaiato che tradisce le origini punk del musicista), egli però fallisce, alla resa dei conti, nel dare alla sua verve musicale un precisa e originale funzione drammaturgica. In definitiva, un lavoro che molto probabilmente ha giovato al film più di quanto avrebbero fatto i fragori indistinti di altri compositori, ma che all’ascolto separato dalla componente visiva si presenta irrimediabilmente limitato e frammentato.

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