Happy Death Day

cover happy death dayBear McCreary
Auguri per la tua morte (Happy Death Day, 2017)
BackLot Music BLM710
9 brani – Durata: 39’57”

Malgrado sia divenuto anch’esso un genere ormai inflazionato e serializzato (dunque banalizzato), l’horror rimane il contenitore più fertile e stimolante per i compositori indipendenti, ansiosi di sperimentare nuovi linguaggi e di sbizzarrirsi in alchimìe inedite e perturbanti. Grazie a questo abbiamo avuto in passato le geniali quanto pauperistiche invenzioni di Harry Manfredini o Joseph LoDuca, poi le implacabili ingegnerie sonore di Marco Beltrami per Wes Craven, più recentemente le soluzioni estreme e agghiaccianti di Joseph Bishara.

Il giovane Julian “Bear” McCreary è da tempo autorevole socio di questa pattuglia d’avanguardia, grazie a partiture come The Boy, Wrong Turn 2 o la serie Walking Dead, anche se i suoi interessi non si esauriscono certo qui, come dimostrano i suoi pirotecnici lavori per le serie Battlestar Galactica: Blood & Chrome e Marvel’s Agents of S.H.I.E.L.D. Anche McCreary tuttavia sembra sentirsi particolarmente a proprio agio in atmosfere “scary”, che però egli cerca di approcciare non ricorrendo ai soliti facili effetti “stinger” o alla ripetizione indifferente di un terrorismo acustico convenzionale, bensì lavorando più di fino, per contrasti e conflitti dinamici e per associazioni interne.
 Il film di Christopher London, sorta di Ricomincio da capo in salsa horror e al femminile, sembra in tal senso una palestra ideale, sia per la sua struttura intrinsecamente ciclica, sia per l’intelligente mescolanza di elementi puramente orrorifici con scampoli di commedia e venature da thriller adrenalinico.
 I primi quattro brani costituiscono altrettanti capitoli di un’ipotetica suite temporale: “Day one”, “Two”, “Three” e “Four” iniziano infatti, esattamente come le giornate della sfortunata protagonista, tutti nello stesso modo: archi acuti immobilizzati in un accordo sospensivo. Ma la prima giornata è introdotta da un delicato accordo che scivola malignamente in un glissando profetico, tra sonorità liquide e trasparenti, cui segue l’introduzione significante di un ticchettio ossessivo, a scandire l’inesorabile trascorrere del tempo che rimane: salvo la violentissima accelerazione intermedia dell’orchestra, con un incandescente precipitare ritmico troncato con altrettanta brutalità. Il secondo giorno ritrova gli archi ma stavolta in un accordo dissonante e avvelenato, dove il glissando si protrae pervadendo il seguito in lente evoluzioni armoniche, sino ad una coda ancora più feroce pur nella sua brevità. Terza giornata: ancora archi ormai apertamente forieri di Male Assoluto, e stavolta sull’effetto-cronometro s’innestano nervosi disegni staccati dei violini e rapide figurazioni di legni e ottoni, sino all’inevitabile conclusione giustiziera. Al quarto giorno, molto più breve, gli archi non fanno quasi nemmeno in tempo ad esporre il loro lamento che vengono travolti da un micidiale scatto di ottoni e percussioni che fa terra bruciata dietro di sé, consegnandosi ad un epilogo stavolta flebile e smorto.
 Questo andamento costituito da potenti, efficacissimi “sbalzi d’umore” musicali si sviluppa compiutamente nella seconda parte dello score, a cominciare dal complicatissimo “The hospital”, dove alle tradizionali fonti orchestrali (notevole l’impiego degli ottoni e dei corni in particolare) si aggiungono sapienti effetti di eco e riverbero, seguito da “Te bell tower”, dove l’introduzione di elementi singolari, come ad esempio una vocina campionata, mugolante e ridacchiante (pare si tratti della voce della figlioletta treenne dello stesso compositore!), e l’incessante cambio di passo ritmico, unito ad una mole di suono terrificante, ricorda quasi certi approdi ultimativi di Roque Baños. Dunque è nel gioco di contrasti e di contrapposizioni che McCreary trova l’asse portante della partitura, oscillando felicemente fra rasserenanti quanto ingannevoli parentesi melodico-soap, come “Righting wrongs”, e nuovi sprofondamenti nelle tenebre come in “Tree takes control”, con archi impazziti, soffocanti progressioni ritmiche e nel finale un’inaspettata oasi tonale di celestiale bellezza.
 C’è appena il tempo in “The cupcake” per un’ultima prova di forza complessiva, con la riproposizione delle infernali acrobazie degli archi e del ritmo stringente che incalza, prima di congedarsi con morbide linee melodiche e liriche, in un clima di ritrovata serenità: ed è proprio qui, nella capacità di essere convincente sia sul fronte terrorizzante che su quello di una rassicurante “normalità” (persino stucchevole, quando occorre), che consiste la notevole abilità costruttiva di questo ormai più che promettente musicista.

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