Denial

cover denialHoward Shore
La verità negata (Denial, 2016)
Howe Records
18 brani – Durata: 39’34”

Il sentimento tragico che attraversa tutta l’opera di Howard Shore, persino in saghe fantasy lussureggianti come quelle del Signore degli Anelli e dello Hobbit, trova modo di esplicarsi in maniera particolare nel confronto con tematiche storiche alte o con drammi di forte pregnanza sociale e attuale. L’approccio stilistico può essere ovviamente diverso: per Il caso Spotlight, sullo scandalo dei preti pedofili, il linguaggio era scarno, cameristico, trattenuto. Qui invece, per il film di Mick Jackson sulla memoria della Shoah e sulla piaga oscena del negazionismo che vorrebbe cancellarla, Shore ritrova un clima che è quello delle sue maggiori partiture per il cinema di David Cronenberg, Jonathan Demme o David Fincher: un’atmosfera cupa, avvolgente, meditativa, priva di facili tematismi o di colori squillanti, prevalentemente affidata ai fraseggi composti e malinconici degli archi su armonie che prediligono le tonalità minori.

Uno score in cui si avverte nettamente la sofferenza interiore e la spinta etica che devono aver attraversato lo stesso 70enne compositore canadese, spingendolo a rifiutare accenti facilmente enfatici o melodrammatici in favore di una tensione tutta interiorizzata e psicologica. Persino nell’avvio apparentemente sereno e mosso di “Atlanta 1994” un orecchio attento può riconoscere elementi di ansietà e attesa, nel gioco delicato fra archi e legni, quasi a presagire l’inevitabile prosieguo drammatico: che si fa strada infatti già nel brano che prende il titolo dal film, con le lunghe volute e gli ampi pedali dei violini a sostenere le perorazioni dei bassi. Il colore di questa musica è scuro, denso, eppure in un certo senso sempre luminoso, nitido: anche il tema principale che emerge in “The letter”, di grande ampiezza e sviluppo, appare gravato da un accumulo progressivo di tensione nel convulso crescendo che lo invade, mentre “London 1998” appare simmetricamente collegato ad “Atlanta 1994”, soprattutto nell’ereditarne la pulsante cellula ritmica centrale.
“A conspiracy of good” si svolge sui delicati, timidi accordi del pianoforte, appena interrotti da interventi degli archi, e pianistico è anche l’impianto di “The steps”, che però introduce la presenza straniante di un vocalizzo femminile, dall’effetto quasi sovrannaturale, per rifugiarsi infine nella forma di un adagio per archi dalle armonie sospese e dall’andatura indefinita, supportata sempre dal magistrale contrappuntismo del musicista, sino ai flebili accordi dei violini divisi sul pedale di bassi. Breve e concentrato, “The prayer” si afferma come uno dei brani cardine dello score, nel suo drastico sottrarsi a qualunque rischio di retorica: così pure “Krakow Square” e “All rise”, quantunque più vivaci nel ritmo, si basano essenzialmente su movimenti ostinati degli archi e semplici, limpidi disegni melodici dei fiati; in “Professor Van Pelt” si possono cogliere tracce della suspense e della tensione angosciosa che caratterizzavano le partiture di Il silenzio degli innocenti o Panic Room, mentre “A 1995 Pommard” sembra quasi abbandonare il pianoforte alla propria sconsolata solitudine, delegando agli archi un accompagnamento tanto sommesso quanto intimamente straziante.
Elementi di tensione ricorrono anche in “The dishonest waiter” e “Judge Gray”, ma ancora una volta Shore li confina a semplici progressioni su scale ascendenti dei violini o accenni di dissonanze subito risolte tonalmente. In “Looking at prejudice” un clarinetto in sottofondo ostinato sostiene complesse intersezioni melodiche fra violini, bassi e oboe, che tuttavia sembrano non trovare mai pace, mentre il canto pastoso e accorato dei celli domina l’avvio di “A return to London”, pagina assai elaborata sul piano formale; “The judgement” ripropone l’accompagnamento ossessivo ma delicato dei violini per aprirsi poi in uno squarcio di ritrovata serenità interiore con l’ingresso di corni, legni e trombe, ma senza la minima ombra di trionfalismo. Tant’è che “In my own words” e soprattutto nell’”Epilogue”, l’unico tema riconoscibile come tale nello score si scioglie liberatorio nel canto spiegato degli archi: a rimarcare la ritrovata pace interiore di una partitura che trasuda dolore, risentimento e indignazione, ma li convoglia in un pudore e rigore formali in tutto degni della grandezza del loro autore.

Stampa