Star Wars: the Force Awakens

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John Williams
Star Wars - Il risveglio della Forza (Star Wars: the Force Awakens, 2015)
Walt Disney Records D002177202
23 brani – Durata: 77’13”

In una recente intervista Carrie Fisher ha dichiarato di considerare l’Episodio V -L’impero colpisce ancora (1980) come il più “spirituale” dell’intera saga Star Wars. Uno sguardo d’insieme a questo colossale ciclo dell’immaginario contemporaneo, che forse più di ogni altro ne ha influenzato l’evoluzione e la mitipoiesi (ossia la capacità di generare miti), ci dice che la 59enne attrice californiana, tornata dopo quasi 40 anni nei panni della principessa Leia Organa, ha probabilmente colto nel segno. In effetti, gli snodi di quel secondo (in ordine di realizzazione) capitolo appaiono insieme decisivi e profetici sia per la comprensione degli antecedenti che per gli sviluppi successivi: è lì infatti che avvengono le agnizioni cruciali (Vader padre di Luke, Luke e Leia fratelli), le rese dei conti, i confronti più drammatici, gli eventi potenzialmente più tragici (la cattura e l’ibernazione di Han Solo).
Solo alla luce di questa drammaturgia complessa eppure così “classica” (che spazia dalla tragedia greca ai poemi cavallereschi) si può comprendere non solo il passo successivo (Il ritorno dello Jedi) centrato sul tema della Redenzione, ma anche la trilogia di prequel successiva, quella sorta di “ur-Star Wars” che George Lucas – al di là dei risultati specifici sul piano estetico, ovviamente opinabili – seppe caricare di un senso opprimente di predestinazione, costellandoli di segnali premonitori e di valenze simboliche. Un percorso che sembrava (e in parte è) giunto a compimento con l’Episodio III La vendetta dei Sith (2006), concluso con la parallela ri-nascita di Luke e Leia da un lato, e di Vader (in cui si è reincarnato Anakin Skywalker) dall’altro.
Ora, è proprio ripartendo dall’ultimo capitolo citato che anche (non solo) dal punto di vista musicale acquista il giusto significato l’impresa affrontata dall’84enne maestro quasi un decennio più tardi per il settimo episodio diretto da J.J.Abrams. Perché è vero che il marchio di Lucas è ormai limitato a quello di un generico “creative consultant”, è vero che la “disneyzzazione” dell’operazione comporta inevitabilmente un’anestetizzazione delle punte più cupe e “dark” (il famoso “lato oscuro”, qui ridotto a una faida familiare alla Dallas), è vero che lo stesso compositore rielabora in gran parte materiali preesistenti (ma con quale geniale profondità di campo!) e condivide parzialmente con fedeli adepti quali William Ross e Gustavo Dudamel la direzione di un’orchestra costituita ad hoc con i migliori elementi della Los Angeles Philharmonic… tutto innegabilmente vero, dicevamo, ma alla fine confluente in un insieme di dettagli collaterali che non scalfiscono minimamente il profilo culturale e vorremmo dire etico, oltre che estetico, del progetto williamsiano. Le cui riconfermate, anzi enfatizzate identità tematiche, strutturali e musicali con il ciclo dell’”Anello del Nibelungo” di Wagner ormai appartengono di diritto alla sfera creativa del compositore, che s’incarica senza mediazioni – e addirittura prescindendo dall’impostazione “hip hop” di Abrams, la sola nelle corde di questo regista – di agganciare la mitologia di Star Wars alle coordinate di un’epopea moderna, raccordandone ed esplorandone la memoria, i presagi, le nostalgie, le possibili eredità.
Naturalmente quando si parla di “eredità” bisogna intendersi: non c’è nessuno oggi, neanche lontanamente, neanche allo stato nascente, in grado di competere con questo livello di creatività. Anche concedendo al maestro newyorkese un margine – inevitabile – di routine e di mestiere, la sua routine e il suo mestiere surclassano di qualche anno luce tutto ciò che oggi circola a livello medio-alto nel comparto della musica per immagini. Su questo bisogna essere ben chiari, e se qualcuno avesse ancora dubbi vada ad ascoltarsi i “Main title and the attack on Jakku village”: le prime settanta battute dei titoli, comuni a tutti i capitoli della saga, suonano impercettibilmente rallentate e ammorbidite rispetto a versioni precedenti (insuperabile in tal senso l’edizione Fox dell’Episodio IV) ma la seguente pagina action esibisce quasi sfacciatamente una immediatezza, un’aggressività, una freschezza concettuale stupefacenti; come sempre in questi frangenti l’orchestra di Williams si accende di bagliori demoniaci, di vertiginosa imprevedibilità ritmica, gli ottoni ribattono disegni a raffica e intrecciano con gli archi un inseguimento vorticoso e irregolare. E appare subito una delle idee nuove dello score, il tema di Kylo Ren, personaggio che di fatto assume su di sé il lascito di Darth Vader ignorandone il riscatto finale e venerando come reliquia ciò che resta del suo celebre elmo-maschera: la cui inquadratura non a caso è sottolineata da Williams con un flebile ma incombente accenno al tema dell’Imperial March (qui escluso dal cd ma forse destinata a riapparire in un’auspicabile, prossima “extended edition”). Il nuovo tema però e una figurazione possente, apocalittica e minacciosa dei corni sviluppata nell’arco discendente di un’ottava, “la-la bemolle-re-fa-la” e declina di fatto il nuovo configurarsi del Male, del Lato Oscuro, con una venatura di disperazione sin qui sconosciuta e sottolineata in ulteriori due esposizioni di coda; la partitura, il cui colore timbrico trasmette intatta e intangibile nei decenni la tavolozza del suono williamsiano, ci abitua ben presto ad un fertile e continuo mutare di atmosfere, esemplificato in “The scavenger”, dove il lamento iniziale del corno inglese (con una reminiscenza palese dal Canto del Pastore del terzo atto di “Tristano e Isotta”) s’intreccia con movenze più rapide e lievi, mendelssohniane o più probabilmente memori di Prova a prendermi. A tale proposito, sarà bene sgombrare il campo da un dubbio, che è anche un equivoco: Star Wars – Il risveglio della Forza brulica musicalmente non tanto di autocitazioni quanto di referenze estese a quello che è stato tutto il percorso poetico di Williams in questi quarant’anni. Non sono scorciatoie – il maestro non ne conosce né tollera – ma piuttosto di una serena, superiore riflessione su se stesso, esattamente come vanno facendo in questo tratto del loro itinerario gli altri due grandi patriarchi della musica per film, Ennio Morricone e Michel Legrand. Lo testimoniano la vibrante, asciutta essenzialità dinamica di “I can fly anything”, musica di battaglia senza fronzoli, e le trasparenti liquescenze di “Rey meets BB-8”, con arabeschi dei legni a ricordarci Harry Potter; anche nei passaggi di transizione, come “Follow me”, l’orchestra di Williams sembra acquattarsi pensierosa e quasi opaca, rispettando sempre l’evoluzione del racconto ma pronta a scattare in piedi con furibonde movenze di “scherzo” come qui nella seconda parte del brano dove in chiusura si viene abbagliati da una rapida, bruciante esposizione della fanfare di Una nuova speranza.
Si parlava prima del nuovo materiale tematico: d’accordo, manca in questo lavoro la pagina di fulminante bellezza (un “Across the stars”, per capirci), ma s’è già detto del tema di Kylo e va ora sottolineato anche il “Rey’s theme”, che nel prosieguo dell’ennealogia è prevedibile assumerà un ruolo decisivo insieme al personaggio della giovane e indomita mercante di rottami: una melodia appassionata e straordinariamente giovanile, prima nei legni poi dispiegata negli archi, che sembra coniugare insieme innocenza e una fatale predestinazione eroica. La movimentatissima “The Falcon” rimette in moto gli ottoni (brillanti sino ad accecare l’udito, se ci passate la sinestesia) sulla fanfara già citata, in un nuovo “scherzo” sincopato strumentato divinamente e temerariamente precipitato in ardite dissonanze e dissoluzioni tonali: non dimentichiamo infatti che Williams, in questi frangenti, è compositore modernissimo e persino spericolato dal punto di vista delle costruzioni armoniche. L’altalena emotiva dello score ci riporta a tonalità malinconiche in apertura di “The girl with the staff”, che però sprofondano subito in colori quasi da horror music, sul rombare dei bassi, le stridenti dissonanze e gli sforzandi degli ottoni gravi; peraltro “The Rathstars!” dà l’impressione di qualche difficoltà da parte del compositore a star dietro all’adrenalina imposta dal regista, ma ecco che in questo caso a sorreggerlo interviene da un lato il mestiere formidabile, dall’altro la possibilità di resuscitare allusivamente i vecchi temi, come quello di Luke (echeggiante nei corni), immergendoli in un manuale di action music da paura, con guizzi feroci dei legni e velocissimi disegni degli archi raddoppiati dagli ottoni, che chiudono la pagina con una squillante e assertiva riproposizione della nota fanfara; squisitamente williamsiano, nell’accorata passionalità dei timbri e nella struttura politonale, è poi “Finn’s confession”, anche se è abbastanza evidente che il personaggio dell’assaltatore-disertore non ha ispirato al compositore un profilo musicale particolarmente sentito. Gli accenti quasi strazianti, supplicanti degli archi in “The Starkiller” evocano il Williams di tanti momenti spielberghiani ma anche quello di Fury, dove il pathos suscitato è il riflesso tragico, più che minaccioso, del lato oscuro, che tuttavia lascia spazio al primo in “Kylo Ren arrives in the battle”, con la doppia, funerea asserzione del suo inconfondibile tema, ormai ancestrale e non più differibile. Tema che torna, nettamente protagonistico, in un altro scampolo di horror music sinfonica da far impallidire tutta la contemporaneità, “The abduction”, al quale si oppone disperatamente negli ottoni il tema di Rey, sancendo lo statuto eroico di colei che è già stata chiamata “la nuova Leia”. E, a proposito di quest’ultima e di Han Solo, non è solo struggente nostalgia per il passato quella che in “Han and Leia” si alza dalla sommessa, quasi dimessa esposizione del loro love theme nei legni ripreso dopo 35 anni, e seguito dal tema della principessa nei celli; è invece, come si diceva, la sublimazione di un’epoca e, per Williams, un ripensare se stesso nel quale si intuisce anche (e come potrebbe essere diversamente?) una sorta di composto, rassegnato dolore. Del resto, che il musicista non abbia tempo né intenzione di autocommiserarsi né autoglorificarsi traspare dal prosieguo di questa stessa pagina, che s’inerpica in un fraseggio complesso degli archi e torna al tema di Leia con i corni solo verso la fine, dialogando direttamente insieme ai protagonisti ed evocando (lo ripetiamo: wagnerianamente) più che un character un sentimento e una drammaturgia: sigillati non a caso dal tema della Forza.
Il formidabile, mostruoso contrappunto della “March of the Resistance”, con il suo colossale fugato interno, è tutto fuorchè esibizionismo accademico, bensì – semplicemente – una pagina concertistica perfettamente chiusa e di altissimo profilo architettonico, priva di qualsiasi trionfalismo e – anzi – connotata da bagliori sinistri e accenti quasi funebri; questi ultimi predominanti in “Snoke”, il Leader Supremo del Primo Ordine, grazie all’intervento di un cavernoso, spettrale coro di bassi (intercalato da freddi strappi degli archi) che nella sua monotona fissità ricorda il “Semyon Kotko” di Prokofiev. Ostinate terzine si susseguono in “On the inside” prima di soccombere ai tromboni che scolpiscono il tema di Kylo, ormai dilagante e invasivo, ma è “Torn apart” il nuovo, grande momento di meditazione, nella composta ma densa severità iniziale degli archi fino a un potente crescendo che si spegne di nuovo nel fraseggio sconsolato e penetrante dei violini, lasciando spazio ancora al richiamo del tema di Kylo stavolta però fieramente contrastato dal tema della Forza, a dimostrare quanto Williams sia capace anche di “narrare”; tant’è che il tema del Male è, alla fine, ridotto ad un oscuro, impotente ringhio degli ottoni con sordina.
Senza indugiare oltre Williams fa configgere apertamente i due temi in “The ways of Force”, affidandone la differenziazione all’arco dinamico: quasi sempre in fortissimo Kylo, pazientemente e fiduciosamente in “piano” la Forza. Ovvero, i colori dello score che divengono colori anche psicologici: senza che ciò impedisca naturalmente al tema della Forza di risuonare ultimativo in coda alla traccia.
Per diabolica abilità di scrittura “Scherzo for X-wings” sta alla pari con “March of the Resistance”: imperniato sul tema principale della saga alternato con frammenti del tema della Forza è un impressionante sfoggio di strumentazione e contrappunto dalle risorse strumentali inesauribili, chiuso in una scrittura secca, essenziale, di asciutta brutalità. “Farewell and the trip” può, a questo punto, concedersi un momento emotivamente quasi insostenibile nella riproposizione sussurrata nei corni del tema di Leia, malinconico e crepuscolare com’è ormai il personaggio, ma annodato strettamente col tema di Luke e della Forza, quasi in una ricapitolazione essenziale del passato a fare da elemento trainante per il nuovo tema di Rey, l’eroina nascente. Nel momento del congedo (“The Jedi steps and Finale”) sul disegno misterioso degli archi il tema di Rey prima nei legni poi nei corni assume tonalità quasi religiose, ma è solo il preambolo al levarsi su un tremolo in sol minore dei violini del tema della Forza: è un attimo, quasi una promessa, prima che inizino gli End Title tutti, ovviamente, nel segno dello sfolgorante tema di Rey, tuttavia ostinatamente contrastati da quello di Kylo. Torna anche il magistrale fugato della “March of the Resistance” , seguito da tema della Forza, tema di Rey e scampoli della fanfara principale, genialmente affidata al delicato rintocco della celesta sul pacato accordo conclusivo di si bemolle maggiore che suggella, tutt’altro che trionfalisticamente, il cd.
Si discute e si discuterà molto se questa partitura renda meglio all’ascolto su disco o nel suo contesto filmico naturale; ci limiteremo qui a consigliare a chi possa farlo di assistere alla proiezione in una sala attrezzata con il sistema Dolby Atmos, per capire davvero quale sia il ruolo scenografico e drammaturgico dello score.
Una cosa però è già certa: assai più della presenza superstite di Harrison Ford, Carrie Fisher e Mark Hamill, assai più della riproposta di passaggi psicoanalitici fondamentali  come il conflitto edipico o il parricidio (centrali anche nell’Episodio III e V), assai più anche di una fedeltà iconografica quasi stucchevole (forse perché non del tutto sincera ma rivolta unicamente ai fan) agli originali, è Williams ormai il vero Autore, il Settimo Sigillo, il Grande Vecchio che possiede tutti i segreti e conosce tutti gli angoli più nascosti del Mito, e che è in grado di condurci attraverso i suoi labirinti, tra passato, presente e probabilmente anche futuro. È Williams a custodire, mahlerianamente, il fuoco e non le ceneri di una tradizione della quale egli è stato insieme destinatario, profeta e custode, artefice e in qualche modo prigioniero, giacché è con questa saga ed in questa saga che egli ormai viene identificato e più si riconosce, al punto da aver rinunciato provvisoriamente allo storico sodalizio con Spielberg per potervisi dedicare con tutte le proprie energie. E se qualcuno, per primo chi scrive, aveva inizialmente potuto criticare questa scelta, dubitando della sua legittimità artistica, ora l’esito di questa partitura così supremamente imperfetta, così filosoficamente concepita, così “spiritualmente” realizzata s’incarica – fortunatamente – di darci torto.

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