The Zookeeper’s Wife

cover the zookeepers wifeHarry Gregson-Williams
La signora dello zoo di Varsavia (The Zookeeper’s Wife, 2017)
Filmtrax BFD095
14 brani – Durata: 40’58”

Di tutti i compositori nati e cresciuti in qualche modo nell’orbita zimmeriana, Harry Gregson-Williams è (insieme, ma in misura minore, al frattello Rupert)  colui che ha sempre dimostrato una spiccata varietà di interessi ed un eclettismo capace di condurlo spesso fuori dai percorsi obbligati dei rumorosi blockbuster cui siamo ormai assuefatti. Accanto a principi di Persia, cronache di Narnia, X-men, cowboys e alieni, prometei e vendicatori, il compositore inglese ha infatti sempre coltivato anche una vena più intimista, sommessa e delicata (si pensi a Veronica Guerin o Confirmation), applicata a vicende di forte pregnanza storica o di coinvolgente impatto civile.

E quale pagina di storia recente può unire meglio della Shoah questi due aspetti, specie in tempi di cupo revisionismo e di foschi tentativi di rigurgito nazifascista? Tuttavia anche in questo caso Gregson-Williams sceglie la strada della sottrazione, dell’eloquio sussurrato e interiore, del ritratto psicologico e personale. Forse perché la vicenda narrata è innanzitutto quella di un’”eroina per caso”, Antonina Żabińska, che insieme al marito Jan diede asilo nello zoo di cui erano proprietari a numerosi ebrei sottraendoli alla furia nazista nella martoriata Varsavia degli anni ’40.
Una storia che ricorda quella di Oskar Schindler e Giorgio Perlasca, non a caso insigniti – come Antonina – del titolo di Giusti fra le Nazioni. Dunque nessun titanismo, nessuna enfasi, ma al contrario timbri delicati, ritmica lieve, continue aperture liriche, arcate dinamiche contenute anche nei momenti più drammatici: il tutto quasi programmaticamente esposto in apertura in “Warsaw zoo, 1939”, pagina saltellante e impalpabile, trasparente, con alternanze di disegni dei legni e aperture degli archi. Il musicista rinuncia in partenza a tentazioni di ridondanza, anzi sembra a volte procedere per opposti, come in “The bombings”, brevissimo squarcio di effetti percussivi elettronici, o nell’inquietante “Aftermath”, lungo lamento progressivamente assorbito in un adagio per archi e clarinetto. In realtà non mancano nel film e nella partitura momenti di alta tensione, di pura suspence (“The escape”) ma anche questi vengono risolti ellitticamente, con una semplice accelerazione del battito ritmico o una lineare progressione armonica, mentre ad esempio in “Pray for us” l’insostenibile tragicità del momento (Jan è obbligato ad aiutare dei bambini a salire sul treno che li condurrà ad Auschwitz) è sottolineata dallo spettrale flautando iniziale degli archi e da poche, desolate note del pianoforte; anche l’utilizzo degli effetti elettronici (“Bring them out”) è, per una volta, funzionale al contesto anziché aggressivo esibizionismo hi-tech, ovvero si limita a sostenere un’orchestra dall’organico quasi cameristico, comunque utilizzato per sezioni isolate (legni e archi in prevalenza). Tali effetti si caricano poi, in circostanze particolari, di una forte valenza evocativa, come in “Burning the Ghetto”, dove su un minaccioso sottofondo di archi e percussione una voce femminile alza uno struggente canto ebraico a mo’ di epicedio.
Il tematismo dello score probabilmente non è tra i più indimenticabili, ma non sembra essere la preoccupazione prevalente del compositore, se non in qualche frammento come il pianistico, dolcissimo “Come back to us”, forse per il carattere corale, collettivo, che la storia assume nel suo procedere, pur mantenendo come epicentro la figura della protagonista: “Refugees” ne è un altro esempio, con la sua struttura di rarefatta compostezza e contenuta, dolente espressività. Così, anche nell’approdare a un finale lieto (tanto più emozionante visto il terribile contesto storico), Gregson-Williams abdica in partenza a qualsiasi trionfalismo o pompierismo: “Home again” richiama il pianoforte in primo piano facendolo dialogare con gli archi in un rasserenante percorso contrappuntistico dai colori quasi fanciulleschi. Mentre il lungo, conclusivo “Jan returns”, sorta di suite riassuntiva della partitura, si divide tra una cullante prima parte per clarinetto, flauti, arpa e chitarra ed una seconda, più movimentata negli agitati disegni degli archi e dei legni, idealmente riallacciata all’incipit, ovvero al ritorno all’esistenza quotidiana e alla gioiosa, multiforme  e insopprimibile vitalità che brulica nello zoo.
Si capisce bene allora, proprio da questo congedo, come in Gregson-Williams la gioia di (soprav)vivere si accompagni sempre ad un coltivato pudore sentimentale; esattamente come, in lui, anche la più spaventosa delle tragedie della Storia si esprime al meglio solo nei toni di una profonda malinconia.

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