The Mummy - Tomb of the Dragon Emperor
Randy Edelman
La mummia: la tomba dell’imperatore dragone (The Mummy - Tomb of the Dragon Emperor, 2008)
Varèse Sarabande – VSD 6916
30 brani (29 di commento + 1 canzone) – durata: 77’46”
Pesante il fardello di responsabilità gravante sul ritrovato Randy Edelman. Il suo score per il terzo capitolo della fracassona saga dedicata a La Mummia e alle avventure della famiglia di archeologi O’Connells non solo arriva nel bel mezzo di un franchise carico di aspettative musicali – quelle profondamente impostate nei precedenti episodi, con gli acclamati commenti ai vertici del respiro epico-avventuroso profusi da Jerry Goldsmith e Alan Silvestri per i primi capitoli e da un altrettanto ispirato John Debeny per lo spin-off Il re scorpione – ma anche all’indomani di un inizio di millennio che professionalmente ha visto il dotato compositore di Dragonheart e Benvenuti in Paradiso defilato nelle retrovie hollywoodiane, tra commedie sentimentali (27 volte in bianco) e déjà vu demenziali (The Mask 2). L’occasione giusta, insomma, per rimettersi in luce grazie all'encomiabile attestazione di stima e fiducia di Rob Cohen, che sostituisce alla regia il creatore della serie Stephen Sommers (stabilizzatosi però alla produzione) e con cui il musicista ha forgiato negli anni una solida collaborazione. La leggenda della Mummia pare insomma continuare ad essere da stimolo per musicazioni propizie e non comuni, collimanti con snodi carrieristici importanti o dimostrazioni stilistiche lungamente attese: come nel caso di Silvestri – che con il secondo film, nonostante una luminosa carriera già ventennale, ha potuto confrontarsi adeguatamente con l’epica di larga scala sinfonica – o di Debney – che grazie allo Scorpione ha salito un gradino in più verso il mainstream – entrambi chiamati ad un referente musicalmente impegnativo corrisposto da una scrittura generosissima (diverso il caso dell’apripista Goldsmith, che pur consegnando una partitura di grande dignità e prodiga di episodi memorabili, complice lo scarto generazionale con gli altri due colleghi e i traguardi storici già raggiunti in simili ambiti di genere, si dedicò al primo lungometraggio senza lo sprono ad un cimento in grado di oltrepassare il mestiere di altissimo pregio).
Con le medesime premesse e qualche eredità da assecondare in più, Edelman riprende dunque il suo posto nel filone d’alto impatto e si confronta con una pellicola non sempre all’altezza della spettacolarità precedente, ma comunque capace di medio intrattenimento e con una regia forse anche maggiormente equilibrata. Il suo esito però stenta a conciliare le aspettative alimentate dalle premesse contestuali, in misura spesso così marcata che ad orecchie assuefatte al sound magniloquente della saga lo spartito prodotto potrebbe causare serie delusioni. Il distacco maggiore dai suoi predecessori è rappresentato da un’asciuttezza armonica e un sgonfiamento della portata orchestrale subito sanzionata nell’iniziale “A Call To Adventure (Theme From Mummy 3)”, dove Edelman presenta il tema cardine della colonna musicale, un inno eroico calibrato ai tipici standard melodici dell’autore: essenziale, di spirito celebrativo-agonistico, orecchiabile e facilmente riconoscibile (anche se meno efficace, in termini mnemonici, rispetto alle composizioni di Dragon: la storia di Bruce Lee, Dragonheart ed Angels). L’indubbia facilità melodica del compositore è tra l’altro stata da sempre motivo di gioie e dolori per molti dei suoi lavori, spesso completamente ancorati ad un motivo accattivante e memorabile ma claudicanti in quanto a sviluppi, dettaglio descrittivo e tenuta generale. Problema che a dire il vero non appartiene completamente a La tomba dell’imperatore dragone, dove Edelman redige anzi un ventaglio di temi tutti assolutamente pertinenti, con punte di ispirazione nell’alveo delle scale orientali. Ma la mancanza di grandeur sinfonico non è l’unico deficit rispetto alle direttive cinemusicali del franchise. In occasione della prima, concitata sequenza d’azione lo score tradisce anche una determinante mancanza di fluidità compositiva. L’inseguimento in macchina per le strade di Shanghai (“Shanghai Chase”) non ottiene le specificità di movimentazione iperbolica, aderenza sincronica e plasticità narrativa degli omologhi pregressi “Camel Race” e “My First Bus Ride”. L’articolazione del brano (aperto da uno dei rari agganci alle partiture antecedenti, quattro note imperative proclamate dagli ottoni), che da la misura di tutti gli interventi action dello score - con poche eccezioni, tra cui i cues aggiunti da Debney, non presenti su disco - piuttosto che aderire al necessario, quasi categorico procedimento di mickey-mousing stretto rinforzato da un impianto di urgenza adrenalinica e impetuosa, ripiega su figurazioni statiche, ostinato imperituri, pedali e continue riletture del tema portante, perlopiù invariato. Si procede per blocchi, con ritmiche e misure a compartimenti stagni verso una legnosità che non giova all’agitazione della sequenza, se non in termini di elementare accompagnamento da perimetratura. E stupisce che un simile trattamento sia offerto da un professionista di lungo corso cui sembrerebbero mancare gli strumenti del lavoro.
D’altro canto, e qui si propone l’ambivalenza effettiva della prova così come s’impone una scissione di valutazione, le distopie dello score rispetto ai suoi famosi predecessori non ne intaccano l’efficienza minima. Tanto quanto i difetti strutturali riconducono a stilemi congeniti del tratto edelmaniano in una considerazione autonoma del soundtrack, riconoscendo dopo tutto al musicista una coerenza personale e l’ambizione di non contraddirsi in una situazione che, con buone probabilità, avrebbe portato colleghi molto più blasonati ad una mimesi arrendevole. Sbagliato sarebbe inoltre dimenticare che, al di fuori del progetto sommersiano, la pellicola è soprattutto un nuovo traguardo del connubio con Cohen, a sua volta ottemperante ad una rete di corrispondenze linguistiche che la coppia ha maturato negli anni. Ci sono poi le pagine che si staccano dalla media, con particolare menzione per le molte, citate digressioni nel lessico esotico – con cui Edelman ha notoriamente stabilito un feeling particolare - e che accordano agli spartiti del prologo cinese un maggior livello qualitativo.
Alla resa dei conti, accettata con difficoltà l’esigenza di un nuovo prolungamento de La mummia, la partitura dell’Imperatore vive insomma di due vite a seconda di quale prospettiva si adotti nell’affrontarla. Ad una disamina neutrale, appurate le mancanze fisiologiche ai fini della continuazione con i suoi grandi referenti musicali e le apprezzabili affermazioni identitarie di un compositore specializzato mai del tutto deludente, Edelman alterna funzionalità e momenti di rilievo a cadute impreviste e insufficienze di trattamento. Resta indubbio, invece, l’affiatamento artistico con Rob Coehn. Magari una magra consolazione ma pur sempre un motivo di soddisfazione in un ambiente quantomai proteso alla standardizzazione estetica a scapito della personalità conquistata.
Varèse propone 29 estratti dello score, organizzati in ordine cronologico, e in chiusura “My Sweet Eternal Love” con la performance di Helen Feng, canzone dei titoli di coda.