Fellini Satyricon

cover satiricon vinileNino Rota
Fellini Satyricon (1969)
Rustblade Records RBL057
20 brani – Durata: 28’00”

Da un punto di vista squisitamente filologico, il Fellini-Satyricon rappresenta forse il punto più avanzato e inconsueto della collaborazione leggendaria (e piuttosto sopravvalutata) fra Nino Rota e il regista di Otto e mezzo: una partitura, questa, che fa giustizia una volta per tutte del luogo comune che vorrebbe Rota un “candido” tradizionalista e soavemente “naïf”, quasi inconsapevole dei contesti in cui lavorava, e rivela invece la sapienza di ricercatore, le astuzie e la smisurata cultura di un compositore che – certo – non era minimamente attratto dalle sirene dell’avanguardia, e tuttavia perseguiva una propria strada innovativa nella musica cinematografica, attraverso un fitto reticolato di citazioni, prestiti, autoriferimenti e ammiccamenti.

 Alle prese con la saga barocca ed eccessiva, surreale che Fellini trasse dal poema latino di Petronio Arbitro (film che nemmeno i felliniani più ortodossi amano troppo), Rota sapeva per esempio benissimo che poco o nulla è giunto sino a noi della musica degli antichi romani: anche per l’ottima ragione che quel poco pervenutoci rivela come essi avessero largamente assorbito il patrimonio musicale delle regioni conquistate dall’impero, come Grecia, Persia o Egitto. Ne consegue un affresco musicale estremamente eterogeneo e variopinto, costituito da interventi molto brevi, frammentari, dove il compositore in parte assembla ed in parte ricrea influssi orientali, arabeggianti, percussionismi africani, melismi spezzettati, chiamando in causa una nutrita varietà di strumenti antichi e caratteristici e riordinando una materia in cui confluiscono molti altri contributi (ad esempio di  Ilhan Mimaroglu, Tod Dockstader e Andrew Rudin).
 Il tutto finisce per assumere un carattere sperimentale, quasi occhieggiante a quegli stilemi d’avanguardia che Rota tanto aborriva, in ogni caso lontanissimo da qualsiasi tentazione esornativa o cartolinesca: si ascoltino ad esempio “Notte nella suburra” o “Il giardino delle delizie”, costellati di suoni quasi elementari e ritmi primitivi. Oppure il mix spiazzante fra sitar, “strappi” dei fiati e gong in “La cena di Trimalcione”, a precedere un tema arcaicizzante, evocativo e semplicissimo del flauto: il paragone corre inevitabilmente a pagine simili, per contesto, nella produzione hollywoodiana, ricche di fantasismo orchestrale e coloristico, e si avverte immediatamente la differenza d’approccio.
 Pure, anche in questo apparente caos sonoro c’è spazio per la tecnica leitmotivica, con una delicata idea orientaleggiante introdotta da una voce bianca in “La schiavetta innamorata” e poi in “Mio amato Gitone” e “Tema di Gitone”, sino al finale “La nuova isola”; mentre aria d’Africa si respira più nettamente nei tribali “Il trionfo del nuovo Cesare” e “Encolpio e Ascilto prigionieri”, e l’atmosfera si fa rarefatta e impalpabile nelle liquescenze acustiche di “La nave di Luca” e “Le nozze sul mare”.
 Appropriandosi e gestendo magistralmente tecniche e paesaggi sonori in apparenza a lui estranei o da lui comunque distanti, Rota riesce a conferire uno straordinario stile unitario e coeso al suo complesso lavoro, fra nenie di sapore preistorico (“L’orco salmodiante”) e notturne melopee (“Mi ascolti Gitone?”), con punte di vocalità prettamente novecentesca (“Storia della matrona di Efeso”), e mantenendosi costantemente dentro i confini di un suono asciutto, scabro, quasi scostante nella sua funerea ossificazione timbrica (“Encolpio ha perduto la sua spada”), dove solo il rullare delle percussioni mescolato a canti primordiali sembra insistere nell’affermazione di un qualche spunto vitale (“Il Minotauro”).
 Ne risulta infine un insieme di non facilissimo ascolto, a differenza di tutte le altre partiture felliniane: anche questo, forse, è il motivo della scarsa fortuna del film, malgrado il grande interesse musicologico e diremmo quasi “scientifico” del suo mantello sonoro.

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