Stardust

cover_stardust.jpgIlan Eshkeri
Stardust (id., 2007)
Polydor 174 363-4
21 brani – durata: 53’55”

 

Da quando, nel 2001, le saghe di Harry Potter e Il Signore degli anelli hanno patrocinato il revival del fantasy su grande schermo, l’entertainment hollywoodiano, sulla scorta dei clamorosi successi di botteghino, ha sintonizzato il gusto del blockbuster contemporaneo alle direttive del carismatico genere. Solo lievemente distanziati all’interno del filone dalle rispettive, preventive destinazioni di target – la saga tratta dai romanzi della Rowling principalmente intesa ad incontrare i favori del pubblico più giovane, il monumentale adattamento dell’opera tolkieniana capace di coinvolgere l’audience adulto – le già più che convergenti correnti hanno trovato naturale confluenza in una filmografia che grazie a Le cronache di Narnia, Eragon, Un ponte per Terabithia e il recentissimo La bussola d’oro ha guadagnato di diritto una pagina significativa nella storia cinematografica del secolo appena avviato. Tanto prospera che c’era da aspettarsi, sei anni dopo l’innescarsi della stagione più lunga del genere, non solo un cedimento delle strutture congenite al racconto e all’estetica dell’immaginario, ma addirittura un opera di falso compiacimento (ma in realtà di rottura) reazionaria e satireggiante. Ed ecco, puntuale ma forse anche fuori tempo massimo, Stardust, lo Scary Movie del fantasy travestito da fantasy. Un Robert De Niro estremamente campy al timone di un galeone piratesco che millanta virilismo, una Michelle Pfeiffer che prende in giro l’ossessione per le rughe delle ex prime donne di Hollywood (orami relegate allo status di comprimarie cinquantenni) e una dama recalcitrante (Claire Danes) che fa l’eroina smaliziata e beffeggia il suo ingenuo difensore (Charlie Cox), eroe suo malgrado. Sotto copertura, il film di Matthew Vaughn agisce da diligente e corretto emulo di genere, senza sabotare i meccanismi narrativi se non esagerandoli, sfiorandone il parossismo (strumento d’eccezione il coro greco dei fantasmi capitanati da Rupert Everett) e assicurandosi così il plauso degli irriducibili e il complice intendimento dei lettori trasversali.
Il testo musicale che scorre abbondante, dunque in piena corrispondenza ai canoni del filone senza uscire dal seminato, germina in seno ad un derivatismo di sconcertante evidenza che ben si presta ad agevolare la doppia fruibilità della pellicola. Il lavoro redatto dall’emergente Ilan Eshkeri – che Vaughn si è portato dietro direttamente dal suo precedente e intrigante The Pusher (Layer Cake, 2004) – non tarda una nota a dichiarare i suoi héritage di riferimento, che, prevedibilmente, sono ancora i capisaldi del moderno fantasy scoring: il florido, fiabesco sinfonismo di John Williams per Harry Potter e l’austero, non meno denso commento musicale che Howard Shore ha offerto alle immagini della Terra di Mezzo jacksoniana. Soprattutto quest’ultimo salta all’attenzione man mano che ci si addentra nella generosa selezione dello score proposta dall’album Polydor, così imbevuto nell’idioma da riportare alla mente, battuta dopo battuta, episodi, accenni melodici o anche semplici scelte d’orchestrazione della monumentale partitura shoriana. Un’istintiva associazione che certamente giova all’effetto di familiarità con i luoghi comuni di genere probabilmente ricercata dagli autori (e amplifica il suddetto meccanismo di enfasi ironica) elaborando una puntuale ed efficace topografia delle retoriche musicali che attiva, situazione per situazione, ambiente per ambiente, personaggio per personaggio, un’immediata comodità d’immedesimazione e di significazione. Tutto a svantaggio, ovviamente, dell’innervante lavoro tematico che Eshkeri dimostra comunque di aver pianificato, rintracciabile a posteriori ma di difficile apprezzamento alla luce delle continue emulazioni che ne squalificano in parte gli intenti. E’ così per uno dei motivi più splendenti ed efficaci della composizione, presentato in conclusione di “Tristan”, lodevole per servizio alle immagini e impatto narrativo se non fosse per l’istantanea riconducibilità al tema di James Newton Howard per Lady in the Water. Altre incursioni insomma, anche fuori dai contesti shoriani. Come in “Lamia’s Inn”, l’apice della sfrontatezza citazionistica dello spartito, dove a commento di un lungo segmento di tensione Eshkeri giustappone un ricalco della celebre marcia composta da Wojciech Kilar per il Dracula di Francis Coppola. Il brano offre anche un saggio dell’inclusione di repertorio classico nello score, ora con frammenti dal Clavicembalo ben temperato di Bach, poi anche con Dvorak e Offenbach.
E viene da chiedersi se non sia da giudicare repertorio anche il materiale cine-muscale parafrasato alla bisogna, aprendo di nuovo quella inquietante finestra su un ritorno agli sheet music per la compilazione musicale delle immagini per lo schermo, i cataloghi del primo cinema capaci di rispondere ad ogni esigenza di racconto con la giusta soluzione musicale. In fondo la degenerazione nell’uso dell’irrinunciabile temp-tracking ha offerto motivi di preoccupazione da tempi non sospetti, e la post-produzione di Stardust certamente non ne è stata immune. Se poi si considerano le voci secondo cui ancor prima dell’uscente John Ottman, con tanto di score rifiutato, sarebbe stato licenziato lo stesso Eshkeri, per poi rientrare e produrre l’attuale partitura che si dice essere sensibilmente differente da quella inizialmente proposta, si delineerebbero prospettive sconsolanti in cui un commento solo ufficialmente originale sarebbe l’escamotage per ovviare all’assolvimento dei diritti d’autore del materiale d’appoggio. E il compositore semplice salvacondotto di questa strategia.
Preferibile dunque constatare quanto le molteplici ispirazioni – e adesioni stilistiche – di questo commento, pur scadendo nell’ovvio e lasciando ben poco margine ad una valutazione che riesca a trascendere da una simile impostazione, offrano il giusto servizio ad un film che è il primo ad emulare e a portare una ventata di freschezza in un contesto cinematografico che nel prendersi troppo sul serio ha già prodotto esiti anche più comici. Da Eshkeri, la cui compatibilità con il grandeur orchestrale e la solida competenza in fatto di narrativa sinfonica non si discutono (val la pena evidenziarne i passaggi particolarmente apprezzabili, come quelli in “Septimus”, “Flying Vessel” e “The Star Shines”) non resta che aspettare una prova più genuina e personale.

 


 

Stampa