Ludwig & Morte a Venezia

cover ludwig veneziaAA.VV./ Franco Mannino
Ludwig (1973)
Morte a Venezia (1971)
Digitmovies DPDM016
Cd 1, 23 brani – Durata: 61’05”
Cd 2,  5 brani – Durata: 30’08”

Affrontare la dimensione musicale del cinema di Luchino Visconti (1906 – 1976) significa addentrarsi in un mondo che oggi può apparire lontano dai gusti, spesso deviati e distorti, della contemporaneità, ma che affondava le proprie radici nella cultura – letteraria, musicale e filosofica – della Mitteleuropa a cavallo tra Otto e Novecento: un universo simbolico, popolato di fantasmi premonitori, che in Visconti, pur nella sontuosità delle messinscene, non possedeva nulla di agiografico o esornativo, ma costituiva l’estremo approdo di una riflessione sulla Storia iniziata sulle sponde del neorealismo (con Ossessione, 1943), poi volta a smascherare alcune contraddizioni del Risorgimento (Senso, 1954), attraversando la carne viva del dopoguerra italiano (Rocco e i suoi fratelli, 1960) per trionfare infine in quella colossale, lussureggiante metafora sull’opportunismo e sull’antieroismo italiani, nonché sulla “Questione Meridionale”, che è Il Gattopardo (1962).

 Quale e quanto centrale fosse il ruolo della musica in questo itinerario è argomento sin troppo noto perché si possa qui tornarvi diffusamente: specie ove si consideri che Visconti era anche, e per certi aspetti forse soprattutto, un grande regista di opere liriche, prediletto – fra gli altri – da Maria Callas: e che per lui la musica era comunque un contesto preciso, una rigorosa cornice storica, una scenografia imprescindibile e/o un personaggio in più. Basterà accennare il fatto che, se si escludono l’esordio di Ossessione con la scabra, intensa e tragica partitura firmata da Giuseppe Rosati e capitoli come Lo straniero (1967), con l’asciutto contributo di Piero Piccioni, e La caduta degli dei (1969), drammaticamente affrescato da Maurice Jarre, la componente musicale del suo cinema è stata sempre delegata a figure di compositori-direttori che operavano parallelamente anche sul fronte della musica “colta”, spesso mescolando il loro intervento ad un parterre di pagine preesistenti e pertinenti, e affidandone loro la curatela e le esecuzioni. Avvenne per La terra trema (1948), con soundtrack firmato dal direttore d’orchestra Willy Ferrero; per Bellissima (1951), basato su temi dall’”Elisir d’amore” di Donizetti eseguiti dal grande Franco Ferrara; per Senso (1954) e Il Gattopardo, che – insieme a Le notti bianche e Rocco e i suoi fratelli – impegnarono Nino Rota su un versante espressivo drammatico e profondamente diverso dalle sue contemporanee collaborazioni felliniane, nel primo caso rielaborando l’Adagio dalla Settima Sinfonia di Anton Bruckner, nel secondo accompagnando la propria meravigliosa “Sinfonia sopra una canzone d’amore” a temi inediti di Giuseppe Verdi (il tutto sempre sotto la supervisione e direzione di Ferrara); avvenne ancora per Vaghe stelle dell’Orsa… (1965), basato sul “Preludio, corale e fuga” di César Franck ma anche su canzoni popolarissime come “Io che non vivo” di Donaggio o “E se domani” di Mina.
 Non v’è dubbio però che la figura musicalmente decisiva nella parte finale della carriera di Visconti sia stata quella di Franco Mannino (Palermo, 1924 – Roma, 2005). In lui si riassumevano infatti alcune caratteristiche preziose agli occhi del regista: Mannino era innanzitutto un pianista provetto, ma anche un attivissimo compositore in proprio, e per di più nello specifico settore della musica filmica alla quale lascerà un repertorio di 150 titoli (tra questi diversi film di Riccardo Freda, La provinciale di Soldati, Identikit di Patroni Griffi e Un uomo in ginocchio di Damiani). Inoltre il maestro siciliano (che con Visconti era anche imparentato, avendone sposato la sorella Uberta) era un acclamato e sensibile filologo e direttore d’orchestra, interprete raffinato e legato per molti anni all’Accademia di Santa Cecilia. Dunque, una figura ideale per quella saldatura di ruoli e di dimensioni musicali richiesta dal regista: e se a lui si devono le partiture originali, crepuscolari e neoclassiche, per gli ultimi due film viscontiani, Gruppo di famiglia in un interno e L’innocente (1974 e 1976), il contributo più decisivo e duraturo Mannino lo diede senz’altro supervisionando ed eseguendo le potenti e indimenticabili architetture musicali dei due tardi capolavori del regista, Morte a Venezia e Ludwig. Il che rende questa ristampa filologica, su doppio cd in edizione digipack, della Digitmovies – comprensiva di tre tracce inedite da Ludwig - un’operazione culturale di altissimo livello e prestigio.
“Gustav Mahler: il mio tempo verrà”: si intitolava così, nel 1977, la monografia (Nuove Edizioni, Milano) dedicata da Giuseppe Pugliese alla storia dell’interpretazione delle sinfonie del grande compositore boemo. In quella frase, pronunciata con profetica amarezza da Mahler, si può ben riassumere il significato del film Morte a Venezia, tratto dal racconto lungo di Thomas Mann “La morte a Venezia” pubblicato nel 1912, ossia un anno dopo la scomparsa del musicista. Già prima della realizzazione del film, nella figura del protagonista, il compositore Gustav von Aschenbach, torturato da presagi di morte e dall’amore impossibile per un giovinetto di apollinea bellezza sullo sfondo di una Venezia in decomposizione fisica e spirituale, si era adombrata la personalità di Mahler. Ma nel film Visconti ratificò con decisione questa equazione (del tutto assente, ad esempio, nell’omonima, ultima opera scritta da Benjamin Britten nel 1973), soprattutto grazie alle opzioni musicali compiute insieme a Mannino. Ed in questa colonna sonora, o meglio grazie ad essa, la musica di Mahler vide iniziare prepotente quel revival che – almeno in Italia – ne fa oggi uno dei compositori più eseguiti ed ascoltati. Come si sa, il tutto ruota intorno a quel quarto movimento, “Adagietto” dalla Sinfonia n.5 in do diesis minore (1901-1902), da quel momento in poi sovrautilizzato al cinema (l’ultimo in ordine di tempo è stato Warren Beatty con il suo recente L’eccezione alla regola) e qui epitome straziante dello struggimento di Aschenbach ma anche del decadere inesorabile del mondo che lo attornia. Scritto per archi e arpa, è un momento in realtà neoclassico, quasi schubertiano all’interno di una sinfonia per il resto corrusca e grandiosamente luttuosa, e Mannino – alla guida dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia – ne evidenzia opportunamente gli aspetti evanescenti, lirici e vaporosi più che quelli decadenti (sottolineati ad esempio nella lettura di Karajan o Bernstein) o tragicamente moderni (si pensi alle interpretazioni di Maderna o Sinopoli); analogo discorso vale per l’altra pagina mahleriana presente, il “Molto adagio (O Mensch! Gib Achts!)” dalla Sinfonia n.3 in re minore (1893-1896) su testo di Nietzsche e interpretato dal contralto Lucretia West, momento di stupefazione massima dinanzi al mistero dell’universo e dell’esistenza umana. Ma il paesaggio musicale del film si allarga anche ad altri, pregnanti contributi, tutti di un preciso significato diegetico e di una fortissima valenza espressiva: come la celeberrima, trasognata Bagattella in la minore “Per Elisa” di Beethoven, eseguita dal pianista Claudio Gizzi a contrasto subito dopo la scena del bordello, o la toccante “Ninna Nanna” di Modest Mussorgsky cantata dal soprano Masha Predit, o – la più sorprendente – “Chi con le donne vuole aver fortuna” dai Canti Nuovi di Armando Gill, al secolo Michele Testa (1877 – 1945), noto cantautore e attore napoletano.
 Pur nella sua maggiore coesione, dovuta allo specifico e cogente riferimento storico alla figura di Richard Wagner, anche la colonna sonora di Ludwig esibisce nondimeno una tavolozza di interventi quanto mai variegata. La tragica vicenda del sovrano bavarese, vissuto tra il 1845 e il 1886, e della sua devozione totale all’arte di Wagner (dal quale fu cinicamente e lucidamente sfruttato per i propri scopi di grandezza) diventa ancora una volta immenso affresco sul tramonto definitivo di un’epoca, in questo caso quella finis Austriae che dopo aver prodotto una straordinaria temperie culturale, sfocerà di lì a pochi decenni nell’immenso bagno di sangue della Prima Guerra Mondiale.
 Dunque Wagner, certo, nelle esecuzioni assolutamente “laiche”, limpide, antieroiche di Mannino (sempre sul podio di Santa Cecilia) che qui si offre anche in veste di rispettoso e sapiente trascrittore: ecco allora il solare, nitido preludio dal primo atto del “Lohengrin”, ma anche una commovente versione per violoncello e orchestra della celebre aria “Oh du mein Holder Abendstern” dal “Tannhäuser”, e altre due pregevoli trascrizioni (per orchestra e per pianoforte, eseguita sempre da Mannino) di “So stürben wir, um ungetrennt” da “Tristano e Isotta”: particolarmente suggestiva la seconda «a causa – come scrisse Carlo Parmentola nelle note di copertina del longplaying Philips del ’73 – della nudità timbrica che concentra tutta l’attenzione sui valori armonici e melodici». Protagoniste assolute del comparto wagneriano sono però 13 folgoranti battute note come “Elegia in la bemolle maggiore” o “Ultima composizione di Wagner”, annotate in calce allo spartito della sua ultima opera “Parsifal”, e scoperte quasi casualmente da Arturo Toscanini: è una sorta di epigrafe basata sulla ripetizione continua di una figura costruita su elaborazioni estenuate e armonicamente dissolte del cosiddetto “Tristan Akkord”, che Mannino propone sia in versione pianistica (suddivisa in tre sezioni) che in una straziante, splendida trascrizione per archi e quintetto di fiati, destinata di fatto a divenire anche l’elogio funebre del sovrano tormentato.
 Ma anche qui altre fantasmatiche presenze di un tempo che fu, spesso in apparente conflitto con il contesto wagneriano, si fanno strada: ad esempio l’ouverture da “La Périchole”, opera buffa di Jacques Offenbach tratta da un racconto del 1829 di Prosper Mérimée, o le “Kinderszenen” op.15 di Robert Schumann, che il pianista Mannino offre – ancora parole di Parmentola - «in una interpretazione priva di languori e di mollezze, anche se soffusa di malinconia, quasi a marcare il distacco dal turbinoso mondo wagneriano».
 Come si vede, una molteplicità di autori e riferimenti che vedono in Visconti e Mannino due straordinari testimoni, interpreti e protagonisti del cinema d’autore e di una tradizione indirizzata – ammoniva proprio Mahler - «a custodire, del passato, non le ceneri bensì il fuoco».

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