Elle

cover elleAnne Dudley
Elle (Id., 2016)
Deutsche Harmonia Mundi 88985361012
17 brani – Durata: 31’00”

Anche se quello di Paul Verhoeven ha la fama – meritata – di cinema “macho”, bellicoso e “sporco”, non è raro che al suo centro si trovino figure femminili forti, anomale e fiere: accadeva per L’amore e il sangue (anno di grazia 1985, musica di Basil Poledouris, suo compositore iniziale di fiducia), poi è accaduto ancora per Basic instinct, capolavoro goldsmithiano, per il discussissimo Showgirls (musiche di David Stewart già Eurhytmics) e poi per il controverso war drama Black Book. E proprio in quest’ultima occasione è avvenuto, non casualmente, l’incontro con una figura forte dell’universo femminile cinemusicale, l’inglese Anne Dudley, classe 1956, unica donna insieme alla compatriota Rachel Portman ad aver vinto un Oscar di settore (per Full Monty, nel 1998). Co-fondatrice del gruppo pop britannico The Art of Noise, collaboratrice di artisti come George Michael, Robbie Williams ed Eminem, la Dudley è nondimeno una compositrice sinfonicamente agguerrita e severamente accademica: vena che affiora con più prepotenza nei contesti drammatici e problematici del thriller o del melodramma.

Il più recente film di Verhoeven, Elle, protagonista l’ambigua Isabelle Huppert, sembra appunto coniugare al massimo grado questi due aspetti, ed offrire quindi alla musicista un’ulteriore occasione (dopo la partitura fiammeggiante e tormentata di Black Book) di esibire il proprio talento di scrittura. Lo score abita prevalentemente negli archi (esegue la superba Chamber Orchestra of London), in una tessitura fortemente contrappuntistica, che alterna squarci cameristici ad accensioni collettive di fortissimo impatto. L‘iniziale melodia– subito interrotta - del violino solo dei “Main titles”, sostenuta dall’arpa, accenna ad un percorso politonale che viene smussato nell’entrata degli altri violini, con un leit-motif cantabile e in un clima che qualcuno ha riconosciuto non distante da quello di alcune pagine di Pino Donaggio: ossia lirismo e suspense, tenerezza e apprensione coniugate insieme. Caratteristica che prosegue in “Little Psycho” e nel misterioso “Unknown caller”, con una reminiscenza dai “Pianeti” di Holst (“Venere”, nella fattispecie), dove il fraseggio si fa sospeso e vitreo; analogamente non tragga in inganno la movenza di valzer morbido che attraversa “I stopped lying”, sostenendo il mesto canto del violoncello, perché nulla è più lontano da questa partitura di un clima salottiero o di circostanza. Ecco infatti che “Parole denied” chiama a raccolta la massa degli archi addensati in una drammatica figurazione su cui legni e poi violino e cello solisti alzano una struggente melopea, mentre “Primal scream”, inizialmente devoto ad atmosfere soffuse, viene bruscamente stroncato da una frustata percussiva cui segue un intervento drammaticissimo e convulso, cupo degli archi; la paura, l’angoscia che serpeggiano nel film si esprimono anche in pagine come “A woman in your age” e “It was necessary”, dalle dissonanze pacate ma fosche nella loro cristallina limpidezza, salvo sfociare – nel secondo titolo citato – in brusche esplosioni ritmiche supportate dall’intervento (moderato) dell’elettronica. Anche il ritorno del toccante tema principale in “The book, the bell, the candle” è sorvegliato dall’allarmante presenza degli archi su accordi lunghi, mentre in “Ash girl” l’arpa risuona su un tremolo dei violini prima di un tempo di marcia lenta e luttuosa.
L’intervento del pianoforte di “Just good friends” introduce un elemento timbrico di novità nello score, quantunque presto circondato dal brontolìo dei bassi, seguito dall’entrata dei legni, a connotare quanto attenta e sapiente sia la ripartizione strumentale operata dalla Dudley. Anche “A tortured soul” ribadisce la doppia “anima torturata” del lavoro, dimidiato fra un lirismo minaccioso, irrisolto e il surriscaldarsi repentino del suono fra rulli di tamburo e flautandi dei violini: è forse questa la pagina più vicina al lato thriller del film. Ma ecco che i legni tornano, quasi bucolici, ad ingentilire “The shutters” prima della ricomparsa dei violini in un disegno quieto ma ossessivamente iterato e poi in un severo ricompattarsi. Il riapparire del tema principale prelude in “In control” ad atmosfere interrogative e inquietanti, che insistono anche in “Prowler”, con il lungo tremolo in re degli archi e il dialogo fra due violini soli e l’arpa, preludio ad una serie di accordi in crescendo sfocianti in un reticolo di aspre dissonanze rinforzate elettronicamente e dal sapore squisitamente horror.
Di nuovo il piano, conciliante e melodico, introduce il fraseggio composto e pensoso di “Fresh paint”, ma la partitura si chiude ancora nel segno dell’ambivalenza e dell’incertezza espressiva con “A different ending”, in cui coabitano il dispiego melodico dei violini, reso però apprensivo dalla mutevolezza armonica e dal sostegno ritmico dei bassi, ed una perdurante atmosfera di oppressione psicologica.
Dunque una partitura, quella di Anne Dudley, dalle risonanze perturbanti e dalla scrittura magistrale, che conferma ancora una volta in Verhoeven un regista molto attento e sensibile al lato, oscuro e musicale, del proprio cinema.

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