Pas de deux

cover_pas_de_duex.jpgJames Horner/AA.VV.
Pas de deux (2015)
Mercury Classics Cat. 481 1487
6 brani - durata: 56’35”



Il rapporto tra i compositori del cinema e la musica scritta espressamente per sala da concerto è da sempre una prospettiva curiosa ed interessante da cui guardare il percorso estetico di alcuni autori e tentare di capirne più a fondo la poetica. Alcuni (Erich W. Korngold, Miklòs Ròzsa, Nino Rota) vi hanno dedicato pari attenzione e tempo rispetto al loro lavoro per il cinema; per altri (John Williams, Ennio Morricone) è una occasionale ma fruttuosa “distrazione” dalle committenze cinematografiche. E per altri ancora è stata o è tuttora una vera e propria “terra incognita”, non scevra di dilemmi estetici e aspetti problematici. E' in quest'ultima categoria che rientra il compositore americano James Horner (1953), che ha dedicato pressoché esclusivamente al cinema la sua attività musicale da ormai più di 30 anni a questa parte (con l'eccezione di un lavoro giovanile del 1977, “Spectral Shimmers”, eseguito in pubblico solo una volta e ritirato immediatamente dal suo catalogo).
Ci è voluto un duo di solisti di grido, la violinista Mari Samuelsen e il violoncellista Håkon Samuelsen, per riportare il compositore premio Oscar di Titanic nel terreno della cosiddetta musica assoluta. Nel 2012, il duo norvegese ha infatti commissionato a Horner un doppio concerto per violino, violoncello e orchestra da eseguire sotto la direzione di un altro giovane astro della musica classica, il russo Vasily Petrenko, alla testa della Royal Liverpool Philharmonic Orchestra. Pas de deux debutta a Novembre 2014 nell’appena rinnovata Philharmonic Hall di Liverpool e raccoglie un buon numero di recensioni positive.

Qualunque compositore si cimenti nella scrittura di un concerto per questi due strumenti fa inevitabilmente i conti con il quasi insostenibile fardello dell'eredità del doppelkonzert brahmsiano – uno dei capolavori assoluti della letteratura sinfonica di tutti i tempi – e bisogna dare atto a James Horner di aver accettato la sfida con un navigato senso di realtà e sincera umiltà, come dichiarato da lui stesso in alcune interviste. E' forse per fugare qualunque sospetto di velleità o di pretenziosità che il compositore rimarca sin dal titolo la natura quasi programmatica della pagina. Più che un concerto in senso strettamente formale, Pas de deux pare essere un poema sinfonico con parte solista obbligata, dove l'armonia e la sinergia che intercorre tra fratello e sorella viene celebrata con un fluente lirismo che mette in risalto la cantabilità dei due solisti. Horner sceglie infatti un linguaggio saldamente tonale, rassicurante, lontano da qualunque tipo di sperimentalismo o tentazione avanguardista (lasciamo a firme più dotte il compito di affrontare i dilemmi estetici sulla necessità o meno di scrivere oggi per la sala da concerto in linguaggi ritenuti “consumati”), ma molto vicino allo stile sinfonico fine '800-primo '900 tipico della sua scrittura per il cinema (in diversi momenti ci sono richiami evidenti ad alcune sue colonne sonore). Ciò che colpisce di Pas de deux è l'assenza di qualunque pretesa intellettuale e tantomeno di virtuosismo fine a sé stesso, che lascia spazio invece ad uno spontaneo sgorgare di note che si riversano sull'ascoltatore. Anche l'accompagnamento orchestrale è discreto e sorvegliatissimo, ma comunque capace di aprirsi sia a piccole oasi sinfoniche che a brevi interludi cameristici di legni e corni. Siamo di fronte al lavoro di un compositore che dimostra una conoscenza profonda in termini di scrittura, orchestrazione e architettura, ma che non nasconde nemmeno per un istante il suo animo profondamente post-romantico, anche a costo di essere tacciato di sentimentalismo. I più critici etichetteranno Pas de deux come “pasticceria hollywoodiana”, ma la verità è che Horner qui fa quello che sa fare meglio, ossia creare emozione attraverso un linguaggio riconoscibile e collaudato.

Suddiviso in tre movimenti che si susseguono senza soluzione di continuità, “Pas de deux” cattura l'attenzione sin dalle prime battute: un lungo arpeggio di violoncello e violino sulla tonalità d'impianto apre il sipario e poco dopo gli archi entrano con un soffuso accompagnamento ritmico sul quale i due solisti espongono la prima idea tematica, ora danzando all'unisono, ora scambiandosi frasi e cellule motiviche. Tutto il lungo primo movimento è un'esplorazione attorno a questa idea, opportunamente variata e modulata, in cui violino e violoncello sono protagonisti assoluti. Horner è interessato soprattutto alla capacità espressiva dei due solisti e gli regala le linee melodiche lunghe, morbide e fluenti tipiche dello stile che abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare nelle sue migliori colonne sonore, ma che allo stesso tempo richiama il placido tono pastorale di alcune pagine di Ralph Vaughan Williams. Il secondo movimento è più raccolto e meditabondo, dominato da un lirismo tenue e soffuso screziato talora da lievi ombre, in cui violino e violoncello continuano il loro dialogo, interrotti discretamente dall'orchestra (ottima e precisa la direzione di Petrenko in tal senso), per poi sciogliere la tensione in un crescendo di dimensioni amplissime: James Horner è un compositore con un grande senso della teatralità e di rara bravura nel costruire un vero e proprio percorso “narrativo”. Il ritorno del lungo arpeggio iniziale porta ad un brusco cambio di passo: percussioni e campane tubolari interrompono l'idillio dei due solisti e gli archi innestano un ritmo motorio di marca minimalista che riporta alla mente lo score di A Beautiful Mind; violino e violoncello accolgono la sfida e ritornano protagonisti palleggiandosi spunti tematici e rapidi fraseggi, mentre il dialogo con l'orchestra si fa sempre più serrato ed avvincente. Gli archi riconquistano l'idea tematica principale e i due solisti prendono letteralmente il volo insieme a tutta l'orchestra in un pieno sinfonico di grande fascino, per giungere infine ad una vero e proprio topòs horneriano, ossia l'ascesa propulsiva di ottoni e percussioni usata dal compositore in molte sue partiture (Star Trek II, Rocketeer, The Amazing Spider-Man), sulla quale i due solisti fanno brillare per un'ultima volta la loro luce portando a compimento la partitura insieme a tutta l'orchestra. E' un finale nel quale è quasi impossibile non farsi trascinare dall'entusiasmo che traspare sia dal compositore che dagli esecutori.

Oltre al lavoro di Horner, il disco presenta tre pagine di altrettanti compositori contemporanei (curiosamente tutti ascrivibili alla corrente post-minimalista) che i due solisti usano come vero e proprio tour de force delle loro capacità di virtuosi: la versione per violino solo, percussioni e archi di “Fratres” di Arvo Part diventa lo showcase di Mari Samuelsen, che ne dà una lettura di rapinosa bellezza; “Violoncelles, Vibrez!” di Giovanni Sollima è invece l'occasione per Håkon Samuelsen di dimostrare tutto il suo estro grazie alle sonorità aspre e spigolose della pagina; fratello e sorella tornano a duettare in “Divenire” di Ludovico Einaudi, composizione che dà nuovamente l'occasione ai due solisti di dimostrare la loro capacità di far cantare con grazia i relativi strumenti.

Un disco affascinante, che merita l'ascolto soprattutto per il bel lavoro di James Horner e che riporta nuovamente al centro dell'attenzione il tanto discusso aspetto della cosiddetta “doppia vita” dei compositori del grande schermo, tema attorno a cui c'è ancora molto da scrivere e approfondire.

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