Ben-Hur

cover ben hur beltramiMarco Beltrami
Ben-Hur (Id., 2016)
Sony Classical 88985354762
27 brani – Durata: 66’17”

Il primo errore da non commettere è quello di accostarsi a questa partitura avendo nella memoria e nelle orecchie il capolavoro di Miklós Rózsa per il classico di William Wyler del ’59 (undici premi Oscar, compresa la musica), recentemente rispolverato alla grande nella prima registrazione assoluta digitale dalla Tadlow con Nic Raine e la City of Prague. Al di là delle scontate differenze di statura artistica, nel maestro ungherese vibrava un umanesimo misticheggiante e accalorato, molto mediterraneo, tradotto in un ventaglio di temi indimenticabili e posto in esplosivo conflitto con la marzialità schiacciante, brutale e bellicosa delle celebri “marce romane”.

Ma Rózsa era anche per vocazione il compositore “ufficiale” dei kolossal in costume a cavallo tra i ’50 e i ’60 (Quo Vadis, El Cid, Il Re dei re): viceversa Marco Beltrami è noto soprattutto come funambolico e spregiudicato inventore di sonorità thriller-horror, ultimamente però declinate anche sul fronte fantasy, e comunque in maniera non esclusiva (tutte da riscoprire ad esempio le sue score per i due film di Tommy Lee Jones The Homesman e Le tre sepolture). Quindi lo si poteva pensare a disagio con le atmosfere “antichiste” e parareligiose del soggetto, che proviene ricordiamolo dal romanzo del 1880 di Lew Wallace, già portato sullo schermo nel 1907 e nel ’25 prima di Wyler.
 Dunque, per scavalcare un eventuale “gap” Beltrami sceglie una strada coraggiosamente autonoma e moderna, senza indulgere a nessuna tentazione citazionistica (fatta salva forse solo “Galley slaves” che nell’inciso ossessivo ritmico rimanda al memorabile “stringendo” rózsiano nella pagina corrispondente del ’59). Anzi, per marcare la propria diversità il musicista italoamericano esordisce con un “Ben-Hur theme” che si situa agli antipodi espressivi del modello, nobilmente muscolare, che era dell’ungherese: è una melodia in si minore lenta e malinconica, presentata dalla viola e poi ripresa dall’orchestra, che si snoda quasi piangente anche grazie alla voce sopranile di Lili Haydn e all’intervento del dulcimer, tributo pressoché isolato dell’organico alle atmosfere archeo-mediorientali. Contrapposto a questo, che di fatto è il leitmotiv centrale della partitura, il tema di Messala ha un andamento discendente e obliquo, ambiguo, esposto dal clavicembalo in “Messala leaves home”, poi più cupamente in “Messala returns” e ancor più nel sinistro “Brothers divide”, che si conclude con una violenta scansione percussiva rinforzata dalle note rabbiose degli ottoni.
 Dunque l’approccio di Beltrami è molto sofisticato e sfaccettato, nel tentativo di sottrarsi sia agli stereotipi dell’action music di grana grossa e in provetta oggi ricorrente, sia a pericolosi e stucchevoli sentimenti di nostalgia. Pertanto le pagine d’azione vivono soprattutto di potenti accensioni ritmiche (“Home invasion”), assumendo i contorni di una grandiosità più pacata che invadente (“The Circus”), e sempre disseminata da intelligenti variazioni del tema portante; parallelamente i momenti di tensione più acuta sono sottolineati da soluzioni timbriche del tutto moderne e atemporali (“Rammed hard”, “Brother vs. brother”. “Chariots of fire”) nelle quali fa capolino il Beltrami horror che ben conosciamo, abile assemblatore di un sound che gode di completa extraterritorialità psicologica e capace di complesse e intriganti soluzioni contrappuntistiche, come in “Jerusalem 33 A.D./Sibling rivalry”.
 Tuttavia la sensazione è che al compositore interessi assai più l’altro aspetto del lavoro, quello lirico, sentimentale e intimista: ecco allora che una pagina come “Messala and Tirzah” vibra di una delicatezza semplice e intensa, così come “Ben and Esther”, che rielabora con particolare, struggente dolcezza il tema del protagonista.
 Ciò che è completamente assente dalla score – e che qualcuno ha annotato come un punto a suo sfavore – è l’elemento religioso che invece in Rózsa era centrale, soprattutto nel finale. Una “laicità” che non è evidentemente frutto del caso né di trascuratezza ma che fa parte dell’assunto complessivo del film, e che Beltrami fa propria rifuggendo da qualsiasi stereotipo ad hoc: “Jesus arrested”, ad esempio, è un’inquietante, artificioso lamento scandito dalla percussione, in un climax sonoro quasi da fantascienza. Solo “Forgiveness”, ulteriore e conclusiva ripresa-variazione del tema di Ben-Hur, sembra alludere ad una dimensione ultraterrena, spirituale, in una nitida scrittura accordale per archi acuti che sfocia in una solenne perorazione corale.
 Ma il nostro non è più tempo di dèi, semmai di dèmoni; e Marco Beltrami, che nel suo lavoro ha rappresentato molto spesso e bene questi ultimi, è un perfetto traghettatore tra i due mondi.

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