Casino Royale

cover_casino_royale_007.jpgDavid Arnold
Casino Royale (Id. - 2006)
Sony Classical – 88697029112
25 Brani – Durata: 74’22”

 

Dieci anni di devota e motivata fedeltà all’agente di Sua Maestà britannica hanno fatto di David Arnold il secondo compositore storico del franchise più longevo e famoso della MGM (e del Cinema). Proprio John Barry – padre putativo del leggendario tema per chitarra elettrica e orchestra originariamente dato alla luce da Monty Norman tanto quanto iniziatore e ispiratore del sound bondiano d’eccellenza – si paventò di raccomandarlo alla produzione nel 1997 (già diversi anni dopo le sue dimissioni dalla saga, destinataria anche delle cure musicali di Michel Legrand, il beatlesiano George Martin, Marvin Hamlisch, Bill Conti, Michael Kamen ed Eric Serra). Una fiducia accordata al giovane compositore anche in virtù della sua riverenza per 007, coincidentalmente sanzionata dall’uscita del suo lavoro di rivisitazione antologica Shaken and Stirred. A distanza di quattro film da quel primo incarico per Il domani non muore mai, la vena spionistica di Arnold denuncia un evidente calo di forma e lo score per il revisionista prequel Casino Royale segna il minimo storico della sua filiazione bondiana. Che lo scarto formale con le passate prove (ridotti il tocco glamour e una certa inventiva ritmica) sconti la necessità di conformarsi alla nuova impostazione narrativa proposta per il “doppio zero” rude e scravattato interpretato da Daniel Craig è più che accettabile. Tanto giustificherebbe l’essenzialità orchestrale della scrittura, perlopiù orfana dei condimenti elettronici sospesi tra il vintage e il contemporaneo – qui chiamati in causa soprattutto ai fini di un’intelaiatura hi-tec e per esigenze ambient – o la latitanza delle tipiche ruffianerie strumentali precedentemente conformate all’aplomb della spia globe-trotter. Pur concesso, questo possibile adattamento ai rinnovati bisogni di sceneggiatura non basta a giustificare uno score insoddisfacente, ben al di sotto non solo della media compositiva del brillante artista inglese ma anche degli standard della serie e del film in questione (al quale, complessivamente assai riuscito, non riesce a tener testa). Una partitura tecnica e routinaria, incline alla stretta funzionalità di un action scoring d’ufficio che arrischia anche la poca inventiva sfoderata nei segmenti di miglior costruzione (“African Rundown”, “Miami International”, “Fall Of A House In Venice”) e non stenta ad inserire il pilota automatico girando sovente a folle. Non bastano la bellezza noir del motivo di Solange (“Solange”, “Trip Aces”) e l’ennesimo, marcato richiamo alla liricità barryana nel tema d’amore (“City Of Lovers”) a risollevare le sorti di un commento costretto a fare i conti anche con la defilata presenza del tema principale (lo si ascolta per intero nel finale di “The Name’s Bond…James Bond”). La riduzione arnoldiana che ne prende il posto (“Blunt Instrument”), spigliata e sicuramente congenita tanto alla caratterizzazione del nuovo interprete quanto alla sua collocazione ex-novo nel percorso cronologico, fallisce nell’integrazione strutturale con il resto del materiale, mancando oltretutto del vitale pungolo empatico.
Punto a favore è la ritrovata collaborazione di Arnold alla title-track: dopo un passato complicato nell’ambito canzonistico della serie (ultime le polemiche intorno alla prestazione di Madonna per La morte può attendere) il musicista confeziona per i titoli di testa un bel rock, a quattro mani con l’interprete Chris Cornell (brano che per problemi di diritti non trova posto nell’album Sony).
Le circostanze obbligherebbero a pensare alla possibile sostituzione di Arnold per un futuro episodio (e di nomi papabili, tra le fila delle nuove generazioni, ce ne sarebbero) ma di fronte alla verificata insofferenza delle major verso la manomissione di un’equazione vincente e considerato quanto questo scarso risultato non cancelli comunque l’insindacabile apporto del compositore di Stargate al moderno immaginario bondiano, converrebbe considerare l’ultimo esito un incerto primo giro di rodaggio in una formula non più modelizzante, collaudata e rassicurante anziché il definitivo impallidire di un entusiastico approccio fattosi stantio da almeno un paio di pellicole.  

 

 

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