Hellboy II – The Golden Army
Danny Elfman
Hellboy II – The Golden Army (Id. - 2008)
Varèse Sarabande – VSD 6910
20 brani – durata: 59’36’’
Colto nel bel mezzo di una nuova mutazione artistica, al crocevia di un iter forse in grado di riscattarlo – dopo diversi tentativi – dall’etichetta musicale affibiatagli per quasi un ventennio, Danny Elfman è apparso tutt’altro che in forma in occasione dell’ennesimo confronto con un eroe trasposto dai comics al grande schermo. Un incontro che a giudicare dall’affiliazione tardiva all’universo di Hellboy acquista tutto il senso di un occorrenza presuntivamente inesorabile, quasi come se il primo episodio cinematografico musicato più che dignitosamente da Marco Beltrami avesse rappresentato nient’altro che una procrastinazione occasionale del prevedibile incontro tra il sound inconfondibilmente fumettistico coniato dal compositore di Tim Burton e il diavolo rosso disegnato da Mike Mignola. Così come anche la collaborazione tra Guillermo Del Toro e il cantore del nuovo “teatro macabro”, artefice finora dello svezzamento musicale del gotha degli enfant terrible votati allo spettacolo fantastico contemporaneo, si prospettava quasi ineluttabile. A sostanziare l’effettiva convergenza di simili aspettative hanno provveduto le critiche mediamente felici rivolte all’esito di questo primo sodalizio. Consensi probabilmente incentivati dall’indubbia aderenza del commento al puro stile elfmaniano, recentemente trascurato a favore di un’immersione del musicista nelle forme dello scoring postmoderno, ben distanti dalle direttive gotico-sinfoniche tipiche dei suoi topoi orchestrali. Soprattutto agli inossidabili dell’Elfman teatrale e industriosamente colorato, lo score licenziato per Hellboy II: The Golden Army è apparso come una gemma ritrovata dopo le incursioni nella secchezza elettroacustica di Wanted e The Kingdom.
Appurata l’endemica predisposizione del film ad un tratto musicale carnevalesco, operistico-espressionista nonché bizzarramente sopra le righe – in fondo già assecondata del precedente lavoro di Beltrami – il debito apporto di Elfman non basta a conferire un’anima sufficientemente vitale allo sgargiante sequel imbastito dal regista messicano, quando sottoposto ad una valutazione che superi le verifiche della pura funzionalità. Ed è in primo luogo l’atteggiamento espressivo del compositore a richiamare attenzione, stanco e sterile sin dalle prime battute, intenzionato a demandare la tessitura barocca del suo score ad un’autoreferenzialità mai prima d’ora così vuotamente citazionista e servizievole. Se le trame armoniche dell’operosa fabbrica sonora del compositore altrove ricche di arabesque imprevisti, ornamenti meticolosi e scenari non convenzionali qui lavora di rendita, ancor meno reattivo si dimostra il cimento melodico, ad iniziare da una sequenza titoli (“Hellboy II Titles”) che ricicla circolarità cadenzate da crescendo dinamici e strumentali tanto abusate da suonare al limite dell’anonimato. Elfman apre poi ad una passerella di personali isotopie stilistiche che fanno l’appello dei traguardi identitari di una carriera: i fiabeschi movimenti per celesta e coro inaugurati da Edward mani di forbice (“Where Fairies Dwell”, “Finale”), i metallici slide de Il pianeta delle scimmie (“Training”) e le volatine ornamentali di Batman (“Father and Son”), prevedibilmente rapprese in impianti sinfonici echeggianti lavori della caratura lugubre di Cabal e Darkman. I pochi elementi di originalità e consistenza con il testo, come il teutonico coro maschile in “Mein Herring” e l’abbozzo blues con theremin annesso ereditato da Beltrami – assai adatto allo spirito del protagonista, anche se assegnatogli sporadicamente e sfavorito dalla preferenza tematica per un passaggio accordale ascendente – vengono svalutati dalla poca ricorrenza nell’economia di un impianto motivico particolarmente blando. Ma al netto dell’inventiva musicale, il difetto di questa prova risiede anche nel più generale approccio alle immagini. Del Toro, attenendosi al vademecum del franchise, confeziona un seguito determinato all’accrescimento su tutti i livelli: personaggi, linee narrative, messa in scena, ritmo di montaggio. Finanche arrivando a punte parossistiche abilmente rinforzate da un’inedita attenzione al materiale di repertorio che la spunta decisamente sullo score (eccezion fatta per la caduta di tono a metà del plot, con una concessione impropria alla musicazione da serial televisivo). Il procedimento valzeristico, marziale, sognante, evocativo o ritualistico di memoria burtoniana, necessita invece - anche nei suoi episodi più vertiginosi – di una dimensione temporale ampia per crescere e toccare i regimi di senso e poetica, che venendo a mancare in una scansione di racconto così frenetica facilita persino lo svilimento delle intuizioni di commento meno abitudinarie. Ecco infatti che le pagine dell’ultimo blocco, votate all’action più agguerrito (e di buona fattura, considerate le fragorose scritture per ottoni e in particolare l’articolazione descrittiva di “In The Army Chamber”), trovano la resa migliore. Senz’altro una frequentazione del fotografico liquida e disinvolta, non dimentica delle infiltrazioni modernistiche e di un’ulteriore cura nelle orchestrazioni come quella sbrigliata per Men in Black, avrebbe probabilmente giovato alla pellicola - peraltro ben più affine al dittico di Barry Sonnenfeld che a qualsiasi altro progetto finora firmato da Elfman.
In ultima analisi, di fronte ad uno spartito così sterile e prevalentemente abbandonato al citarsi addosso del compositore, in cui i topoi elfmaniani sembrano navigare a vista solo esternamente regolati dal puntuale cambio di registro in corrispondenza delle esigenze filmiche, sorge il dubbio di un nuovo Dick Tracy, altro commento indicativo di un Elfman ripetitivo e manierato. L’alibi del difficile rapporto con il regista – acclarato nel caso di Warren Beatty – sembrerebbe però stavolta da escludere, alla luce delle estatiche dichiarazioni rilasciate da Del Toro a proposito del concorso creativo. Nel pieno del suo impeto autoriale, il musicista non privò comunque di sforzi l’esperienza del 1990, meritandosi l’onore delle armi e consegnando agli schermi un lavoro destinato a restare una mosca bianca negli anni a venire, con poche ripercussioni sull’ispirazione della successiva filmografia. Hellboy II arriva invece a ridosso di anni artisticamente turbolenti per il compositore, mai così aperto a nuove sonorità (e non limitatamente al contesto moderno, come ha accertato l’exploit concertistico di Serenada Schizophrana) e sempre meno incline a standardizzazioni estetiche. Inoltre la colonna musicale sembra passivamente congelata ad un’epoca professionale forse non più in grado di generare stimoli e accogliere sviluppi. Tanto da mostrarsi prevalentemente digiuna delle caratteristiche di svolta sdoganate in occasione de L’ultima eclissi e Mission: Impossible, importanti traguardi di maturazione per l’artista, a riprova di un progetto fine a se stesso e, per la prima volta, davvero esemplificativo di come un certo linguaggio elfmaniano abbia smesso di funzionare semanticamente e si sia fatto puramente pragmatico per l’establishment hollywoodiano: il pubblico è acclimatato dalla denotazione di genere del soundtrack – le cui fattezze ne sono orami archetipiche - che soltanto a questo pare essere richiamato perdendo quella sostanziale capacità di spiazzare e allettare attivamente la fruizione attraverso una significazione connotativa.
Dunque, comunque la si giudichi sul piano qualitativo, la prima collaborazione tra Danny Elfman e Guillermo del Toro appare certo estranea al percorso di ricerca attualmente battuto dal compositore. Tortuoso, idiosincratico, sconveniente e magari anche incoerente. Ma, come si evince dalla freschezza che certune pagine estratte dai meno affabili commenti per Wanted e The Kingdom rivendicano sulla totalità di Hellboy II, sicuramente sentito. E nonostante tutto sintomatico di un compositore per il cinema che proprio per questo, nel bene o nel male, merita ancora il diritto di essere considerato un vero autore.