The Book Thief

cover_the_book_thief.jpgJohn Williams
Storia di una ladra di libri (The Book Thief, 2013)
Sony Masterworks 379707
22 brani – Durata: 52’03”



Ci si accosta sempre con un certo timore reverenziale ad un nuovo lavoro del quasi 82enne patriarca della musica da film, consci di essere di fronte al massimo compositore vivente di questo genere, e forse anche di altri generi. Quando, con una carriera alle spalle come quella che ha Williams, e mentre la sua discografia non accenna a scemare, cogliendo e riproponendo lavori lontani e lontanissimi (da The Fury, 1978, sino a Fitzwilly, addirittura degli anni Sessanta, passando attraverso l’extended edition di Mamma ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York), ci si imbatte in una partitura “minimal” come questa, per un film che rifugge gli stereotipi del blockbuster e che ha tutte le caratteristiche del piccolo prodotto intimista e indipendente, si resta ogni volta stupefatti dalla freschezza, dall’immediatezza e dalla spontaneità con cui questo ottuagenario “ragazzo” della musica per film affronta l’impegno e ribadisce uno stile che ci è ormai familiare da un quarantennio almeno, attraverso pochi, sapienti e coinvolgenti tocchi.
Trasposizione del libro di Markus Zusak “La bambina che salvava i libri” (Frassinelli, 2005), il film del semisconosciuto regista televisivo Brian Percival (al suo attivo numerosi episodi della serie Downton Abbey), con Geoffrey Rush e Emily Watson, racconta la figura quasi favolistica di Liesel, bimba adottata in una Germania sconvolta dall’orrore nazista e avviata ad un destino di “ladra di volumi” che la porterà a salvare numerose opere dai roghi e dalla distruzione del mostro hitleriano. Incastonata tra gli impegnativi e squillanti capitoli della sua simbiosi con Spielberg e con l’epica postlucasiana (dopo Tintin e Lincoln sono in cantiere l’Indiana Jones n.5 e lo Star Wars n. 7), la partitura n. 143 dell’opus williamsiano, prima dal 2005 a non essere dedicata al suo regista elettivo, così soffusa e sommessa, tersa e indicibilmente lirica, svolge per il compositore lo stesso tipo di compito che in passato fu di scores come Lettere d’amore (90, Martin Ritt), Missouri (76, Arthur Penn), Nemiche amiche (98, Chris Columbus), Turista per caso (88, Lawrence Kasdan), Le ceneri di Angela (99, Alan Parker) o Memorie di una Geisha (2005, Rob Marshall): ossia un lavoro delicato di meditazione sopra le forme musicali, ripiegato in un infinito pudore del suono e in una dolente ma mai stucchevole mestizia, nel quale le doti di strumentazione del maestro – che pure sappiamo essere praticamente illimitate – vengono poste al servizio di una comunicatività impalpabile, gentile e limpidamente trattenuta, cosparsa di morbide oasi cameristiche, luminose parentesi solistiche e raccoglimenti melodici. Non si tratta di un ripiegamento ma, a tutti gli effetti, dell’”altro” volto del compositore rispetto a quello epico-patriottico, entrambi congiunti e coesi da una sapienza architettonica, si direbbe da un’umanistica “saggezza” creativa, che si fa sintesi superiore e sublime delle opzioni stilistiche adottate.
Come altre volte in Williams, troviamo qui il pianoforte in un ruolo di primo piano, in stretto dialogo con l’orchestra d’archi e con i legni solisti impegnati in lunghe, vibratili cadenze. “One small fact” si apre con un solo pianistico incantatorio, ad esporre il tema principale, quasi nelle forme memori di un notturno chopiniano: all’esposizione segue una fase più mossa, ansiosa negli archi, secondo una bipartizione che riudremo già in “The journey to Himmel Street”, preceduta da un desolato, piangente assolo del corno inglese. Gli arabeschi degli archi continuano a sorreggere l’eloquio riluttante del pianoforte, cui si affianca in un clima ancor più trasparente l’arpa, in “Ilsa’s library”, mentre ritroviamo il tipico schema dello “scherzo” williamsiano nel danzante “The snow fight”, dove archi e legni scoppiettano all’interno di un vincolo decisamente politonale, quindi comunque turbativo: a dimostrazione di come spesso venga trascurata, nell’analisi di Williams, la componente moderna e d’avanguardia che permea molte sue partiture soprattutto sul versante meno sontuosamente sinfonico (si pensi solo all’esempio folgorante di Presunto innocente, 90, di Alan J. Pakula,  che sfocia nella serialità dodecafonica). “Learning to read” riconsegna in un ampio cantabile il leit-motiv agli archi, ma “Book burning”, pezzo-clou di una delle più cupe sequenze del film, punta su dissonanze vitree degli archi e sull’immobilità ritmica, senza mai forzare l’arcata dinamica (la partitura si spinge raramente oltre il “mezzoforte”). Si diceva del ruolo principe dei solisti, autentiche “voci di dentro”, nello strumentale williamsiano: si ascoltino l’arpa delicatissima ed emozionante di “I hate Hitler!”, in dialogo con il clarinetto sul pedale di violini e viole, e soprattutto lo struggente, indimenticabile solo dell’oboe in “Max and Liesel”, autentico fuggevole love theme per il rapporto tra Liesel e il ragazzo ebreo; echi brahmsiani affiorano nell’incipit di “Revealing the secret”, dal severo fraseggio degli archi interrotto solo dalle lente, afflitte enunciazioni del clarinetto e poi del flauto e dei legni, in un impasto di dolorosa ma asciutta intensità espressiva. “Foot Race” crea prima suspense poi brio nell’intarsio caleidoscopico degli archi, che sembrano procedere senza schemi prefissati; ma ecco tornare, quasi disperato, l’oboe nel tema principale seguito dal canto sostenuto e lucente dei violini in “The visitor at Himmel Street”. Un assolo quasi funebre del violoncello apre “Learning to write” (non dimentichiamoci mai che sono tutti strumenti per cui Williams ha scritto fior di concerti) che prosegue sviluppando il leit-motiv negli archi in un clima più agitato: ma l’atmosfera si ridistende, nel consueto abbraccio fra pianoforte ed archi, in “The departure of Max”. Ancora lo stesso tema risuona, liquido e lucente nell’arpa, in “Jellyfish”. La drammatica frase degli archi a salire che si staglia sullo staccato di “Rescuing the book” ci rivela come Williams persegua qui l’itinerario di una drammaturgia musicale sottile e sottomessa ad una straordinaria compostezza formale, dove i singoli momenti trovano ciascuno il proprio registro timbrico più appropriato: come in “Writing to Mama”, tintinnante di celesta, violini e arpa ma poi indirizzato al tema conduttore pianistico raddoppiato dagli archi a canone. Un esempio quasi didattico delle procedure compositive del maestro.
“Max lives” si rasserena in tonalità maggiori, a contrasto con il drammaticissimo, seguente “Rudy is taken”, dove l’intensità ombrosa e perorante degli archi approda a modelli mahleriani. Ancora il canto sospeso dell’oboe ci cattura nell’aprire il “Finale”, che tuttavia affida a pianoforte e arpa il compito di una interlocuzione avvolgente e vaporosa, portatrice di un lirismo incontenibilmente intenso e toccante.
Il congedo di “The Book Thief” assolve con i suoi oltre sette minuti, il compito di ricapitolazione dei materiali: come spesso accade in questa circostanza al compositore, Williams non si limita ad un riassemblaggio tematico ma riespone le idee principali spogliate di ogni derivazione variativa e ricondotte al proprio nucleo. Il tema principale passa da archi a pianoforte di nuovo agli archi, mentre il piano fornisce inquieti abbellimenti, poi ai legni, chiedendo sostegno agli archi secondo spaziose, ampie evoluzioni; il decorso si sposta su un disegno infinito dei violini, la cui aspirazione sembra essere una solare tonalità di re maggiore che però non viene mai assaporata pienamente, sino ad una frase conclusiva quasi straziante che lascia il pianoforte ad enunciare in quasi totale solitudine, per l’ultima volta, il tema, prima di una coda dall’andamento incerto, che si spegne in un ombroso sol minore.
Una partitura indimenticabile almeno quanto riservata e raffinatamente commovente, quella di Williams: che assume il valore e l’altezza di un messaggio etico e poetico di splendente forza morale.

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