Suicide Squad

cover suicide squadSteven Price
Suicide Squad (Id., 2016)
Sony Classical 88985362632
22 brani – Durata: 72’33”

Non è una parodia vietata ai minori alla Deadpool, né una sorta di omaggio postumo all’universo supereroico come i due film di Zack Snyder su Superman; Suicide Squad somiglia piuttosto alla distorsione “cattiva” e politicamente scorretta di una dimensione, e di un genere cinematografico, che ormai da anni ha esaurito le scorte e sembra capace di riprodursi unicamente per partenogenesi, grazie a meccanismi di automatismo seriale indifferenziato. La squadraccia di “vilains” assoldata dal governo con tanto di impianto di bomba nel collo se mai pensassero di squagliarsela (una via di mezzo tra la “sporca dozzina” e Fuga da New York) in realtà rasenta le frontiere del grottesco attraverso l’esasperazione dei caratteri e il taglio “alto” di alcuni di essi (si pensi al Joker quasi shakespeariano di Jared Leto), ma in questi casi è soprattutto alla musica che competerebbe fare la differenza: anche se è molto difficile marcare il confine tra il non prendersi troppo sul serio e l’essere presi molto sul serio.

L’inglese Steven Price ha poco a che spartire, anche culturalmente, con i soundtrack seriali del genere e con il loro pompierismo facilone, essendosi sin qui rivelato come compositore attento alla sperimentazione e poco incline alle scorciatoie fracassone (Gravity, Fury, La fine del mondo): d’altronde Suicide Squad ha una cospicua parte di soundtrack rock-metallara (Eminem, War, Creedence Clearwater Revival ecc.), cui non era certo il caso di accodarsi pedissequamente. Così “Task force X” è introdotto da archi lenti, prima della partenza “metal” opportunamente e minacciosamente ritmata, con un tema dagli echi vagamente goldsmithiani, e “Arkham Asylum” si adagia in volute corali misticheggianti, evocando nei violini un secondo tema di intensa malinconia. Il precario equilibrio tra parti sinfoniche tradizionali, anche di notevole concentrazione, e urgenze hi-tech compulsate in una confezione pop caratterizza un po’ l’intero lavoro, con soluzioni più felici quando viene conservato almeno in parte un certo tematismo (il glorioso “You die we die”), meno quando la sensazione è che l’orchestra sia presente solo per fare numero (“I want to assemble a task force”); verrebbe quasi da osservare che in questi frangenti la moderazione, per quanto lodevole, paga poco perché confina la musica in un limbo difficilmente penetrabile; in altri termini, pagine dalle sonorità ricercate e sofisticate come “Harley and Joker” o la prima parte di “Hey craziness” rischiano di finire schiacciate dagli stereotipi più consunti della “super”action music: territorio dove, com’è noto, gente come Brian Tyler o Ramin Djawadi non ha rivali e sa muoversi molto più a proprio agio e senza tante remore estetizzanti.
Ma Price crede invece in quello che potremmo chiamare uno score “dal volto umano” e insiste sulle mezzetinte timbriche (“You need a miracle”) o su aperture eroiche sì ma dall’eloquio nobilmente grandioso (“Are we friends or are we foes?”), tenendosi ben stretti i propri temi (non memorabili, ma comunque “temi”) e comunque insistendo nel lavorare di cesello più che di scure, come nelle sonorità eteree e trasparenti di “I thought I’d killed you”, sovrastate dal cantabile degli archi.
Il guaio è, come ha notato velenosamente il critico James Southall, che potreste tranquillamente scambiare fra loro questi brani e i loro titoli, e non cambierebbe assolutamente nulla nella struttura drammaturgica della partitura; ovvio che di questo non si può incolpare che parzialmente il compositore, che normalmente cerca di fare del proprio meglio in base a ciò che gli viene richiesto.
Anche se, va detto, l’Alan Silvestri di The Avengers o il Michael Kamen del primo X-Men stanno lì a dimostrare che qualcosa di più si può dare. Ma questa è un’altra storia. E soprattutto un’altra musica.

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