Reportage dal Festival di Cannes 2016

Reportage dal Festival di Cannes 2016

Ed eccoci giunti, come ogni anno, al consueto report dal Festival Internazionale del film di Cannes, la manifestazione più importante del settore a livello mondiale. Ecco il programma comprensivo di tutti i film presenti alla 69esima edizione del Festival.

Film d’apertura fuori concorso  
Woody ALLEN (Usa) CAFÉ SOCIETY 

Concorso           
Maren ADE (Germania) TONI ERDMANN     
Pedro ALMODÓVAR (Spagna) JULIETA     
Andrea ARNOLD (Gran Bretagna) AMERICAN HONEY (Miele americano)    
Olivier ASSAYAS (Francia) PERSONAL SHOPPER (Compratore personale)     
Jean-Pierre DARDENNE, Luc DARDENNE (Belgio) LA FILLE INCONNUE  (La sconosciuta)    
Xavier DOLAN (Canada) JUSTE LA FIN DU MONDE (Giusto la fine del mondo)     
Bruno DUMONT (Francia) MA LOUTE (La mia lotta)     
Nicole GARCIA (Francia) MAL DE PIERRES (Mal di pietra)      
Alain GUIRAUDIE (Francia) RESTER VERTICAL (Restare verticali)     
Jim JARMUSCH (Usa) PATERSON     
Kleber MENDONÇA FILHO (Brasile) AQUARIUS     
Ken LOACH (Gran Bretagna) I, DANIEL BLAKE (Io, Daniel Blake)     
Brillante MENDOZA (Filippine) MA' ROSA     
Cristian MUNGIU (Romania) BACALAUREAT  (Diploma)     
Jeff NICHOLS (Usa) LOVING     
PARK Chan-Wook (Corea del Sud) AGASSI  (Fatto a mano)     
Sean PENN (Usa) THE LAST FACE (L’ultima faccia)     
Cristi PUIU (Romania) SIERANEVADA     
Paul VERHOEVEN (Olanda) ELLE  (Lei)     
Nicolas WINDING REFN (Danimarca) THE NEON DEMON (Il demonio al neon)
Asghar Farhadi (Iran) THE SALESMAN (Il commesso viaggiatore)Sezione Un Certain Regard
Mohamed DIAB (Egitto) ESHTEBAK (Scontro) Film d'apertura
David Mackenzie (Grande-Bretagna) HELL OR HIGH WATER (Inferno o acqua alta)
Behnam BEHZADI (Iran) VAROONEGI (Inversione)     
BOO Junfeng (Singapore) APPRENTICE (L’apprendista)     
Delphine COULIN, Muriel COULIN (Francia) VOIR DU PAYS (Vedere il paese)     
Stéphanie DI GIUSTO (Francia) LA DANSEUSE (La ballerina) Primo film
Michael DUDOK DE WIT (Olanda) LA TORTUE ROUGE (La tartaruga rossa) Primo film
FUKADA Kôji (Giappone) FUCHI NI TATSU (Harmonium)     
Maha HAJ (Israele) OMOR SHAKHSIYA (Affari personali) Primo film
Eran KOLIRIN (Israele) ME’EVER LAHARIM VEHAGVAOT (Attraverso le montagne e le colline)    
KORE-EDA Hirokazu (Giappone) AFTER THE STORM (Dopo la tempesta)     
Juho KUOSMANEN (Finlandia) HYMYILEVÄ MIES (Il giorno più felice nella vita di Olli Mäki)  Primo film
Francisco MÁRQUEZ, Andrea TESTA (Argentina) LA LARGA NOCHE DE FRANCISCO SANCTIS (La lunga notte di Francisco Sanctis) Primo film
Bogdan MIRICA (Romania) CAINI (Cani) Primo film
Stefano MORDINI (Italia) PERICLE IL NERO     
Michael O’SHEA (Usa) THE TRANSFIGURATION (La trasfigurazione) Primo film
Matt ROSS (Usa) CAPTAIN FANTASTIC     
Kirill SEREBRENNIKOV (Russia) UCHENIK (Il discepolo)     
           
Fuori Concorso
Shane BLACK (Usa) THE NICE GUYS (Un tipo simpatico)     
Jodie FOSTER (Usa) MONEY MONSTER     
NA Hong-Jin (Corea del Sud) GOKSUNG     
Steven SPIELBERG (Usa) DISNEY’S THE BFG (Il gigante gentile)     
           
Proiezioni di mezzanotte
Jim JARMUSCH (Usa) GIMME DANGER     
YEON Sang-Ho (Corea del Sud) BU-SAN-HAENG (Il treno per Busan)
Jean-François Richet (Francia) BLOOD FATHER (Padre di sangue)
           
Proiezioni speciali           
Thanos ANASTOPOULOS (Grecia) - Davide DEL DEGAN (Italia) L'ULTIMA SPIAGGIA
Mahamat-Saleh HAROUN (Ciad) HISSEIN HABRÉ, UNE TRAGÉDIE TCHADIENNE (Hussein Habrè, una tragedia ciadiana)    
Rithy PANH (Cambogia) EXIL (Esilio)     
Albert SERRA (Spagna) LA MORT DE LOUIS XIV (La morte di Luigi XIV)     
Paul VECCHIALI (Francia) LE CANCRE (Il cancro)
Jonathan Littell (Stati Uniti) WRONG ELEMENTS (Elementi sbagliati)
Grégoire Leprince-Ringuet (Francia) LA FORÊT DE QUINCONCES (La foresta di Quinconces)
Karim Dridi (Francia/Tunisia) CHOUF

Ancora una volta il festival di Cannes - quest’anno è la sessantanovesima edizione - si è aperto con un film, fuori concorso, firmato da Woody Allen, il regista americano più amato dagli europei (pubblico e critici) che non dai suoi compatrioti. Cafe Society racconta due storie d’amore. La prima ha al centro Bobby Dorfman, ebreo newyorchese arrivato a Hollywood con la speranza di tentare la fortuna con l’aiuto dello zio Phil, potente agente di dive e divi. La seconda riguarda lo stesso magnate del cinema che si innamora di una segretaria e abbandona la moglie. Il giovane ha messo gli occhi sulla stessa donna e vorrebbe mettere su famiglia con lei. La fanciulla gli preferisce l’uomo più anziano e ricco. Passa il tempo e i due si rincontrano nella Grande Mela ove il ragazzo ha sposato una divorziata e si è fatto una posizione dirigendo un night club di successo, proprietà di un suo parente attivo nel mondo della malavita. L’incontro è breve, ma basterà a resuscitare in entrambi la passione di un tempo. Ritorno di fiamma del tutto inutile, in quanto le rispettive esigenze sono ormai segnate da una normalità lontana da quell’unico momento d’ardore. E’ una storia decisamente normale, anche se l’ambientazione negli anni trenta consente a regista, fotografo (Vittorio Storaro) e costumista (Santo Loquasto) di confezionare un film professionalmente accattivante, imbastito con perizia e abilità anche se privo di vero ingegno sia sul piano narrativo sia su quello stilistico. In poche parole un film perfetto dal punto di vista dell’abilità di coloro che vi hanno preso parte, ma quasi amorfo sul piano dell’originalità.

Cristi Puiu è uno dei registi più interessanti del cinema rumeno. Il suo primo film, La morte del signor Lazarescu (Moartea domnului Lazarescu, 2005) ha ricevuto uno dei maggiori riconoscimenti di Un Certain Regard oltre a numerosi premi da parte di altri festival. Quest’anno è presente in concorso, sempre qui a Cannes, ma nella sezione competitiva, con Sierranevada. Il film non ha nulla a che vedere con la famosa catena montuosa iberica e si svolge quasi per intero all’interno di un modesto appartamento di Bucarest in cui si riuniscono, per una cerimonia funebre in ricordo del capofamiglia deceduto da poco, alcuni parenti del defunto o persone che l’hanno conosciuto. La riunione degenera presto in una sorta di scontro di tutti contro tutti da cui emergono vecchi rancori, asti a lungo sopiti, rabbie represse. Il film ha una durata ampia, poco meno di tre ore di proiezione, che indica una sorta di identità fra rappresentazione e realtà, cronaca e fotografia dell’esistente. Intendiamoci, nulla di trascendentale o particolarmente originale visto che il cinema, soprattutto quello nordico, ha utilizzato più volte scenari di feste, ricorrenze o eventi vari per mettere in scena l’esplodere di tensioni a lungo represse all’interno di un nucleo familiare o di una ristretta cerchia di conoscenti. E’ quanto capita anche in questo caso, ad esempio nella diatriba con l’anziana sostenitrice del passato regime. Nella sostanza un film in cui rifulge l’abilità del regista – non è facile manovrare così a lungo la macchina da presa in spazi tanto angusti -  ma in cui latita originalità e invenzione.

L’inglese Ken Loach è un altro dei grandi vecchi che sono entrati con vigore nel cartellone di quest’anno del Festival. La sua ultima fatica I, Daniel Blake (Io, Daniel Blake), è se non la migliore, una delle sue opere più riuscite. Come di consueto il cineasta parte dalla realtà, quella di un falegname che ha subito un serio attacco di cuore e vorrebbe che gli fosse riconosciuta l’invalidità e la pensione a cui ha diritto. Il panorama in cui s’inscrive questo piccolo, grande dramma è quello di Newcastle, una città del nord dell’Inghilterra in cui la crisi economica ha colpito duramente. Il confronto fra il cinquantanovenne ex–operaio e la burocrazia britannica ha del surreale, ma ricorda non poche situazioni italiane. L’incontro con una ragazza, madre nubile di due bimbi, disoccupata e al limite dell’indigenza, fa sì che queste due vite, travolte dalla crisi e da un erronea idea della povertà, si riflettano su una concezione del mondo che disprezza ogni solidarietà umana. Il protagonista esalerà l’ultimo respiro nel bagno di un ente statale poco prima che una commissione, burocratica e assurda, si pronunci definitivamente sul suo caso. E’ un film molto bello, privo di qualsiasi sfruttamento dell’eccezionalità. Un’immersione lucida e dolorosa nel reale, quello che sta dietro gli orpelli e le bugie della pubblicità. In un momento in cui il vero fatica oltre ogni modo a farsi riconoscere, il realismo lineare e quasi sussurrato di questo cineasta ci riporta con i piedi per terra e ricorda come il capitalismo, nelle sue varie forme, grondi di non poco sangue. Veramente un bagno di verità in un’epoca in cui sembra abbiano cittadinanza solo i lustrini e le fumisterie legate all’accumulo continuo della ricchezza.

Bruno Dumont è uno dei registi più interessanti del cinema francese, i suoi film mescolano realtà e situazioni surreali, riferimenti mistici e ironia. E’ quest’ultima a dominare in Ma Lutte in cui il paesaggio naturale, magnificamente riproposto, e i riferimenti agli anni dieci del secolo scorso convergono in una storia a mezza strada fra la metafora e il racconto morale. 1910, la baia di Slack, nel nord della Francia, è percorsa da una ventata di terrore legata alla scomparsa misteriosa di alcune persone. Qui soggiorna una famiglia altoborghese venuta a passare le vacanze e vi circola anche un improbabile commissario di polizia, grassissimo e super imbranato, che si porta dietro un aiutante smilzo e non troppo intelligente. Ben presto scopriamo che le sparizioni sono dovute a una famiglia di pescatori locali che ne usa le salme come cibo. Un caso di cannibalismo che diventa, altrettanto rapidamente, una metafora della lotta di classe - il figlio del capofamiglia pescatore si chiama, non a caso, Ma Lutte (La mia lotta) - che sta contrapponendo proletariato miserabile e alta borghesia. Fra scene da comica finale e pasti sanguinolenti il film sfocerà in una sorta di sconfitta per i poveri e trionfo dei possidenti, una vittoria che contiene i germi di una futura decadenza. Il film è godibile dalla prima all’ultima sequenza e allinea personaggi che richiamano il cinema classico, soprattutto muto, e mostra una maestria di direzione già emersa dalla opere precedenti di questo autore, ad iniziare da La vie de Jésus (1997) sino a P’tit Quinqui (2014) passando per L’Humanité che ottenne, fra grandi polemiche, entrambi i premi per l’interpretazione andati a due attori presi dalla strada (Emmanuel Schotté e Séverine Caneele) poi praticamente scomparsi dalla professione.

Ha aperto anche le porte la sezione Un Certain Regard. Qui si è visto il film russo Uchenik (Il discepolo) che il regista Kiril Serebrennikov ha tratto dal testo teatrale Martire, del drammaturgo tedesco Marius von Mayenburg. Al centro della storia c’è un liceale attratto dagli scritti biblici sino al punto di pretendere che la realtà in cui vive si adatti ad essi. Aggredisce la madre, accusandola di essere una peccatrice per aver divorziato, contesta l’insegnate di scienze che tenta di spiegare la teoria di Darwin, insulta le colleghe perché vanno in piscina in bikini, illude un amico minorato che, attraverso la fede, può guarirlo. Tutto questo sfocia in un omicidio, nel licenziamento della professoressa progressista e nel quasi trionfo della parte più retriva del mondo scolastico, anche se l’ultima immagine ci mostra l’insegnante che s’inchioda al pavimento della palestra come una nuova Messia. E’ un film a tesi, più interessante per gli argomenti che agita che non per il modo come li esprime. Si sente abbastanza pesantemente la matrice teatrale e la quasi fissità della macchina da presa non aggiunge motivi d’interesse.

Agassi (letteralmente Fatto a mano, ma il titolo internazionale è Mademoiselle - Signorina) del sudcoreano Park Chan-Wook mescola thriller e perorazioni omosessuali femminili, il tutto inserito in una confezione raffinatissima che ricostruisce l’atmosfera della Corea negli anni trenta, durante la colonizzazione giapponese della penisola. Una giovane, che fa parte di una banda d’imbroglioni, si fa assumere come serva di una signorina al servizio di un ricco casato giapponese. Il suo compito è quello di facilitare l’opera di seduzione di un complice che, fingendosi un nobile nipponico, dovrà irretire la fanciulla che le è affidata, indurla a una fuga d’amore e così sottrarre la ragazza e il ricco patrimonio di cui è titolare, alle grinfie di uno zio tirannico che agisce come tutore dell’ereditiera e che, anche lui, vuole sposarla per depredarla. Il patrimonio attorno a cui ruota la vicenda è costituito da un’immensa biblioteca di libri e illustrazioni erotiche utilizzati sia per aste milionarie, a cui partecipano anziani debosciati, sia per tenere legata la giovine. Tutto va a rotoli quando lei s’innamora, corrisposta, della domestica e scopre con lei i piaceri saffici. La prima parte del film racconta questa storia, mentre la seconda muta punto di vista, svelandoci sia la complicità fra l’ereditiera e il pseudo seduttore, sia l’accordo fra le due donne per gabbare sia il vecchio bibliofilo, sia il giovane imbroglione. Finale all’insegna del trionfo dell’amore, con le due donne che si concedono piaceri bollenti nella lussuosa cabina di una nave in rotta per Shanghai. E’ un film che alterna immagini raffinate a sequenze granguignolesche, precise ricostruzioni storiche a momenti erotico-lesbici. In definitiva un preciso e perfetto prodotto commerciale costruito più per attrarre il pubblico che non per raccontare una vicenda ad alto valore simbolico.

Più significativo, da un punto di vista sociale, Toni Erdmann, opera terza della tedesca Maren Ade. Inès lavora come consulente per una grande società di Berlino che fa affari in Romania. Negli ultimi mesi è di base a Bucarest e qui conduce una vita regolata da ritmi precisi, compresi quelli che sovraintendono ai momenti di sesso. La sua routine è spezzata dall’arrivo del padre gaudente che, anche senza averne l’aria, mette in forse le sue sicurezze professionali e umane. Lo fa semplicemente chiedendole: ma tu sei felice? Parte da questa semplice domanda un processo di autoanalisi che porta la donna a mettere in discussione l’intero mondo che la circonda, comprese corsa al successo, invidie, frustrazioni personali. E’ un film lineare che parte come una commedia e, senza abbandonare i toni lievi (è da manuale l’intera sequenza in cui lei s’inventa una festa al nudo non essendo riuscita a rinfilarsi il costoso abito di sartoria che ha appena comperato), mette a fuoco alcuni temi che segnano negativamente il vivere moderno. In questo è un’opera che dimostra un saper essere politica pur senza ricorrere a invettive o pistolotti.

Nella sezione Un Certain Regard è passata l’opera prima dell’americano Michael O’Shea. S’intitola The Transfiguration (La trasfigurazione) e racconta vita e morte di un adolescente nero che, spinto dal mito del vampirismo, a cui lui crede senza dubbi, uccide varie persone e ne beve il sangue. Forse era intenzione del regista sviluppare un discorso sulla ferocia che segna la nostra società, ma il risultato è tutt’altro che positivo e ciò che resta è una lunga serie di scene dominate da schizzi di sangue e morsi sul collo. Il tutto ben lontano da una qualsiasi significano metaforico o narrativo.

Andrea Arnold è una sceneggiatrice e regista assurta alla fama, dopo una non breve carriere di attrice in programmi per bambini della televisione britannica, per aver diretto alcuni film accolti e premiati da importanti rassegne cinematografiche, come quelle di Cannes e Venezia. Prima di American Honey (Miele americano) ha firmato altri tre lungometraggi: Red Road (2006), Fish Tank (2009) e Cime tempestose (Wuthering Heights, 2011). Questo quarto titolo è nato da un articolo pubblicato nel 2007 sul The New York Times e conferma l’interesse della regista per l’analisi delle psicologie dei personaggi che affronta. Qui è di scena un gruppo di giovani d’ambo i sessi ingaggiati da una manager rapace per vendere abbonamenti di settimanali (forse inesistenti) a ricchi o a persone poverissime. La capacità di reddito e le condizioni economiche non contano a patto che i sottoscrittori siano disposti a pagare, meglio se in contanti, i dollari richiesti. Per raggiungere l’obiettivo ed evitare di vedersela con un altro venditore in una terribile notte del fallito, ragazzi e ragazze sono disposti a mentire, inventarsi malanni e condizioni tragiche di parenti o, è il caso delle fanciulle, a prestarsi ad approcci sessuali che, qualche volta, sfociano in vere e proprie rapine a mano armata. E’ un ritratto dell’America profonda dei suoi paesaggi desolati e della freddezza dei quartieri ricchi. Un panorama in cui si agitano piccole e grandi miserie, follie religiose e pratiche truffaldine. E’ protagonista del film un gruppo di ragazzi e ragazze che sperano, senza neppure troppo entusiasmo, nella ricchezza a portata di mano, ma che finiranno per fornire materia di sfruttamento a una donna feroce, crudele, amorale. Il film è molto lungo, quasi tre ore di proiezione, con parti fastidiosamente ripetitive e offre come solo motivo d’interesse l’immagine crudele di un’America lontana dai riflettori del cinema o delle luci della televisione.

Un’altra attrice passata alla regia, la francese Nicole Garcia, ha portato sullo schermo il romanzo Mal di pietre (2006) della scrittrice sarda Milena Agus (1955) traendone una lettura più melodrammatica che femminista. Lo scenario è spostato da Cagliari alla Provenza francese e a una grande clinica svizzera, il tutto a cavallo fra la metà del secolo scorso e la fine dello stesso. In questo lasso di tempo seguiamo Gabrielle, irrequieta e sensuale, il cui comportamento desta scandalo quando dichiara d’amare, non corrisposta, l’insegnante di lettere del villaggio. I genitori, per porre fine alle chiacchiere, la sposano con un bracciante spagnolo, fuggito da poco dalle persecuzioni franchiste, che accetta di prenderla in moglie senza amarla o pretendere di essere amato. I rapporti fra i due coniugi mimano una sorta d’amore mercenario, con tanto di passaggio di denaro, sino al momento in cui la donna perde il figlio che porta in grembo a causa dei calcoli di cui è afflitta (il cosiddetto mal delle pietre). Spedita in un sanatorio svizzero vi conosce un ufficiale dell’armata impegnata nella guerra d’Indocina, qui in cura per una grave ferita a una gamba. Altro grande amore e nuova gravidanza. Solo anni dopo, quando ha già dato alla luce un figlio ora adolescente e particolarmente dotato nel suonare il pianoforte, scopre che si è trattato di un sogno e che a mettertela incinta è stato il marito mentre lei dormiva. La storia gronda melodramma da ogni inquadratura e la regista non fa nulla per arginarne gli effetti più viscerali, limitandosi a citare – nelle note distribuite alla stampa – il ruolo di questa donna quale persona che si trova all’incrocio fra un’epoca arcaica e una in cui urgono maggiori libertà. Peccato che di tutto questo nel film non ci sia quasi traccia.

La sezione Un Certain Regard ha presentato un bel poliziesco, opera prima del rumeno Bogdan Mirica. Câini (Cani). Il film racconta una serie di omicidi su cui fa luce e giustizia sommaria un anziano poliziotto, malato terminale di tubercolosi. In una landa di confine fra Romania e Ucraina  una banda di contrabbandieri prospera da anni trafficando merci e droga. Quando muore il vecchio padrone della terra e il giovane erede arriva con l’intenzione di venderla, i vecchi criminali decidono di darsi da fare per impedire questa possibilità. Morti a ripetizione, pestaggi, schizzi di sangue e sventramenti non fermeranno il poliziotto locale dallo scoprire la verità. Ottima la costruzione, scarse originalità e valore metaforico.

Paterson è una cittadina del New Jersey, vicina a New York e nota per aver ospitato alcuni famosi poeti americani, fra cui William Carlos Williams (1883 –1963) e Allan Ginsberg (1926 – 1997) che ne fu allievo. Jim Jarmusch dedica un film con questo titolo a un giovane autista di autobus pubblici che, nel tempo libero, scrive versi. E’ un’opera densa di lievità e poesia in cui non accade nulla di quanto sarebbe considerato rilevante in altri casi se non, alla fine di una settimana del tutto normale, la distruzione, da parte del cane di casa, brutto e invidioso, del quaderno d’appunti a cui il giovane poeta aveva affidato le sue composizioni. E’ il classico film fatto di niente, ma ricco di sentimenti in cui la contrapposizione fra la ritrosia dell’uomo e la continua esternazione artistica della compagna, vera proprietaria dell’animale, funzionano come raffronto fra l’esigenza profonda di creare e la ricerca di un riconoscimento artistico solo mondano. Sono due poli che sintetizzano opposti sensi della vita e trovano una sorta di risarcimento nell’incontro con il giapponese capitato in quella cittadina solo per rendere omaggio ai grandi poeti che vi hanno abitato. Il quadernetto intonso che regala all’autista, poeta che ha appena visto trasformati in pezzetti di carta i suoi versi, segnala il senso di un’esistenza e di un lavoro che vivono in quanto esigenza umana profonda, sganciata da qualsiasi riconoscimento esterno. E’ un film lieve e bello come una bolla di sapone che solo un poeta e cineasta poteva realizzare.

Loving dell’americano Jeff Nichols ricostruisce il calvario di Mildred e Richard Loving una coppia formata da una casalinga di colore e da un muratore bianco che ebbero a che fare con le leggi razziste americane dal 1958, quando andarono a vivere in uno stato che non ammetteva i matrimoni misti, siano alla pronuncia, nel 1967, della Corte Suprema in loro favore con la cassazione della legge vigente nello stato di Virginia. La storia è raccontata con precisione di particolari, come sa fare il cinema americano quando ricostruisce i grandi eventi sociali, e reso da attori – Ruth Negga e Joel Edgerton – bravi e misurati nel dare vita ai loro personaggi. E’ stato un caso giuridico di grande portata sulla cui scia molti stati del Sud degli USA cassarono le leggi razziste che avevano promulgato decenni prima, tanto che la dizione Loving contro Virginia è entrata nell’uso comune a significare il diritto all’amore indipendentemente dalle condizioni razziali, economiche o sessuali. Un film generoso, democratico nel senso più completo del termine che ha il solo difetto di apparire più una perorazione archeologica che non una predizione contro i diritti ancor oggi violati negli Usa e non solo in quel paese.

La sezione Un Certain Regard ha presentato Apprentice (Apprendista), firmato dal singaporiano Boo Jungfeng. E’ una storia bastata sui triboli del giovane Aiman, assegnato a una prigione di massima sicurezza in cui anni prima è stato giustiziato suo padre. Lui entra facilmente nelle grazie del boia ufficiale, lo stesso che ha messo a morte il suo genitore, e ne prende il posto quando questi è vittima di un incidente d’auto. L’ultima inquadratura si ferma prima dello scatto della leva che conclude (o dovrebbe concludere) l’esecuzione condotta dal nuovo boia. E’ un film contro la pena di morte, tanto frequentemente praticata in quella città–stato soprattutto nei casi di traffico di stupefacenti, ma che aggiunge poco o niente a quanto visto ed esposto in altre occasioni.

Confessiamolo: non siamo mai stati grandi ammiratori dell’opera del regista francese Olivier Assayas e lo siamo diventati ancor meno dopo aver visto Personal Shopper (Compratore personale). Maureen è una giovane americana che vive a Parigi e fa questo mestiere per una grande manager che deve apparire sempre al top, ma non ha tempo da perdere in sartorie e boutique. Il vero problema che travaglia questa ragazza, oltre una malcelata avversione per il lavoro che fa, è l’attesa, sinora delusa, dello spirito del fratello Lewis che, in vita, le aveva promesso di ritornate dall’aldilà per dirle come ci si sta. Un fantasma che si manifesta a corrente alterna, ora come luminescenza sui muri di una vecchia casa, ora con messaggini sul telefonino spediti da un ignoto interlocutore, ora con bicchieri che rovinano a terra senza una vera ragione. Nel frattempo il clima si tinge di giallo con l’assassinio della ricca signora. Fra schizzi di sangue, musica da incubo ed eventi inspiegabili il film arriva a una fine aperta, ambientata in un paese arabo, con lo spirito creduto superato che ritorna contro ogni previsione. Ci avete capito poco? Noi ancor meno nonostante le quasi due ore di proiezione. Possiamo solo dire che questa è l’unica opera accolta, alla proiezione stampa, da sonori fischi e timidissimi applausi di circostanza. Un pasticcio in cui s’incrociano suggestioni hitchcockiane mal digerite e ricordi pasticciati di cinema horror.

La vera attesa della giornata era per Julieta, del sempreverde regista spagnolo Pedro Almodóvar, ma anche questa aspettativa è andata parzialmente delusa. Infatti c’è ben poco d’interessante nella storia di questa vedova di mezza età che riesce casualmente a scoprire dove vive la figlia, ormai madre di tre figli, e a capire il motivo per cui da oltre un decennio non le ha dato più notizie. Tutto si ricollega alla morte del marito e padre, scomparso in mare nel pieno di una tempesta. L’uomo, fonte di un amore travolgente per la donna, ha preso il largo dopo una lite coniugale per cui lei e la figlia sono ora oppresse da un identico senso di colpa. E’ un melodramma inseribile nella tradizione narrativa cara a questo cineasta, ma senza quelle venature d’ironia e cattiveria che hanno reso memorabili opere come La legge del desiderio (La ley del deseo, 1987), Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, 1999) e Parla con lei (Hable con ella, 2002).

Paradossalmente il miglior film in cartellone è stato Aquarius del brasiliano Kleber Mendonça Filho, collocato dagli organizzatori in una posizione ambigua ma ricco d’interesse sociale. Clara vedova ed ex–critica musicale, vive a Recife in una palazzina costruita negli anni quaranta che si affaccia sull’Avenida Boa Viagem e su una bellissima spiaggia. Un gruppo di speculatori hanno messo gli occhi sull’edificio e vogliono trasformarlo in una residenza di lusso. Poiché l’anziana rifiuta di vendere e risultano inutili le minacce dirette e indirette (si va da un’assordante festa ospitata nell’appartamento sovrastante il suo agli escrementi lasciati sulle scale) la guerra con l’immobiliare assume toni sempre più caldi sino alla scoperta di un’infestazione di termiti volontariamente organizzata da coloro che vogliono acquistare la sua casa. Piccolo colpo di scena finale con la donna, che anni prima era sopravvissuta ad un cancro, che getta pezzi di legno brulicanti dei terribili insetti nelle linde stanze in cui l’immobiliare ha gli uffici. E’ una storia semplice che poggia quasi per intero sulle spalle della famosa attrice Sonia Braga, ma che ha il merito di ricordarci di quanta subdola violenza si nutra il capitalismo d’assalto.

Ma’ Rosa del filippino Brillante Mendoza conferma lo stile di quest’autore solito pedinare i suoi personaggi restando loro addosso con la macchina da presa. Nel caso specifico l’obiettivo racconta i triboli della famiglia di una piccola commerciante e spacciatrice, per necessità di arrotondare il magro bilancio familiare, i cui membri devono raccogliere, nel giro di poche ore, una somma rilevante da consegnare a un gruppo di agenti della squadra narcotici affinché chiudano un occhio e liberino madre e padre che hanno arrestato. E’ un quadro impressionante della corruzione che regna fra le forze dell’ordine di un paese in cui tutto ha un prezzo, anche lo scagionamento da gravi reati. La protagonista e il marito passano una notte e un giorno in stato d’arresto in un commissariato da incubo in cui si alternano, senza soluzione di continuità e in un clima di sostanziale indifferenza, inviti a pranzo, botte, prestito di abiti e trattative economiche. Saranno queste ultime ad avere il sopravvento costringendo la donna a scatenare i figli alla ricerca dei cinquantamila pesos che gli agenti reclamano per rilasciare lei e il marito. Alla fine la somma sarà trovata e gli arrestati rimessi in libertà, ma questo causerà un ulteriore peggioramento in condizioni di vita al limite della sopravvivenza. Il film documenta questa esperienza infernale senza retorica, limitandosi a radiografare una realtà terribile e, a tratti, incredibile.

La prima cosa che viene alla mente dopo aver visto La fille inconnue (La sconosciuta) dei belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne è che gli anni passano per tutti anche per i grandi cineasti. Infatti il film fa sembrare lontani i tempi di Rosetta (massimo premio al Festival di Cannes del 1999) e persino quelli del titolo che ha fruttato loro una seconda Palma D’Oro: L’Enfant - Una storia d’amore (L’Enfant, 2005). Questo perché l’ultima fatica di questi due autori appare lontana, seppure costruita molto bene, dallo spirito di ribellione e denuncia che segnava le altre opere. E’ la storia di una giovane dottoressa generica preda di un fortissimo senso di colpa per non aver aperto la porta dello studio a una ragazza di colore che si era presentata, trafelata e agitatissima, fuori orario di visita. La mattina dopo il cadavere della donna è scoperto da un operaio edile sul lungofiume su cui si affaccia lo studio medico. La dottoressa inizia una sua personale indagine che porta allo scoperta dell’identità della morta e a quella del suo uccisore. Se una morale se ne può trarre, sempre che questa operazione sia legittima, è che la società funzionerebbe meglio se tutti tenessero fede ai loro doveri. Il film ha il taglio di un poliziesco ben costruito e lineare nello sviluppo, solo parzialmente compromesso dalla fissità interpretativa di Adèle Haenel che attraversa fatti drammatici di cui è protagonista, comprese le aggressioni personali, senza mutare espressione. In altre parole un film di buon livello, ma lontano dagli standard a cui ci ha abituato la produzione di questi due cineasti.

Ci si aspetta molto dal cinema iraniano dopo la liberalizzazione parziale legata alla fine delle sanzioni economiche. La sezione Un Certain Regard, da sempre attenta a questa cinematografia, non si è lasciata sfuggire l’occasione e ha presentato Varoonegi (Inversione) del regista Behnam Behzadi, sperimentato documentarista e autore di telefilm, qui al terzo lungometraggio. Siamo ancora a livello delle storie borghesi che hanno segnano gli ultimi tempi del cinema di questo paese.  Niloofar ha trentacinque anni e vive a Teheran, una delle città più inquinate del mondo. Qui assiste l’anziana madre e gestisce una piccola fabbrica di vestiti. Il peggiorare delle condizioni di salute della genitrice ne causano il ricovero in ospedale con la decisione della famiglia di trasferirla in montagna, nel nord del paese. Poiché gli altri figli hanno famiglia, sarà lei a doverla accompagnare lasciando il laboratorio - i cui locali, nel frattempo i familiari hanno affittato senza consultarla – e troncando una possibile storia d’amore nel frattempo rivelatasi anch’essa ambigua. Dopo varie esitazioni la donna accetta di partire, ma pretende che i famigliari liquidino l’eredità e le versino subito la sua parte. Con questo capitale conta d’impiantare una nuova fabbrica là dove andrà. Il film spezza una lancia in favore del senso di responsabilità e dei diritti delle donne, lo fa in modo diretto, articolato e con grande maestria d’immagini. Davvero un film da non mancare quando e se arriverà sui nostri schermi.

In Juste la fin du monde (Solo la fine del mondo) del francese Xavier Dolan il regista commette un errore di fondo, quello di pensare che il passaggio di un testo teatrale allo schermo cinematografico - in questo caso il copione omonimo scritto dall’attore, regista e drammaturgo Jean-Luc Lagarce (1957 – 1995) nel 1990 mentre era ammalato di AIDS – non richieda altro ingrediente stilistico se non l’uso insistito, ossessivo del primo piano. E’ una scelta che isola gli attori dal contesto e, malgrado i dialoghi fluviali, li rende ben poco rappresentativi. Uno scrittore ammalato terminale ritorna in famiglia, ma madre, sorella, cognata e fratello non hanno tempo per prestare attenzione alle sue ultime parole. L’incontro si chiude come si era aperto: nell’indifferenza e chiusura in se stessi dei familiari. La scelta fatta dal regista approda a un film passabilmente noioso ed esteticamente inutile, un esempio da non seguire nel rapporto fra palcoscenico e grande schermo.

Bacalaureat (Il diploma) di Cristian Mungiu, vincitore della Palma d’Oro 2007 con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (4 luni, 3 saptamani si 2 zile), conferma il momento felice attraversato dal cinema rumeno. Il film ruota attorno ai pochi giorni in cui si svolgono gli esami di diploma nella cittadina transilvana di Cluj. Qui un medico che ha fatto di tutto, assieme alla moglie, affinché sua figlia sia accolta in una prestigiosa università inglese. Il professionista appartiene alla generazione che, come dice lui stesso, ha fatto di tutto perché il paese si trasformi, dopo il buio della dittatura di Nicolae Ceaușescu, in una nazione moderna. La studentessa, per aver diritto alla borsa di studio che le aprirà la via della Gran Bretagna, deve ottenere una votazione con un minimo di diciotto ventesimi in ogni materia. Il giorno prima dell’esame la ragazza subisce un’aggressione a scopo di rapina con il malvivente che le rompe un braccio. Ora ha difficoltà a scrivere e la prova, stabilita a livello nazionale, non può essere rinviata. Fa l’esame, ma sia per il trauma subito poche ore prima, sia per altre regioni ottiene la sufficienza, ma con un punteggio inferiore a quello richiesto per la borsa di studio. A questo punto il padre muove le sue conoscenze per farle alzare il voto e finisce coinvolto in un’inchiesta per corruzione che riguarda gli alti personaggi a cui si era rivolto. La cosa disgusta ancor più la ragazza che, di fatto, rinuncia alla possibilità di andare a studiare all’estero. Nel frattempo anche la famiglia, già in equilibrio precario causa un’amante del professionista, si sfascia completamente rivelando un panorama di macerie morali e materiali che, forse, serviranno per una nuova nascita. Il film offre un quadro spietato e terribile della Romania dei nostri giorni. Ciò che più colpisce è l’inutilità degli sforzi per rimuovere ogni illegalità in un sistema che sembra aver fatto della corruzione l’unica regola rispettata da tutti. Un panorama dominato da cumuli d’immondizia, appartamenti fatiscenti, uffici pubblici e ospedali degni del terzo mondo. La regia rappresenta questa realtà senza nascondersi dietro a veli o pretesti e lo fa con la semplicità di un realismo sconvolgente. Una menzione particolare meritano le prestazioni di un cast – da Adrian Titieni a Maria Drăguş a Lia Bugnar – di grandissima efficacia.

Hymyilevä Mies (Il giorno più felice nella vita di Olli Mäki) del finlandese Juho Kuosmanen, un attore qui al primo lungometraggio, presentato nel programma di Un Certain Regard è un film in bianco e nero che racconta fatti che risalgono all’estate del 1962, quando un pugile dilettante fu chiamato a misurarsi con l’americano di colore che deteneva il titolo di campione del mondo dei pesi piuma. Ne uscì sconfitto al secondo round e riprese mestamente la via della provincia e del mestiere di panettiere. Il film è molto ben costruito anche se lo sguardo sul mondo dello sport professionista pecca di non poca approssimazione.

The Neon Demon (Il demonio al neon) del regista di origine danese, ma attivo negli Stati Uniti, Nicolas Winding Refn è un film ambiguo e sbagliato. Ambiguo perché volendo rappresentare la violenza e la ferocia che segnano il mondo della moda e, in particolare quello delle indossatrici, lo fa rincorrendo a stereotipi e immagini patinate di quello stesso mondo.
Sbagliato perché non sfiora neppure il cuore della ferocia che permea quell’ambiente. La storia raccontata è presto detta nonostante le numerose deviazioni e ripetizioni. Ingelosite dal successo rapidamente ottenuto da una nuova, giovanissima indossatrice arrivata a Los Angeles dalla Georgia, alcune veterane del campo si associano per ucciderla e arrivano a mangiarne il corpo. Tutto questo disteso in quasi due ore di proiezione in cui abbondano le immagini di sedute fotografiche e sfilate. Un discorso aggrovigliato in cui non mancano ripetizioni, incongruenze e dialoghi quanto meno improbabili. E’ un prodotto di difficile digestione, basato su una contraddizione in termini da cui il regista non riesce a districarsi e che ridimensiona notevolmente la fama passata di un autore che, in questo caso è risultato sgradito anche ad alcuni fra i suoi sostenitori più accaniti.

Se con questo film si pensava di aver toccato il punto più basso della selezione cannense di quest’anno, è arrivato The Last Face (L’ultimo viso) dell’attore e regista, qui alla quinta direzione, Sean Penn a farci scendere ancora di livello. La storia raccontata è quella del legame sentimentale, improbabile e pasticciato, fra una dirigente delle Nazioni Unite (Charlize Theron) e un medico militante in un’associazione umanitaria (Javier Bardem). Si parla di Medici del mondo, ma il riferimento è chiaramente a Medici senza frontiere. I due s’incontrano in Africa e attraversano guerre e ribellioni amandosi e lasciandosi sino alla morte dell’uomo. E’ un classico prodotto delle ultime tendenze del cinema sentimentale genericamente coniugato a posizioni politicamente corrette. Il racconto è costruito su immagini che alternano diluvi di sangue a sequenze degne del peggior sentimentalismo. E’ un’opera sostanzialmente ipocrita che usa situazioni drammatiche solo per suscitare negli spettatori una facile commozione.

La larga noche de Fracisco Sanctis (La lunga notte di Francisco Sanctis), visto nella sezione Un Certain Regard, ci riporta nell’Argentina golpista del 1977 quando studenti, militanti sindacali e di sinistra scomparivano nel nulla. Un padre di famiglia, impiegato in un’azienda alimentare e con un passato di blanda militanza politica, riceve da una ex–agente letteraria, ora moglie di un pezzo grosso dell’Aviazione, un paio di nomi di militanti che saranno arresati quella notte. Il suo primo istinto è di disinteressarsi del tutto, poi inizia ad entrare nel dramma che sta sconvolgendo il suo paese e tenta di fare qualche cosa anche a rischio della sua esistenza. E’ un film serrato e breve, solo un’ora e diciotto minuti di proiezione, che esprime assai bene il coinvolgimento di persone che avrebbero voluto tenersi lontane dalla lotta politica, ma che la repressione dittatoriale ha spinto ad essere coinvolte nella lotta.

Forushande (Il commesso viaggiatore) di Asghar Farhadi, noto anche in Italia come autore dello straordinario Una separazione (Jodaí-e Nadér az Simín, 2011), conferma l’interesse di questo cineasta per la situazione umana e sociale della media borghesia iraniana, in particolare per la condizione delle donne. Un palazzo di Teheran subisce un cedimento strutturale che costringe allo sgombero quanti vi abitano. Rana ed Emad - lei attrice teatrale, lui insegnate e attore, entrambi impegnati in una messa in scena di Morte di un commesso viaggiatore (Death of a Salesman, 1949) di Arthur Miller (1915 – 2005) – trovano rifugio, in un primo tempo, in auto, poi in casa dell’immobiliarista che aveva venduto loro l’appartamento, quindi in un attico preso in affitto da uno degli attori della compagnia in cui recitano. Il nuovo appartamento ospita ancora alcune cose della vecchia inquilina, una donna che i vicini ritengono di dubbia moralità, che le ha lasciate in una stanza chiusa a chiave. Nonostante i solleciti del padrone di casa lei non passa a ritirale, allora questi sfonda la porta e le accatasta sul tetto. Un giorno, mentre Rana sta facendo la doccia, qualcuno suona alla porta e lei apre credendo sia il marito. Invece è uno sconosciuto che, eccitato dalla sua nudità, ingaggia con lei una colluttazione da cui la donna esce ferita in modo serio. Emad, d’accordo con alcuni amici e gli altri inquilini del caseggiato, si rifiuta di presentare denuncia sia perché convinto che nulla di buono possa venire dall’azione della polizia, sia per non esporre la moglie al biasimo della gente. Inizia, invece, una sua personale indagine partendo dal camioncino che l’aggressore ha abbandonato nel parcheggio condominiale. In breve scopre che il responsabile del crimine è un anziano venditore ambulante, arrivato nell’appartamento per portare via gli oggetti lasciati dall’altra locataria. Sequestra il colpevole e gli impone, quale condizione per rimetterlo in libertà, di confessare il crimine davanti all’intera famiglia. La storia procede di pari passo con le prove per la messa in scena teatrale che vede impegnati marito e moglie. Con qualche difficoltà Emad riesce a convocare moglie, figlia e futuro genero dell’aggressore, ma a questo punto è Rana a imporgli di liberalo senza condizioni, altrimenti il loro matrimonio sarà finito. Il marito accetta ma prima di lasciare andare il sequestrato lo schiaffeggia violentemente. A questo punto l’anziano, già sofferente di cuore, accusa un malore che si rivela grave. Al centro del film ci sono il ruolo e i condizionamenti subiti dalle donne in una società autoritaria e maschilista. Il ritratto tracciato dal regista è lineare e del tutto privo di inutili abbellimenti formali, con la macchina da presa che radiografa la situazione quasi senza prendervi parte. Come dire un film molto bello che si candida a qualcuno fra i massimi riconoscimenti del festival e che speriamo presto di vedere sugli schermi italiani.

Paul Verhoeven è un regista olandese che ha trovato ad Hollywood un grande successo commerciale. Il suo Basic Instinct (1992) ha mietuto incassi in tutto il mondo, in particolare per merito di Sharon Stone e della sequenza in cui, accavallando le gambe, mostra di non portare indumenti intimi. Regista particolarmente attento al lato più nascosto dei desideri sessuali femminili, ha trovato in Elle (Lei) il materiale ideale per dare spazio ad un’altra grande attrice, Isabelle Huppert, che non ha mai disdegnato di usare il proprio corpo quale strumento fondamentale di recitazione. Michèle è la proprietaria di una grande azienda di giochi elettronici. Ha alle spalle l’esperienza traumatica di un padre schizofrenico che ha ucciso numerosi vicini e ed ora sta scontando la pena dell’ergastolo. La madre si concede vari toy boy, cedendo anche a qualche sogno sentimentale. Lei invece, passa senza alcuna remora, da un amante all’altro sino a che è aggredita e violentata in casa da un vicino che si presenta mascherato come una sorta di Diabolik. Inizia a questo punto un gioco di seduzione violenta che termina con la morte dell’uomo. E’ un film molto ben costruito la cui unica e sola ragione d’essere è nell’interpretazione di questa duttile e matura attrice francese (a sessantatre anni non ha problemi a mostrare parti del corpo che solitamente le donne di quell’età nascondono) che appare sin dall’inizio la vera dominatrice della storia. La giuria del Festival ha, fra i premi a sua disposizione, anche la Palma d’Oro per la miglior attrice. Ecco una candidata più che probabile e meritevole.

I premi

I Daniel Blake

Sezione Principale

Palma d’oro: I, Daniel Blake (Io, Daniel Blake) di Ken Loach

Premio speciale dalla giuria: Juste la fin du Monde (Solo la fine del mondo) di Xavier Dolan

Premio alla regia: ex – aequo a Cristian Mungiu per Bacalaureat (Diploma) e a Olivier Assayas per Personal Shopper (Compratore personale)

Premio alla sceneggiatura: Asghar Farhadi per Forushande (Il commesso viaggiatore)

Premio per l’interpretazione femminile: Jaclyn Jose per Ma’ Rosa

Premio per l’interpretazione maschile: Shahab Hosseini per Forushande (Il commesso viaggiatore)

Premio della giuria: American Honey (Miele americano) di Andrea Arnold

Sezione Un Certain Regard

Primo premio Hymyilevä Mies (Il giorno più felice nella vita di Olli Mäki) di Juho Kuosmanen

Premio della giuria Fuchi ni tatsu (Armonio) di Fukada Kôj

iPremio della regia Matt Ross per Captain Fantastic (Capitan Fantastico)

Premio alla sceneggiatura Delphine Coulin e Muriel Coulin per Voir du pays (Vedere il paese)

Premio speciale di Un Certain Regard La Tortue Rouge (La tartaruga rossa) di Michael Dudok de Wit

Cortometraggi

Palma d’Oro Timecode di Juanjo GIMENEZ
Menzione speciale A moça que dançou com o Dianlo (La giovane che ballò con il Diavolo) di João Paulo Miranda Maria

Riconoscimenti speciali

Premio CAMÉRA D’OR al miglior film d'esordio Divines (Divine) di Houda Benyamina presentato nel programma della Quinzaine des Réalisateurs

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