61° Festival di Cannes: Croisette bagnata, Croisette fortunata! The Taste and Scent of France Under a "Sweet Sweet Rain"

Festival di Cannes 61° edizioneE’ il caso di dirlo. Cannes bagnata, Cannes fortunata. Sotto le nuvole e un sole birichino che si è concesso misuratamente, come un divo, si è svolta la kermesse festivaliera tout court più chiacchierata del mondo. La pioggia, se da un lato ha reso il tutto più romanticamente nostalgico, dall’altro ha quasi del tutto cancellato la programmazione -peraltro interessante - del cinéma de la plage. Si tratta del noto appuntamento annuale alla plage Mace, a pochi passi dal palais du festival, che tutte le sere a partire dalle 20.30 propone un film (gratuito e aperto a giornalisti e pubblico) preceduto da 45 minuti di concerto dedicato al mondo delle colonne sonore (45 minuti utili anche a far calare le tenebre per permettere così la proiezione). Il programma, oltremodo ricco e stuzzicante, citando alla rinfusa, proponeva da Bonnie e Clyde (preceduti da Nadara: la musique Tsigane au cinéma _the Gypsies soundtracks_) a Captain Blood (preceduto da les musiques de film “à la francaise”), passando per I Am A Fugitive From Chain Gang (preceduto da un omaggio a Ennio Morricone), Blazing Saddles  (preceduto da Chanson ciné–soundtrack), Whatever Happened To Baby Jane (preceduto da la musique spychadélique au cinéma, hommage à David Lynch), e Matrix (preceduto dal favoloso concerto sulla musica rock nel cinema, eseguito da Richard Kolinka, Raphael, Cali, Oli le Baron). Meno mondana dello scorso anno, questa edizione cannoise 2008, ha comunque regalato delle belle soddisfazioni, se non proprio ormonali (no Jude Law, no party), almeno cinefile. Il DivoE poi come non esser fieri di un’Italia che ha fatto l’en plein! Ben due premi: il Premio della Giuria a Il Divo e il Gran Premio della Giuria a Gomorra. Non accadeva dal 1972 con la Palma d’Oro vinta ex aequo da La Classe Operaia Va In Paradiso & Il Caso Mattei. Il segreto del successo italiano? Far semplicemente presa sulla realtà senza timore di “lavare i panni all’estero” (come ha detto un noto volto della tv italiana, almeno così si mormora in loco, tale Afef) affrontando e poi affondando a piè pari nelle “vergognette” nostrane: la camorra e la “passata” politica (e qui non so cosa possano aver colto gli stranieri!). E poi dove lo mettiamo quell’altro pezzetto d’Italia rappresentato da un Castellitto “ciabattoso” e membro di giuria (al pranzo del Sindaco si è presentato con le inflazionate ciabatte gommose a buchi stile Maimi-valdostano)… noblesse oblige! Ciabatte a parte, non è mancato nemmeno il solito ed immancabile défilé di star e starlette. Iniziamo dalle donne: Sharon Stone (sempre meravigliosa con il suo viso bonne mine), Madonna (presente a Cannes con il documentario sul Malawi I Am Because We Are, e presentatrice del Party mondan-benefico AMFAR), Penelope Cruz (sottile e charming su tacchi stratosferici e travolgente come uno tsunami nel nuovo film di Allen), Angelina Jolie con pancione contenente due “brangiolini”, l’aristo-chic nell’anima Cate Blanchett, l’americana verace Rebecca Hall (la Vicky di Vicky Cristina Barcelona), la camaleontica Gwyneth Paltrow (stufa di fare la brava ragazza ha sfoderato un look very aggressive con tanto di sandali fetish altissimi alla schiava, per i quali avrei fatto pazzie), e ancora, la nostra monumentale Italian Doll Monica Bellucci. A proposito, così, puor parler, volete saper com’è Monica “dal vivo”? Viso letteralmente disegnato da quanto è perfetto, mood simpatico, concreta e fisicamente minuta. Ma c’è stato anche spazio per la deliziosa Natalie Portman extra small, l’inossidabile Catherine Deneuve e la dolce Chiara Mastroianni, la donna dal patrimonio genetico inedito ovvero Milla Jovovich (in splendida forma dopo la gravidanza) e poi la più bella, almeno secondo la sottoscritta: Karen Allen, niente meno che la donna di Indiana Jones. Grande assente Scarlett Johansson ufficialmente impegnata sul set di un film (in realtà pare abbia dribblato il festival perché non le venivano pagate le spese per i suoi maître à coiffer personali!). Caliamo un velo pietoso.Gomorra
Vogliamo parlare di uomini? Vi accontento subito. Come già detto, confidavo ardentemente in un miracolo: volevo Jude Law. Le probabilità di vederlo par chance erano davvero scarse (infatti, cosa ci fa uno a Cannes se non ha un film da presentare!), ma sapete com’è, lui è un giovane playboy metrosexual, a Cannes ci sono le fanciulle, magari, pensavo, verrà per spassarsela (non con me) come lo scorso anno. Ero sicura che …e infatti coup de thèâtre: eccolo, all’hotel Martinez, materializzarsi davanti ai miei occhietti (tanto da credere in un autosuggestione indotta con abilità yogi) mentre ero in attesa dei junkets di Two Lovers (doveva esserci anche Joaquin Phoenix che poi ha dato forfait). E’ venuto a presentare un film/documentario sull’Afghanistan, con tanto di presentazione alla stampa (pochi gatti per la verità) sulla spiaggia del Majestic Barriere (altro albergo/meeting point della Croisette). Com’è andata? E’ andata come doveva andare. E’ stato un aut-aut. Ho lasciato, Claudio, mio marito e ora viviamo insieme! Scherzo (c’era bisogno di dirlo?). Professionalmente e umanamente però non mi lamento: una bella e lunga intervista, per argomento interessante con succose quanto inaspettate scivolate sul personale. Davvero niente male. Jude a parte, si è fatto notare anche Mr Sean Penn (Presidente della giuria) per via di quel certo non so che, che ha fatto dire anche a mio marito (sì, quello che avrei dovuto lasciare per Jude, ma di cui -che volete farci- sono innamorata, e quindi porto spesso con me come mascotte/colf): “Gran bell’uomo!”. E poi dove volete mettere il faccino spaesato di Woody Allen, Wim Wenders e Robert De Niro? Per non parlare poi dei “Bad Boys” (no, non sono un nuovo gruppo!) Emir Kusturica e Maradona (che durante il photocall si sono scambiati con nonchalance due calci al pallone!). Benicio Del Toro, meno stropicciato del solito e spettacolare interprete di Che, è arrivato pallidissimo e munito di chioma dal colore molto fake …e poi la sorpresina, almeno per me, Dennis Hopper, un vero mito, anche di persona. Per chiudere Tarantino (furiosamente loquace, brillante e dall’intelligenza pronta), Mike Tyson (un bestione in versione “mi sono redento”, a me, però, non la conta giusta), Indy/Harrison Ford, scortato dalla sua cricca (George Lucas e Steven Spielberg), e il 78enne Mr occhi di ghiaccio Clint Eastwood. Direi che basta. Questo senza ovviamente contare tutti gli eventi collaterali che trascinano gli attori, attrici e registi a Cannes, anche se solo per qualche ora. Ah, dimenticavo, per un film eccezionale, di qui parleremo tra poco, un interprete altrettanto eccezionale, da tener d’occhio perché destinato a diventare (e in parte lo è già) un nome (e un volto): Michael Fassbender. Intenso, affascinate, autentico uomo-uomo dalla fragorosa risa all’indietro con tanto di panoramica sui denti (la risata McGregor per intenderci) munito di due occhi da imbarazzo che aleggiano sull’allure vagamente scozzese (ma è tedesco e irlandese e vive a Londra). E ora, dopo tante frivolezze, vi stupirò con la straordinaria puntualità con cui desidero trascinarvi con me dentro alla kermesse cannoise. Ma ecco la novità: da quest’anno, giusto per cambiare, vi parlerò di Cannes giorno per giorno, dal primo sino ad arrivare al dodicesimo, prendendo in esame i film presentati nel dettaglio. E’ un esperimento, per cui mi direte poi se avete gradito. Per iniziare uno sguardo alle varie giurie della 61ma edizione.

La Giuria del Concorso ufficiale:
Presidente:
Sean Penn (attore e regista, USA)
Membri della Giuria:
Jeanne Balibar (attrice, Francia)
Rachid Bouchareb (regista, Francia)
Sergio Castellitto (attore e regista, Italia)
Alfonso Cuaron (regista, Messico)
Alexandra Maria Lara (attrice, Germania)
Natalie Portman (attrice, USA/Israele)
Marjane Satrapi (scrittrice, regista, Francia/Iran)
Apichatpong Weerasethakul (regista, Tailandia)

La Giuria di Un Certain Regard:
Presidente:
Fatih Akin (regista, Germania)
Membri della Giuria:
Anupama Chopra (giornalista, India)
Yasser Moheb (critico, Egitto)
Catherine Mtsitouridze (giornalista, Russia)
Jose Maria Prado (direttore della Filmoteca Espanola)

La Giuria de La Camera d'Or (opera prima):
Presidente:
Bruno Dumont (regista, Francia)
Membri della Giuria:
Isabelle Danel (critico, Francia)
Jean-Michel Frodon (critico, Francia)
Monique Koudrine (Francia)
Willy Kurant (direttore della fotografia, Francia)
Jean Henri Roger (regista, Francia)

La Giuria della Cinefondation e Cortometraggio:
Presidente:
Hou Hsiao Hsien (regista, Taiwan)
Membri della Giuria:
Olivier Assayas (regista, Francia)
Susanne Bier (regista, Danimarca)
Marina Hands (attrice, Francia)
Laurence Kardish (curatore del MomA, USA)

Vicky Cristina BarcellonaPrima di iniziare con l’analisi di tutti i film presenti, due appunti per dovere di cronaca: inspiegabile l’assenza in questa edizione 2008 della leçon de musique (per questo, una tiratina d’orecchie a Thierry Fremaux, direttore artistico del festival); entrerà invece negli annali l’esilarante lezione di cinema di Quentin Tarantino, a cui dedicheremo uno spazio a parte. La 61esima edizione del Festival di Cannes si è aperta con Blindness (da noi uscirà con il titolo meno charmant di Cecità), adattamento del romanzo dello scrittore portoghese premio Nobel José Saramago, diretto dal brasiliano Fernando Meirelles, sceneggiato dal canadese Don McKellar (anche attore) ed interpretato da un cast di tutto rispetto: Mark Ruffalo, Julianne Moore, Danny Glover, Gael Garcia Bernal, Iseya Yusuke e Kimura Yoshino. Ecco la trama: un’improvvisa epidemia di cecità (“male bianco”) colpisce un’imprecisata megalopoli. Si reagisce al contagio chiudendo (o se volete ghettizzando) gli “appestati” in strutture fatiscenti, dove vengono poi abbandonati a loro stessi. La storia c’è, la regia, accattivante, anche se va depurata da qualche empasse manieristico. Gli attori ci sono, tutti bravi, tutti al servizio della storia, quindi tutti calati nei panni di non vedenti; tutti tranne la lattiginosamente ipnotizzante Julianne Moore, l’unica a vedere (e in questo state tranquilli non vi ho rovinato il film, si sa da subito), attrice sempre in parte, che se possibile, questa volta, sotto le mani di Meirelles ci regala un’interpretazione di una intensità tangibile. Entre les murs
Passiamo alla seconda giornata del Festival, segnata da un insolito film d’animazione, Waltz with Bashir, scritto, prodotto e diretto dall’israeliano Ari Folman (gran bell’ometto, ndr). Il Bashir del titolo è Bashir Gemayel, leader falangista e presidente libanese assassinato nel 1982 dopo pochissimi giorni d’insediamento. Tutto parte dal racconto di un sogno legato alla Prima Guerra del Libano fatto al regista/protagonista da un amico, che scatenerà in lui ricordi frammentari legati alla sua partecipazione alla guerra ed un’altrettanto bizzarra amnesia legata alla sua presenza a Beirut in concomitanza con il noto massacro avvenuto per mano dei Falangisti cristiani nei campi palestinesi di Sabra e Shatila. Per capire e dunque ricordare i fatti con precisione, Folman parla con diversi amici ed ex commilitoni, ricostruendo i suoi ricordi e presentando una complessa rivisitazione di quegli eventi così come furono percepiti e vissuti da “normali” soldati israeliani. Visivamente interessante nel suo mescolare diverse tecniche (dall’animazione tradizionale a quella in 3-D) Waltz with Bashir ha un ritmo altalenate, poggia su una colonna sonora che fa gioco alla storia, ai sentimenti e all’adrenalina (dei personaggi e degli spettatori), conquista per la sua originalità, colpisce per il coraggio (quello di assumere chiaramente una posizione politica), stuzzica per la capacità di far pensare e soprattutto riesce a farsi ricordare. Si prosegue poi con Leonera, diretto dall’argentino Pablo Trabero, storia di Julia, una ragazza condannata al carcere per aver ucciso il suo fidanzato e ferito un amico. Julia è però incinta, e viene quindi sistemata in quell’ala dove sono detenute tutte le donne con bambini o in procinto di averne. Sentimenti in ballo, dunque, per un film che abbraccia appieno la natura narrativa, concentrandosi sulla protagonista e sui rapporti tra i personaggi. Un giudizio personale? Senza infamia, senza lode. Spasso, invece nella sezione Un Certain Regard , dove è stato presentato un film a dir poco stravagante: Tokyo!. Ambientato nella capitale nipponica, il film è diviso in tre episodi diretti da tre registi sui generis: Michel Gondry (che ho avuto il piacere di intervistare, grazie all’ufficio stampa straniero PR Contact), Leos Carax (il regista de Gli amanti del Pont-Neuf) e Bong Joon Ho (Memories of a Murder e di The Host), che hanno ambientato, per l’appunto, le loro surreali storie nella metropoli di Tokyo.
Partiamo allora dal primo episodio firmato da Gondry, Interior Design. Tratto da un fumetto, la pellicola ha per protagonista una giovane coppia che si trasferisce a Tokyo per motivi di lavoro: lui coltiva, insegue e realizza il suo sogno, lei, al contrario, da lui accusata di esser priva di scopi, sogni, ambizioni, cambierà “vita” (e qui viene il bello e io mi fermo). Secondo episodio per Carax, che con il suo Merde (sì, è proprio il titolo!) in cui trasforma Denis Lavant in uno pseudo troll incarognito e mangia fiori, che emerge puntualmente dalle fogne di Tokyo per gettare la città nel terrore. Ultimo episodio di Tokyo!, Shaking Tokyo di Bong. Storia di un “eremita” moderno che vive isolato in casa (un appartamento spaventosamente ordinato), ma che è destinato a rivedere questa sua clausura quando s’innamora della ragazza che ogni sabato gli consegna la pizza a domicilio. Passiamo ora al terzo giorno. E’ stato il turno del regista turco Nuri Bilge Ceylan, un “veterano” di Cannes, che quest’anno ha portato in concorso Üç Maymum (Le tre scimmie), vicenda familiare piuttosto violenta e noiosa. A seguire il primo dei film francesi apparsi nelle selezioni ufficiali: Un Conte de Noël, di Arnaud Desplechin. Siamo qui di fronte ad un feuilleton che prende ad esame una famiglia che riunisce le sue tre generazioni in “occasione” della malattia di uno di loro che, guarda caso, necessita di un trapianto di midollo da un familiare. Il punto però è che il problema, più che nella malattia, risiede nei rapporti “malati” fra familiari, o meglio tra fratelli. Il film è comunque ben condotto, con un cast in stato di grazia (dal prossimo nemico di 007, Mathieu Amalric a Jean-Paul Roussillon), ma qualche intoppo purtroppo c’è, dovuto forse alla smania di raccontare tutto e troppo nel dettaglio. Positivissimo invece, a chiusura serata, il film che ha aperto la sezione Un Certain Regard: Hunger, del britannico Steve McQueen (anche qui non è un errore, si tratta di un abilissimo e corpulento regista di colore alla sua opera prima). Si cambia registro, non si fanno sconti in termini di violenza né di inquadrature. Tutti, a partire dal regista, danno il massimo. Le emozioni dilaniano lo schermo oltrepassano la cortina dei sussulti inciampano sui sospiri e turbamenti e il gioco è fatto, si viene ingurgitati e poi vomitati brutalmente dal film. Si sta male. Ma è questo l’intento registico. Si soffre. E anche se ci si crede impavidi alla William Wallace, si rimane scossi (un risultato analogo lo otterrà solo Johnny Mad Dog di Jean Stéphane Sauvaire, sulla tragedia dei bambini soldato in un'Africa senza nome, film presentato sempre in questa sezione e prodotto da Mathieu Kassovitz). Tornado però ad Hunger, si parla di Irlanda, IRA, i buoni (i detenuti?), i cattivi (i carcerieri?) e di una rivolta, quella nel carcere nordirlandese di Maze all’alba degli anni Ottanta. Cos’era successo? I detenuti dell’IRA (… direi i buoni), per costringere il governo inglese a riconoscer loro lo status di prigionieri politici, diedero il via ad uno sciopero dell’igiene, sfociato poi, per iniziativa del carismatico Bobby Sands (interpretato da Michael Fassbender) in uno sciopero della fame, che porta alla morte Sands e altri nove detenuti. La storia dunque, è una storia vera. Direte voi: “ecco il solito polpettone politico”. Sbagliato. Hunger è un film disumanamente umano, atrocemente intimo, crudelmente vero. Il bello, è che ci si accorge di avere a che fare con un gran film, man a mano che si avanza nella vicenda. McQueen procede a piccoli passi, parte con i personaggi secondari (non in senso stretto), e solo alla fine conosciamo i protagonisti, anzi il protagonista, Sands. Tutto questo, per mano di un regista esordiente. Straordinario. Come straordinari sono gli interpreti. Michael Fassbender (Bobby Sands) intento, permettetemi un gioco di parole, più a fagocitare la parte che il cibo, e Liam Cunningham, nei panni di un prete che si reca in carcere per cercare di dissuadere Sands dal dare inizio allo sciopero che lo porterà alla morte. Ultimo appunto, vale il film il solo minuetto verbale tra Fassbender e Cunningham, impegnati in una scena di 20 minuti senza tregua alcuna, teatro puro, e del migliore, battuta incalza battuta, beninteso, nessuno stacco di macchina, che è fissa, messa lì come una presenza che assiste invisibile alla scena (realizzata in un unico ciak). Noi siamo quella macchina da presa. Se potesse concorre per l’Oscar Fassbender lo vincerebbe solo per questo. Non vedo l’ora che possiate vederlo, pare che l’Italia (strano ma vero) lo abbia comprato. “Adesso, scioccata e finalmente toccata da un film, sarà dura veder qualcosa di altrettanto forte”. Così pensavo allora, al terzo giorno di Cannes, e così, mutatis mutandis penso adesso. Ma proseguiamo con il quarto giorno. E’ il turno di Soi Cowboy, film diretto dal regista inglese Thomas Clay e presentato in Un Certain Regard. Ambientato in Thailandia, al centro (forse) il rapporto tra un britannico corpulento ed una ex prostituita bambina che vive con lui, ed è incinta. Ora, so che non si dovrebbe fare, ma come abbandono i libri a metà se non mi piacciano (è un diritto del lettore, lo dice anche Pennac) ho preso armi e bagagli, e sono uscita dalla sala. Invedibile. Una tortura. Mi chiedo ancora perché non sono andata a farmi un giro anziché entrare in sala. Procediamo, e rimaniamo nella sezione Un Certain Regard, dove troviamo il film teutonico Wolke 9, di Andreas Dresden, in tre parole amore, sesso e corna nel mondo degli ultra adulti, la terza età. Anche gli anziani lo fanno? Che l’amore e i moti dell’anima non hanno età? Beh, lo voglio sperare, ma era proprio il caso di darne dimostrazione in un film? Se proprio devo rispondere, contraddicendo quello che ho appena detto, forse, sì, libero arbitrio, ma che noia! Passiamo al concorso, dov’è stato presentato il film diretto da Walter Salles e da Daniela Thomas, Linha de passe. Qui si parla di quattro fratelli, nemmeno a dirlo provenienti dai sobborghi di San Paolo del Brasile, in cerca di un riscatto sociale ottenuto solo grazie alle loro doti e inclinazioni. Un giudizio (sempre personale), idem come sopra, noia noia noia. Indiana JonesMa come sempre, o quasi sempre, accade, dopo tanta noia, si spera sia il turno di un po’ di leggerezza naif. Detto fatto. Merito di Mr Woody Allen, che a scapito dei suoi 72 anni portati un po’ “fiaccamente”, riserva un cuore, e quindi un cinema, scoppiettante. Sono di parte. Amo Allen e i suoi lavori. Direi quasi tutti, tranne, e qui mi duole ammetterlo, il penultimo, quello presento a Venezia, Cassandra’s Dream (Sogni e delitti), con Colin Farrell e l’ormai di casa (mia, non di Venezia!) Ewan McGregor. Uno sfacelo. Torniamo a Cannes, a Woody ed al suo Vicky Cristina Barcelona, commedia spumeggiante, presentata Fuori Concorso. Due amiche, Vicky (Rebecca Hall) e Cristina (Scarlett Johansson), entrambe americane, giovani e belle ma con idee divergenti riguardo all’amore, passano l’estate a Barcellona. Vicky è la classica brava ragazza, ovviamente fidanzata con un ragazzo modello che la ama, ed è prossima alle nozze; Cristina, invece, è lo spirito libero, che ama e vive intensamente l’eros e thanatos. Caso vuole che le due si imbattano presto in un tombeur de femmes, il pittore Juan Antonio (uno spassoso Javier Bardem) che propone ad entrambe un weekend di sesso, svago e buon cibo ad Oviedo. Galeotto fu Oviedo e chi vi si recò…da quel giorno le due verranno completamente soggiogate dal fascino dell’uomo che entra così nella loro vita, insieme però, alla pazzoide e passionale ex moglie Maria Elena (uno superlativa e sensuale Penelope Cruz). Si ride e si apprezzano solo le battute? Sì e no. Si ascolta della bella musica? Sì. Rimane però un dubbio, forse l’intento di Allen era di andare più a fondo, parlare a più strati dell’amore e dei rapporti di coppia. Beninteso, ci riesce, ma diciamo che si ferma al primo livello, per cui si ride, si può anche rivedere più volte (se possibile vedetelo in lingua originale, il lavoro sulla voce fatto dalla coppia, anche nella vita privata, Cruz-Bardem e dalla new entry Rebecca Hall è straordinario), ma poi finisce lì. Finito il film, nessuna elucubrazione mentale.
All’insegna del non facciamolo arrabbiare, “cerchiamo di non guardalo storto, per cui, non guardiamolo affatto”, è stato invece l’incontro più o meno vis-à-vis con Mike Tyson, presente in sala (il cast dei film serali presentati in Un Certain Regard è sempre presente), per il documentario omonimo, Tyson, di James Toback. Un monologo, un mea culpa (non mia, quella di Tyson) intervallato da colpi di tosse e di boxe. Un viaggio dagli esordi al declino, con interviste e filmati dell’epoca. Cinematograficamente insignificante. Se Tyson è davvero quello lì, allora stiamo freschi…è un buono (dice lui) che abita nella bestia (dico io). Passiamo alla sezione Fuori Concorso con The Chaser, noir coreano scritto e diretto dall’esordiente Na Hong-Jin. Seoul, un ex poliziotto/protettore di prostitute vede alcune delle sue ragazze sparire misteriosamente vittime di un serial killer psicopatico. Un film non scontato, ben diretto e capace di cambiare umore e registro senza empasse. Siamo quasi al giro di boa, quinto giorno. Ecco Serbis, film diretto dal regista filippino Brillante Mendoza, ambientato in un edificio fatiscente dove una famiglia allargata gestisce un cinema porno frequentato. Sesso esplicito in tutte le declinazioni. Un po’ supponete, è il caos di dirlo, Serbis nasconde, nemmeno troppo bene, intenti metaforici sfacciati e fastidiosi.
Finalmente ci siamo! Ecco il cinema italiano, ecco Gomorra (!), adattamento cinematografico di Matteo Garrone del libro di Roberto Saviano. Un film potente, intelligente, claustrofobico. Difficile vedere una via d’uscita da quel microcosmo. Da brividi. In concorso, è stato presentato 24 City, di Jia Zhangke , un film all’insegna dell’immagine, vere e proprie fotografie in movimento di grande impatto visivo, ma la storia, ahimè, non colpisce. La sesta giornata, sezione Un certain regard arriva Tokyo Sonata, il nuovo film di Kurosawa, regista/emblema dell’Horror nipponico. Siamo alla prese con un melodramma familiare: un dirigente amministrativo di una grande azienda viene improvvisamente licenziato. L’uomo non ha il coraggio di confessare alla moglie e ai due figli di aver perso il lavoro, fa finta che nulla sia accaduto, cercando allo stesso tempo un modo per tirare avanti. Una storia verosimile, se non di quotidiana amministrazione in qualsivoglia paese. Un film riuscito, abile sia nel raccontare le vicende di quattro individui e del nucleo familiare che lo compongono, sia nell’atto d’accusa senza mezzi termini della cultura e della società giapponese. Commovente. Passiamo oltre, e troviamo Wong Kar-Wai, accompagnato dall’inseparabile Christopher Doyle e dal cast di Ashes of Time Redux (Fuori Concorso). Girato nel 1992, Ashes of Time viene comunemente considerato il primo capolavoro di Wong. Il film è stato restaurato e montato in una versione definitiva totally renewed. Bello, perché accattivante, Kar-Wai prende il wuxiapian ed il cinema di Hong Kong e ne fa una rivisitazione personale in chiave estetica. Il risultato? Un pot-pourri onirico che dedica tanto spazio alla bellezza delle immagini, della fotografia, dei volti estatici e perfetti dei protagonisti. Un inno alla bellezza, quella trasognate della perfezione. Trama non del tutto lineare, assunta più a pretesto che a funzionalità, ecco che Wong racconta quello che più ama e sa raccontare, l’amore e i suoi moti. Lo fa grazie a vicende di personaggi forti e fragili insieme, insomma, umani. Così come l’amore non è mai stato semplice da capire, decifrare, vivere, così è il film fedele alla sua essenza, seduce per via del bello e del diverso (il film è altamente sperimentale), spiazza, ma vale comunque la pena di esser “vissuto”. Traduco: va visto. Dalle stelle, alle stalle. Le Silence de Lorna dei fratelli Dardenne (sì, quelli che a Cannes fanno sempre l’en-plein) intenti a raccontare la storia di una ragazza albanese (Lorna) che ha sposato un giovane tossicodipendente per ottenere la cittadinanza belga. Il punto è che il giovane sta per esser ucciso dai complici di Lorna con un’overdose. Lorna, probabilmente innamorata del ragazzo, cercherà di far cambiar loro idea ma, ecco l’ennesimo sgambetto, nel frattempo il giovane si è anche disintossicato! Fedeli al loro stile (altrimenti dove finisce la coerenza?), i Dardenne ripropongono le strutture e dinamiche a loro care, al fine di tratteggiare (e qui falliscono) i personaggi nella loro fragile umanità. Passiamo poi ad un opera prima, parlo di De Ofrifillinga, del giovane svedese Ruben Östlund. Volete che sia sincera? Mi sono addormenta, avvolta dall’immane supponenza del film. Un incubo. Da un incubo passiamo ad un giocattolo, anzi un bel giocattolone, e parliamo del ritorno di Indy, in Indiana Jones e Il Regno Del Teschio Di Cristallo. Allora, siamo al quarto capitolo/episodio, a distanza di quasi vent’anni dal capitolo precedente. Cosa aspettarsi? Come non vanificare tutto il patos creato dall’attesa nonché la garanzia di un successo (non) annunciato, giacché i fan di Indy sono (erano) tutti pronti ad accoglierlo a braccia aperte? Semplice, mi verrebbe da dire, basta realizzare quanto meno un film come i precedenti (squadra che vince non si cambia) e magari ammodernare un po’ il tutto, tutto sommato la generazione di affictionados è cambiata, per cui occorre anche pensare a colpire (come no!) grandi (gli ex fan di Indy) e piccoli (dove la mettiamo economicamente tutta la fetta più nutrita di spettatori che garantiscono record al box office, vale a dire i 15/20enni?), Ora, se “ci arrivo io”, intendo dire, se queste considerazioni arrivano da una digiuna di marketing cinefilo, allora mi chiedo, santa polenta, cosa mai hanno combinato (o si siano bevuti) Spielberg e Lucas. Ragazzi, un po’ di cervello! Nel momento in cui scrivo il film è già uscito per cui sapete tutti com’è andata (quella di Cannes è stata una anteprima mondiale e il film era già visibile in tutto il globo dal giorno dopo). Ma ditemi la verità, soprattutto se siete fan di Indy, non vi siete incavolati?. Cosa hanno fatto Mr Star Wars/George Lucas e Mr “vorrei essere Frank Capra del XXIesimo secolo”, Steven Spielberg? Hanno cambiato in peggio tutto, dalla storia, all’eroe, passando per le dinamiche del film, azzerando l’avventura, dimenticando le battute tormentoni, annientando le location (si è mai visto Indiana Jones, rinchiuso tra due muri di un college, o incastrato in una jeep?) per cui niente deserti, panoramiche mozzafiato o altro. Acqua passata. Credo che Lucas e Spielberg abbiano pensato che la ricetta giusta per il successo fosse mediare le esigenze per accaparrarsi tutte le fette di fan e dunque di mercato cui accennavo prima. Oppure, hanno erroneamente ritenuto che le nuove generazioni fossero composte da cerebrolesi, e che quelli della vecchia siano ormai costituite da dementi. Qualche considerazione nel dettaglio. Il film è ambientato nel 1957 (e nella realtà a vent’anni di distanza dal precedente capitolo, per cui non vediamo Indy da un po’), il tempo passa anche per l’archeologo, della serie anche gli eroi invecchiano. Ma quali eroi visto che (ripeto dopo vent’anni) la premiata ditta Lucas-Spileberg mostra il protagonista (contro ogni regola di sceneggiatura anche la più sperimentale) che viene subito catturato, e costretto da un gruppo di sovietici ad identificare una cassa misteriosa in un enorme magazzino governativo situato all’interno dell’Area 51 (che scopriremo essere lo stesso che custodisce l’Arca dell’Alleanza). E poi dove la mettiamo quella sottospecie di caricatura di Marlon Brando, il figlio di Indy (Shia LaBeouf)? Peccato. I primi istanti del film promettevano bene, parlo di quando si vede la jeep attraversare il deserto con la musica incalzante di "Hound Dog" e naturalmente la voce di Elvis. Alla fine, se proprio dobbiamo salvare qualcosa , salviamo la colonna sonora, curata da John Williams che, accanto allo score originale affianca canzoni intramontabili e di sicura presa sul pubblico: "Howdy Doody Theme", "Wake Up Little Susie", "Little Bitty Pretty One", "Shake Rattle and Roll", solo per citarne alcune. E’ tutto un piacere per le orecchie.
“Born in the USA”, è il caso di dirlo, almeno per questa settima giornata tutta a stelle e strisce. Partiamo dal concorso, dove è stato presentato Two Lovers, il nuovo film del regista James Gray (presente lo scorso anno con I Padroni Della Notte, sempre con Joaquin Phoenix). Il film parla in maniera drammatica ed inquietante dell’amore e dei suoi moti. Il personaggio di Phoenix, Leonard è, infatti, un uomo che non ha ancora superato il trauma di un matrimonio andato a monte all’ultimo secondo, trauma che l’ha persino spinto a compiere dei tentativi di suicidio; quando all’improvviso contemporaneamente nella sua vita entrano le due “amanti” del titolo, la Sandra (Vinessa Shaw) e Michelle (Gwyneth Paltrow), riesce a dimenticare il passato ma è costretto però ad affrontare nuovi problemi. Sandra è innamorata, lui però non la ama, almeno non quanto ama l’instabile e capricciosa Michelle, per la quale lui è poco più di un amico. Sandra è per Leonard la sicurezza, Michelle invece l’amore impossibile. Gray, lavora sui dettagli, sulle sfumature e sensazioni, rendendo reale il non detto. Gioca sulle psicologie e, su una trama apparentemente banale, costruisce un impero dei sensi. Da vedere. Così come da vedere è The Exchange, a firma del grande anche anagraficamente parlando (78 anni suonati) Clint Eastwood, che ha meritato lunghi applausi in sala. Il film è inspirato da un fatto di cronaca realmente accaduto nella Los Angeles di fine anni Venti. Christine Collins, interpretata da una convincente Angelina Jolie, è la giovane madre, single, di Walter. Un giorno però, tornando a casa dal lavoro, scopre che Walter è scomparso. Passati 5 mesi la polizia le annuncia che Walter è stato ritrovato sano e salvo, ma una volta di fronte al bambino, Christine si accorge che non è suo figlio. Ciò nonostante, la polizia di Los Angeles, farà di tutto per screditare le affermazioni della donna. Un film che fa scuola: elegante, misurato, comunicativo, intenso e coinvolgente. Immancabile nella vostra lista di film da vedere. Altro film proiettato Delta, dell’ungherese Kornél Mundroczò. Il regista crea un film interessante per la struttura formale e visiva, ma assolutamente di maniera per via di una trama ridotta, volutamente, all’osso. Avete tenuto i conti? Siamo all’ottavo giorno, segnato tra l’altro da La mujer sin cabeza, nuova fatica della regista argentina Lucrecia Martel. Siamo innanzi ad un film un po’ presuntuosetto, dal ritmo lento e dallo script noioso; protagonista è Veronica, una donna che in seguito ad un incidente stradale sembra aver perso la memoria. Tutto ruota su questo assunto e dunque sulla ricostruzione dei fatti precedenti l’evento stesso. Se la Martel puntava sull’effetto “vi faccio provare esattamente cosa prova la protagonista”, il risultato è solo quello di infastidire con un cinema para-autoriale. Nella sezione Un Certain Regard è stato il turno del messicano Los bastardos, diretto da Amat Escalante. Protagonisti due immigrati messicani a Los Angeles che, come molti loro connazionali, aspettano ogni giorno che qualcuno gli offra un lavoretto. L’offerta di lavoro arriva ma si tratta di un omicidio su commissione. Peccato davvero, nonostante le premesse, almeno quelle su carta, il film non riesce a convincere pienamente, forse per via delle ambizioni del regista, E tutto il resto è silenzio.Le tre scimmie
E’ stato presentato fuori concorso Surveillance, secondo film di Jennifer Lynch, che torna alla regia a quindici anni dall’esordio (Boxing Helena) con un thriller nel quale due agenti dell’ FBI (Bill Pullman e Julia Ormond) arrivano in una piccola stazione di polizia della provincia statunitense per interrogare tre sopravvissuti ad una strage compiuta da una coppia di serial killer. Inzuppato di atmosfere bizzarre (un po’ “alla” suo padre David), Jennifer non sembra aver ancora messo a frutto il potenziale talento, e rimane quindi nel limbo dell’ibrido filmetto senza capo e dunque senza coda. Passiamo ora alla nona giornata del Festival, che si preannuncia faticosa data la proiezione di Che (film di Soderbergh interamente dedicato a Ernesto Guevara) che dura la bellezza di 4 ore e mezza circa! Ironia della sorte, il sole che tanto si è fatto desiderare ha deciso di graziarci con i suoi raggi…l’idea di chiudermi in sala tutto quel tempo proprio non mi allettava, ma, “s’ha da fare” (nell’ipotesi del polpettone sarebbe scattato il piano B, spiaggia). Il piano B (forse con un po’ di amaro in bocca!) non è scattato, merito di un film davvero emozionante, un film meritevole, fluido, penetrante, e soprattutto di un Benicio del Toro impressionantemente bravo (ma questo già si sapeva). La prima parte del film (L’argentino) è incentrata sulla rivoluzione cubana, e sulle marce in Sierra del Che e di Fidel; la seconda parte (Guerrilla) racconta del movimento rivoluzionario armato che Guevara tentò di far crescere in Bolivia. Nella prima parte del film, vediamo questo ragazzo, Ernesto, che da medico idealista impara a diventare combattente e comandante; nella seconda parte, questo ragazzo è cresciuto diventando un Che combattivo. La regia si affida completamente alla performance di Benicio del Toro. Alla fine sono 4 ore e mezza ben spese (ah, durante la proiezione il festival ha fornito a tutti i giornalisti in sala, un sacchettino di carta con scritto CHE, con dentro un piccolo pasto, panino, acqua e Kit-kat!). Si tratta indubbiamente di un’ottima pellicola che spero andiate a vedere…magari in lingua originale (per l’intensità di Del Toro e per verosimiglianza). E’ stato poi il turno de La Frontière de l’aube, diretto da Philippe Garrel, e presentato in concorso. Protagonista, come sempre, il figlio del regista, Louis, nei panni di François, un giovane fotografo che ha una relazione con Carole, un’attrice coetanea. La ragazza è però instabile emotivamente e psicologicamente, e ciò la porterà al suicidio. Ad un anno di distanza vediamo François con una nuova ragazza, incinta, e suo prossima sposa. Ma François inizierà ad essere tormentato da visioni della ex defunta che gli chiede di suicidarsi per riunirsi al lei. E’ l’amore, come già abbiamo visto, a tener campo, circondato qui da una allure molto Nouvelle Vague, d’altronde il regista è francese. Arrivo al punto, il film non funziona e non convince e, per inefficacia, ricorda un po’ Ovunque sei di Michele Placido. Attesissimo poi, il nuovo film di Atom Egoyan, Adoration. Non male, ma ci si aspettava di più. Andiamo a nord, invece, con il film del regista norvegese Bent Hamer (a Cannes per la quarta volta), O’Horten (contrazione di Odd Horten, nome del protagonista) incentrato su un uomo che dopo una vita trascorsa nelle ferrovie di stato norvegesi va in pensione, ma dalla vigilia del giorno in cui smetterà di lavorare, Odd si imbatte in una serie di situazioni surreali. Divertente e scanzonata, la pellicola è la conferma del talento di Hamer. Da vedere. Attesissimo sulla Croisette Sorrentino, con il suo Il Divo. Presentato in Concorso, il film come ormai sapete ha per protagonista un Giulio Andreotti, ripreso nel periodo che va dai primi anni Novanta all’inizio del processo per mafia. Bravo Toni Servillo, il suo Andreotti è un politico dilaniato dal dubbio e un uomo mediamente colto salvato dall’innata arte della dialettica. In tutta sincerità mi aspettavo un film diverso. L’inizio “videoclippato”, il ritmo sostenuto, facevano davvero ben sperare… poi chissà per quale ragione Sorrentino si va ad impantanare nei meandri della retorica e non ne esce più, eccezion fatta per qualche boccata d’aria offerta da alcune esilaranti battute, messe -par proprio- per dare un sferzatina al tutto. Non discuto i meriti registici, intenti para politico o altro, quelli, se vogliamo, ci sono. Il punto è che all’inizio sembrava proprio un film “americano”, di quelli riusciti, musica e dunque colonna sonora azzeccata, inquadrature toste e tutto il resto; poi, di tutto questo si perde inesorabilmente traccia. Passiamo a Charlie Kaufman (fisicamente un ometto arruffato e alto mezza mela e non più), sceneggiatore e regista, che ha portato in concorso Synecdoche, New York. La storia è quella di Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman), un depresso regista teatrale in crisi coniugale, che sta per partire alla volta di Berlino per una mostra, con tanto di figlioletta al seguito. Accadrà però che Caden decida di lavorare ad un’opera teatrale “titanica”, ricostruendo, in un gigantesco magazzino, la città di New York e mettendo in scena la vita sua e di tutti quelli che conosce. Sarà l’inizio di un’impresa surreale e titanica, di durata decennale. I temi cari a Kaufman ci sono tutti e proprio per questo si rischia l’overdose. Passiamo a Tulpan che è invece un film kazako diretto dall’esordiente Sergey Dvortsevoy, che porta al festival un tocco di cinema autoriale fortemente etnico, impregnato di panorami (mozzafiato) e storie di quotidiana amministrazione. Protagonista Asa, un giovane ragazzo che dopo il servizio militare in marina, torna a vivere con la famiglia dedita alla pastorizia nomade nella steppa. Il sogno di Asa è quello di dare inizio ad una nuova fase della sua vita e di crearsi la sua fattoria nelle terre dove è nato: l’unico modo per ottenere questo risultato è sposare Tulpan, la figlia di un’altra famiglia di pastori. Carino.
Finalmente ci siamo, il festival è agli sgoccioli. In ossequio al detto “gli ultimi saranno i primi”, ecco giungere sulla Croisette il film vincitore della Palma d’oro: Entre le murs di Cantet. Il film mira, spara e colpisce appieno. Tratto da un romanzo semi-autobiografico di François Bégaudeau (co-sceneggiatore e protagonista), il film di Cantet segue un anno scolastico di un insegnante di francese che lavora in una scuola alla periferia di Parigi, illustra difficoltà e soddisfazioni dell’essere un docente nonché quelle insite nel creare un dialogo, e quindi nell’interagire con 14enni inquieti e difficili. Si parla di scuola, dunque, ma con freschezza, senza retorica. Si parla di giovani senza utilizzare nessun topos. Si parla di vita vissuta. Si vedono le due facce della scuola: l’insegnante (in questo caso è uno di quegli insegnanti che tutti avremmo voluto incontrare) e gli studenti (tutti attori non professionisti). Ottima scelta, un applauso alla giuria di Mr Penn.
Per chiudere un pizzico d’Italia in mano a Wim Wenders. Parlo di Palermo Shooting. Ecco la storia. Dusseldorf: Finn, fotografo supponente nel lavoro quanto nel privato, evita miracolosamente un incidente stradale potenzialmente mortale. Giunge allora per lui l’immancabile fase “rivedo la mia vita, i valori…”, inizia ad incontrare personaggi sui generis che lo stordiscono con discorsi esistenziali, e lui, come una sorta di santone new age ha delle visioni: lo spirito di Lou Reed . Scosso da tutto ciò, ed avendo visto una nave da carico dal nome Palermo, Finn parte per Palermo per realizzare uno shooting fotografico promesso a Milla Jovovich (incinta all’ottavo mese). A lavoro terminato però, tutti rientrano in patria, tranne Finn, che si metterà a girovagare per la città perseguitato da una sorta di Jedi (per via del mantello con cappuccio) e s’imbatterà in una pittrice (Giovanna Mezzogiorno). Voleva essere un omaggio a Bergman e Antonioni, ma Palermo Shooting riesce solo in parte. Sempre in concorso un piccolo cenno a My Magic, quarto lavoro di Eric Khoo. In sostanza si tratta di una regia intellettualoide a servizio di una messa in scena insapore. Ci risiamo, peccato di vanità. Fuori concorso da segnalare anche il divertente Kung- fu Panda, cartoon Made in DreamWorks, che dopo Shrek cerca di far breccia nel cuore di grandi e piccoli con le (dis)avventure (sono previsti 6 episodi) di Po. Chi è Po? E’ il panda protagonista della vicenda, che ha la voce e il “corpo” del californiano Jack Black (39 anni). Ma ecco la storia: Po, panda paffuto, buffo e famelico, lavora come cameriere nel ristorante del padre ma sogna di diventare un guerriero di kung-fu. Un giorno, in seguito a una profezia che lo indica come l'eletto guerriero Dragon, viene accolto nella scuola del maestro Shifu (Dustin Hoffman), riuscendo così ad incontrare i suoi idoli, i Furious Five. Ma il vendicativo leopardo delle nevi Tai Lung è sulla sue tracce. Nella sezione speciale, vanno segnalati, il nostro bel SanguePazzo di Marco Tullio Giordana (da noi il film è già uscito) mentre il documentario dedicato a Roman Polanski: Wanted And Desired di Marina Zenovich ha il solo scopo di mettere al corrente lo spettatore sulle “porcherie” fatte dal regista, mentre Chalsea on the Rocks di Abel Ferrara può anche non esser visto. E fanno 12 giorni di festival. Dodici giorni fatti di film. Dodici giorni very irrésistible, ricchi di eventi collaterali, risate tra colleghi, lunghe code per entrare in sala, aneddoti da raccontare, incontri e scontri VIP casuali. Insomma, “cose da Cannes”!

FESTIVAL DI CANNES 2008 - TUTTI I PREMI DELLA SELEZIONE UFFICIALE

Palma d'Oro per il miglior Film: Entre les murs di Laurent Cantet
Gran Premio della Giuria: Gomorra di Matteo Garrone
Premio Speciale per il 61esimo: Clint Eastwood per The Exchange e Catherine Deneuve per Un conte de Noel
Premio alla Regia: Üç Maymun di Nuri Bilge Ceylan
Premio alla Sceneggiatura: Le silence de Lorna di Jean-Pierre Dardenne e Luc Dardenne
Premio per l'Interpretazione Femminile: Sandra Corveloni per Linha de Passe di Walter Salles, Daniela Thomas
Premio per l'Interpretazione Maschile: Benicio Del Toro per Che di Steven Soderbergh
Premio della Giuria: Il Divo di Paolo Sorrentino
Palma d'Oro per il miglior Cortometraggio: Megatron di Marian Crisan
Menzione speciale - Cortometraggio: Jerrycan di Julius Avery
Camera d'Or per la miglior Opera Prima: Hunger di Steeve McQueen
Menzione speciale Camera d'Or: Ils mourront tous sauf moi di Valeria Gaï Guermanika

PREMI DI UN CERTAIN REGARD

Gran Premio “Un certain Regard”
Tulpan di Sergey Dvortsevoy
Premio della Giuria
Tokyo Sonata di Kiyoshi Kurosawa
Coup de Cœur della Giuria
Wolke 9 di Andreas Dresen
K.O di “Un certain regard”
Tyson di James Toback
Prix de l’Espoir (miglior promessa)
Johnny Mad Dog di Jean Stéphane Sauvaire

La Federazione Internazionale dei Critici Cinematografici ha reso noti i film ai quali assegnare i premi FIPRESCI:

Delta di Kornel Mondruczo per la Selezione Ufficiale in Concorso Video
Hunger di Steve McQueen per la Selezione Ufficiale “Un certain regard”
Eldorado di Bouli Lanners per Quinzaine des Réalisateurs
Gran Premio della Semaine de la Critique: Snow di Aida Begic

 

 


 
 
 
 
 

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