Don’t Breathe

cover dont breatheRoque Baños
Man in the dark (Don’t Breathe, 2016)
Lakeshore Records LKS348652
15 brani – Durata: 59’14”

Dimentichiamoci il furibondo, arroventato virtuosismo orchestrale cui il musicista spagnolo ci aveva abituato e che aveva trovato un apice nel precedente horror dell'uruguaiano Fede Alvarez, La casa, remake del celebre titolo di Sam Raimi. Non se ne trova praticamente traccia in questo spiazzante lavoro quasi interamente elettronico e programmaticamente ostile alla pur minima idea di tematismo o di concessione strumentale. Un approccio assolutamente estremistico, dunque, quello di Baños, che ripristina una vecchia equazione tra horror e sound “alieno” scalzata e accantonata, in tempi recenti, proprio da molti compositori di area ispano-latinoamericana (si pensi a Fernando Velazquez o Javier Navarrete), oltre che dallo stesso musicista in questione.

Ne consegue un ascolto assai poco gratificante, anzi del tutto respingente, che il musicista impone in una partitura con la quale ha voluto forse reagire ad alcuni recenti infortuni “spettacolari” (Heart by the Sea) così come a non memorabili prove sia pur nel genere horror-thriller a lui caro (Regression). Il linguaggio adottato, nella sua radicale, urticante ermeticità, sembra per tutta la prima parte evocare i brividi gelidi, le scosse, le frustate, i crepitii algidi e perforanti di un'avant-garde maligna e demoniaca, in cui si avvertono con chiarezza influenze della musique concrète e di uno sperimentalismo che va da Stockhausen a Boulez, a Pousseur. Abdicando con violenza a qualunque naturalismo sonoro, Baños fonde musica e rumore in un unicum difficilmente scomponibile (“The abandoned neighborood”, “Let's do this one”), con punte addirittura acusticamente insostenibili (“Money dies”), lavorando sulle sue consolle soprattutto nel brusco troncare (o irrompere) del suono: suono che è sostanzialmente di tipo percussivo, a volte ossessivamente ritmato (“Indoor chasing”), altre inframmezzato con sparute, desolate e insignificanti note di pianoforte (“Let's get out of there”).
 L'apparente casualità con cui la materia sonora è ripartita nello score fa pensare a tratti anche ad un rapporto con la musica “aleatoria” di Cage, Maderna o Berio, che in questo contesto però finisce col trasformarsi in pura scenografia sonora, sound design perverso e disturbante, di soffocante uniformità pur nella incessante differenziazione dei registri timbrici, oscillanti dal sovracuto ai bassi più profondi (“Dog hunting”). Così si trasecola quando in “Captured” compaiono fantasmatici accordi di archi, quasi un miraggio tonale nel caos rumoristico, mentre in “Insemination” l'ostinato ritmico pulsante dei bassi lascia spazio a scheletrici interventi dei violini suonati con la tecnica agghiacciante tipica del compositore (e mutuata dalla scrittura pendereckiana), nonché a sinistri, lontani scampanìi. Anche in “Back to the house” il pianoforte lotta per sopravvivere allo stringente clangore della percussione, insistente come un incubo restio a dissolversi,
 Ma un'alba musicale spunta anche qui, infine, ed ecco che “Leaving town” espone lirici accordi di violini alle insidie di cadaverici flautandi di altri violini, e alla ripresa della scansione ritmata, lugubre dei bassi, sinché un pianoforte solo e malinconico accenna finalmente un tema – l'unico dello score – che nella sua solitaria, desolata semplicità si accalora brevemente per poi spegnersi in pianissimo: uno scampolo, troppo breve, della grandezza di Roque Baños, rapidamente obliterato dagli “End credits” fragorosamente minacciosi, sul cui sfondo si riascolta – distorto e amplificato – il precedente tema pianistico: a congedarci da uno score che ha tutta l'aria di un'esibizione tecnica, una dimostrazione di perizia ingegneristica che suscita certo ammirazione, ma poco d'altro.

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