Dalla 65° Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia: What do you Think we Are Playing at?

 

E’ stata questa la prima cosa che mi sono detta quando, all’alba del Ferragosto, con la mente (e lo stomaco) ancora ottenebrata dalla vacanza africana, mi sono resa conto che il programma di questa 65ma Mostra di Arte Cinematografica era da brividi (di paura, non di stupore): “Ma a che gioco giochiamo?”. Quello del ribasso? Quello del pietismo? Oppure è solo uno scherzo?
Sarebbe il caso di dire “dalle stelle alle stalle”. Già, perché alla luce della ricca edizione dello scorso anno, questa mostra targata 2008 non è che un misero fantasma, un ectoplasma senza logica, mordente, stile, carisma, insomma, senza personalità.

Tutto quel poco che poteva attrarre pubblico, critica e media, è stato sapientemente posto a inizio, metà e fine festival, seguendo lo schema televisivo di Sanremo, per cui se c’è un ospite, generalmente internazionale, in una serata che va dalle 21.00 all’01.00 di notte, questo si esibisce alle 24.30 nella bieca speranza di tener incollati quanti più spettatori possibili. Ecco Venezia 2008. Mutatis mutandis una serata sanremese spalmata su undici, infelici, giorni. Sì dice Festival di Venezia, rimandando l’immaginario collettivo al fascino della città lagunare, ma sarebbe più corretto dire il Festival del Lido, o il Festival di Alcatraz, visto che per tutti gli addetti ai lavori è un luogo ostile, difficile da raggiungere (era l’intento storico), vivere, amare, e impossibile da lasciare (se non altro per il costo dei “bus” acquatici!). Incominciamo con il dire che un accredito stampa costa 50 euro a fronte dei quali non viene dato nulla se non una busta di plastica (letteralmente un sacchettino da spesa o da spazzatura), e un piccolo, sparuto, innocente programma -che si può trovare ovunque- e naturalmente il badge! Non c’è ombra di catalogo/cataloghi dei film in concorso, ma se uno muore dalla voglia di averlo, può averlo…pagando.
Nella struttura del casinò -il quartier generale dei giornalisti- un edificio di architettura fascista dal rigore e “non colore” infastidente, non c’è nulla di coccoloso; non ci sono punti ove ristorarsi con un bel caffè o una cioccolata…insomma, non ci sono benefit. Cannes con tutti i suoi agi è un miraggio lontano. Qui, se vuoi sopravvivere, devi chiuderti in sala dal mattino alla sera, sperando di essere troppo stanco perché ti venga fame e sperando che i film consentano un ordinato ritmo sonno-veglia. La fame. Questo è un tasto dolente, perché se ti viene fame, o sete, o qualche altra voglia…allora sono tutti fatti tuoi, o del portafoglio. Tutto è caro, anzi carissimo, e anche se tutto sommato te lo puoi permettere -per cui chiudi volentieri un occhio- la voglia di dare inizio ad uno sciopero della fame e della sete è forte. Peccato che ne pagheresti le conseguenze solo tu, diventando a fine kermesse, soltanto un fantasma di te stesso! Nessuno sconto, nessuna convenzione, nessun occhio di riguardo per chi è costretto a star lì per 11 giorni di lavoro (non diletto) condividendo, per necessità economiche, un appartamento con minimo altre 4 persone perché da solo costerebbe dai 2500 ai 3000 euro! Ma allora perché uno va a Venezia? Non lo so. Sarebbe normale rispondere: “ Per i film. (Nel mio caso) aggiungerei anche: per intervistare attori e registi”. Peccato che quest’anno i film fossero filmetti, gli attori desaparecidos e gli eventi collaterali off limits! A meno che uno non sia un bozzolo di vippaiolo in cerca di notorietà futile, abile nel sfruttare l’amicizia di uno molto simile a lui, solo un po’ più noto, che con un solo invito ha il potere di far entrare 10 persone (all’evento Valentino, per entrare, anziché un intenso carteggiò via e-mail, mi sarebbe bastato intrufolarmi nel vasto parterre televisivo che non ha nulla a che fare con il cinema!).
Rachel Getting MarriedMa non divaghiamo, il punto è sempre quello: perché si va a Venezia? La prima cosa che mi viene in mente è che uno va perché deve andare, è il tuo lavoro e sei tenuto a fare qualsiasi sacrificio! Allora, uno mi deve spiegare che razza di lavoro può saltar fuori quando non c’è quasi nulla di cui scrivere, se non critiche (in entrambi i sensi)! Forse si va perché si spera (un po’ come capita nella vita di tutti i giorni se si appartiene alla specie “porgi l’altra guancia”) che questa volta …sia diverso.
Mi arrendo. Quest’anno -a parte l’esser stata lontana da casa per 10 giorni, essere tornata dalla vacanza in fretta e furia per poggiare la valigia con i costumi e prendere quella con gli abiti (Venezia è iniziata il 27 agosto), aver speso una bella cifretta tra treno, cibo, casa, e taxi “acquatici” - Venezia poteva risolversi in un concentrato di tre, massimo quattro giorni, e saremmo stati tutti felici e contenti, Anzi, ecco una proposta a “Chisappiamonoi”( Marco Müller & Co): perché, quando in giro c’è aria di crisi, non pensiamo ad una Venezia concentrata e ristretta e quindi esplosiva? (Anziché proporre una brodaglia allungata e insipida che fa alzare il dito contro chi, magari, non ha colpa (vedi Marco Müller & Co.)?
Più vado avanti, più cresco, più mi rendo conto che la risposta è solo una: Italia. A questo proposito va anche notato che i giornalisti presenti erano per la maggior parte italiani; gli stranieri, boicottano Venezia esattamente come fanno i loro attori!
Allora è stato davvero così terribile? Assolutamente sì. Compresa l’intelligente trovata di mettere una proiezione alla 8.30 del mattino per i daily (pass rosso) al fine di consentire, a tutti gli altri accreditati, un agevole accesso alla proiezione successiva. Trovata intelligente, molto intelligente. Peccato però che non abbia funzionato. Almeno non del tutto. Piccola premessa: i pass, come negli altri Festival, sono divisi per colori a seconda della periodicità della testata e, secondo vari e discutibili criteri, dell’importanza della stessa. Il pass più “potente” è quello rosso, dei daily, riservato a chi scrive per un quotidiano ed ha dunque la necessità di vedere il film per poterne scrivere in tempo utile, da cui deriva la sua assoluta priorità. Detto questo, la trovata di cui sopra avrebbe del geniale, vero? Peccato che…essendo in Italia, molti daily preferivano prendersela comoda invece di alzare il derrière al mattino presto! Conseguenza di tale indolenza, facilitata dalla prospettiva di una più comoda proiezione alle 11 o a mezzogiorno (in cui i daily hanno comunque la priorità su tutti nonostante non sia la loro specifica proiezione!), è stata lasciare fuori qualcuno! Ma sì, chi se ne frega! Italian Style docet!
A parte questo, per cosa potremmo ricordare questa edizione 2008? Perché c’è stata una spolverata di Hollywood? Meglio lasciar perdere. Lo scorso anno sembrava di essere a Los Angeles…quest’anno calma piatta. Ma come è possibile che un Festival faccia a meno della sua linfa vitale, della mondanità , dei nomi e dei volti che diciamolo, sono le sole cose in grado di tenere alta l’attenzione su una Mostra sottotono. I rumors pagano più della critica e delle recensioni. I giornali mandano i loro inviati a Venezia per scrivere di “colore” e non per fare i tristi eruditi! (Se non mi credete recuperate qualche quotidiano del periodo 27 agosto-7 settembre). L’America e i suoi compari film e protagonisti sono essenziali. Servono. Fanno evento, fanno festival, fanno cinema. E farebbero sopravvivere Venezia.
Ma quest’anno non c’era proprio modo di scamparla. Non ce l’ha fatta la coppia Brad-George, icone di Hollywood che insieme ai fratelli Coen hanno presentato Burn After Reading (d’altra parte cosa si poteva pretendere. Si mette l’unico film da urlo all’inizio, sperando di far partire la Mostra con il botto…ma ci si dimentica di mettere lo spumante nella bottiglia!). Ha portato un po’ di vita Charlize Theron, il cui film The Burning Plain è stato strategicamente posto a tre giorni di distanza da Pitt e socio. Anche Charlize, che da sola ha riempieto due giorni (uno di attesa giocato sul verrà e uno effettivo giocato sul c’è) come poteva monopolizzare di più l’attenzione, quando in mancanza di altro si ci è interrogati persino su quanti tatuaggi avesse effettivamente? Non c’è riuscita Anne Hathaway, strepitosa in Rachel Getting Married, e non c’è riuscito nemmeno Mickey Rourke (da Oscar in The Wrestler) che, anche lui, tra attesa e arrivo ha fatto notizia per due giorni…peccato che il film sia passato il penultimo giorno! D'altronde come si poteva chiedere a tre star di tener su dieci giorni di Mostra?. Giusto per stuzzicare, a intervallare questi picchi di “movimento” sono state poste con rigore matematico due cartoon, entrambi incantevoli: The Sky Crawlers e il zuccheroso Miyazaki con Ponyo on the Cliff by the Sea. A questo proposito un grazie va a Miyazaki, per averci ricordato che esistono le favole, che bisogna credere nei sogni e nelle cose belle (e qui parte il violino!). Banalizziamo e andiamo al sodo; i film belli? The Wrestler, Rachel Getting Married, The Burning Plain, e il bellissimo di Hurt Locker, diretto dalla efficace Kathryn Bigelow (in assoluto quello che ho amato di più, accanto naturalmente a Miyazaki).
Domanda legittima: “ Ma come, non c’erano svariati film italiani?”. Risposta “Sì, c’erano. Ma se non ci fossero stati sarebbe stato lo stesso”. Un applauso meritatissimo va però ad un italiano oltremodo coraggioso: Silvio Orlando. Beh, ci vuole del coraggio a soffiare il premio davanti a Mr Rourke, per giunta dato per favorito! Scherzi a parte, Silvio è davvero eccezionale, per lui è arrivata una coppa Volpi come miglior attore meritatissima. Peccato abbia trovato sul suo cammino un collega altrettanto eccezionale che avrebbe potuto offuscarlo (Rourke) il cui film, The Wrestler ha però vinto un premio (miglior film). E’ andata un po’ meno bene per il premio come miglior attrice, andato a Dominique Blanc per L'autre, ma che tranquillamente poteva andare a Anne Hathaway (strepitosa) o a Charlize Theron (qui più accademica) o perché no, Kim Basinger, anche lei presente nel film della Theron, ma non presente a Venezia (pare perché troppo timida).
Iniziamo adesso la nostra consueta panoramica sui film presenti.
Burn After ReadingCome ho già detto il Festival ha puntato su un esordio da Urlo, accaparrandosi Burn After Reading, ultimo film dei fratelli Coen, per l’apertura della sezione Fuori concorso. Una storia esilarante, un cast di tutto “richiamo”: Clooney, Pitt e Malkovich. Siamo sempre di fronte a personaggi bizzarri sull’orlo del surreale, calati in una storia al limite dell’inverosimile. Si tratta di una satira sull’intelligence inframmezzata da parentesi amorose. Ritmo serrato, per una commedia divertente, capace -forse questa volta in maniera meno efficace rispetto allo standard Coen- di colorare il tutto di un tocco grottesco. E’ poi stato il turno di The Burning Plain, esordio alla regia dello sceneggiatore di Inarritu e di Le tre sepolture Guillermo Arriaga. Tre storie si incrociano e si intersecano rincorrendosi temporalmente. Qui si soffre. Si parla di sofferenza fisica, esemplificata da cicatrici, e di sofferenza emotiva, invisibile agli occhi ma ben presente nell’anima. Protagonista assoluta, accanto ad una straordinaria Kim Basinger, Charlize Theron, una donna dal passato tormentato, soprattutto a causa del rapporto con la madre (Kim Basinger). Mi fermo qui . Qualsiasi dettaglio aggiungessi sottrarrebbe pathos all’intera visione. The Burning Plain è un puzzle a tratti difficile da seguire, affidato alla brava Charlize. E già, talvolta i bravi attori hanno la dote di rendere un film, altrimenti mediocre, memorabile. Passiamo ora a Vinyan, del belga Fabrice du Welz (quello dell' horror Calvaire). La storia è quella di una coppia che ha perso il figlio durante lo spaventoso tsunami del 2004 e che sono rimasti in Thailandia, covando la speranza che il bambino non sia morto ma rapito da trafficanti di esseri umani. Al centro della vicenda i due protagonisti, Emmanuelle Béart e Rufus Sewell che, convinti di aver riconosciuto il figlio in un video, partono per un viaggio clandestino lungo le coste della Birmania per riportare il bambino a casa...basta questo per dire che siamo innanzi ad un lavoro ben condotto, misurato, seppur parzialmente ambizioso ma che mostra chiaramente le doti registiche di Du Welz. E’ ora il turno, anche in senso cronologico, di Plastic City firmato da Yu Lik-wai (Love Will Tear Us Apart). Ambientato in Brasile e interpretato da stelle di Hong Kong come Anthony Wong e giapponesi come Joe Odahiro. In due parole: un film bizzarro retto su un ritmo altalenante fatto di scivoloni e di risalite inaspettate. Passiamo a L'Autre, pellicola diretta da Patrick Mario Bernard e da Pierre Trividic, film particolare per la forma, prettamente sterile, nella quale si inseriscono i vari personaggi, nel merito una donna (Dominique Blanc) tanto ossessionata da un’altra donna, da diventare “un’altra”, come indica il titolo. Forse un po’ troppo pretenzioso, comunque interessante nel piatto panorama festivaliero. Ma non montiamoci la testa, come recita il detto “What Goes Up Must Come Down” ecco che il Festival riprende la via in discesa, lo fa purtroppo con un film nostrano. Aria di Italia, aria di Pupi Avati, aria “fritta”. Potremmo imputarlo alla stanchezza (siamo al giro di boa, è il quinto giorno del Festival), ma interpreti a parte (davvero bravo Silvio Orlando, un po’ troppo caricaturale la Rohrwacher), Il papà di Giovanna non riesce a convicer(mi) pienamente. Credo sia stato sopravvalutato, (de)merito di una selezione davvero scialba. Del film, ineccepibile dal punto di vista formale (sceneggiatura, interpretazioni, personaggi), infastidisce il suo essere “un film di Avati”, un film in tutto e per tutto uguale agli altri lavori del regista. Un film che sa di muffa. Non se ne può davvero più di storielle da libro Cuore. Possibile che un regista dotato come Avati tema così tanto discostarsi dal solito cliché? Mi duole ripetermi, ma anche in questo caso, parte del merito del successo riscosso dal film è merito degli attori. Il papà di GiovannaMa anche loro, caro Pupi, possono tanto, ma non il miracolo. Dalle stalle alle stelle, anzi, ai fondali marini, con il favoloso Ponyo on the Cliff by the Sea dell’altrettanto favoloso Hayao Miyazaki. Come si sta bene dopo esser entrati nel suo mondo! L’ansia e le preoccupazioni svaniscono e tutto diventa davvero più dolce. Il suo è un mondo di fiabe affascinanti, in grado di parlare a tutti, grandi e piccini. La location questa volta è il mare, che fa da sfondo ad un racconto ricco di tutte quelle suggestioni e tematiche tanto care al regista nipponico, come la natura, la magia, gli esseri viventi. Il suo segreto? La semplicità. Una semplicità che appartiene ai bambini, come quella delle favole, appunto. Da una favola ad un incubo, quello che vivono i protagonisti di Vegas: Based on a True Story di Amir Naderi. Iraniano ma americano d’adozione, Naderi ha all’attivo cinque film americani. Mente veloce e scattante, così come la regia che lo porta a trattare una storia drammatica come fosse una commedia. Un difetto? Forse un po’ troppo lunghetto. Per il resto, perfetto. Accantoniamo per un poco tutto ciò che è drammatico, e tuffiamoci nel microcosmo folle e visionario di $e11 Ou7!, vero e proprio fiore all’occhiello di questa Mostra, presentato, come c’era da aspettarsi, nella Settimana della critica. Arriviamo al dunque: è un musical malese declinato in varie sfumature che per due ore diverte e trascina in un mondo bizzarro capace, udite udite, di far ridere (risate vere, da divertimento) una gremita platea di giornalisti ottenebrati da una lunga giornata lavorativa (il film è passato alle undici di sera). Un applauso dunque al suo regista, che ha sì diretto, ma anche prodotto, scritto e montato la pellicola. Signore e Signori: Yeo Joon Han. La storia, troppo intricata per esser snocciolata con nonchalance, è intervallata da siparietti musicati e cantati. Se questo è il risultato della commistione tra musical e fiction, ben venga! Compresa la splendida colonna sonora, le cui canzoni sono cantate dagli attori, e dopo la visione, anche dagli spettatori! Assolutamente da vedere…se qualcuno lo distribuirà in Italia. Da un musicale leggero ad una storia seria. Si tratta de La terra degli uomini rossi – Birdwatcher di Marco Bechis, meritevole di aver risollevato le sorti festivaliere del cinema italiano con una pellicola originale nella forma e nei contenuti.
Passiamo ora ad un cartoon presentato in Concorso, The Sky Crawlers, opera di uno dei grandi maestri dell’animazione nipponica, Mamoru Oshii, il cui cinema unisce abilmente la spettacolarità della tecnica ai contenuti profondi che sottendono la storia. E a proposito di storia, qui si parla di un gruppo di piloti/eterni ragazzi, i Kildren che si muovono all’interno di un mondo surreale, in cui compagnie militari private arruolano piloti da caccia per combattere una guerra-gioco ma con esiti mortali, come fosse un vero e proprio reality show. I Kildren sono quindi dei piloti che non invecchiano mai, programmati per volare e modificati geneticamente per non diventare mai adulti…fino al giorno in cui periranno in questo fantomatico gioco mortale. Tratto dalla graphic novel di Hiroshi Moro, The Sky Crawlers più che sulle imponenti scene di combattimento aereo alla Top Gun, trova ragione d’essere nel cuore narrativo ed emotivo dello script, nell’inquietudine che pervade questi sempre-giovani. Anche in questo caso speriamo il cartoon venga distribuito anche in Italia. Sempre in argomento di inquietudini esistenziali, parliamo ora del riuscito film di Jonathan Demme (The Agronomist, Jimmy Carter Man from Plains, The Manchurian Candidate), che ha presentato in concorso Rachel Getting Married, interpretato magistralmente da Anne Hathaway (vedere per credere). Anne veste i panni di una giovane ex modella in continua lotta con la polvere bianca che, reduce da una disintossicazione, fa ritorno a casa in occasione del matrimonio della sorella. Un ritorno però doloroso. Si tratta di un dramma familiare privo però di retorica e clichè. Demme gioca per sottrazione, anche l’uso della macchina da presa è essenziale (a mano, come fosse un video amatoriale), eternamente alla ricerca della verità negli sguardi degli attori e nel contesto della vicenda. Immerso nella musica che a tratti stordisce (per dimenticare e allontanare la sofferenza) e nei colori (strizzano l’occhio all’India), Rachel Getting Married è davvero un ottimo film. Da vedere.
The Hurt LockerAssolutamente da vedere è anche The Hurt Locker, pellicola su sfondo bellico della ineguagliabile Kathryn Bigelow. La storia è quella di un gruppo di artificieri dell’esercito americano di stanza a Baghdad che ogni giorno rischiano la vita disinnescando gli ordigni disseminati dai guerriglieri per le strade della capitale. Certo, si parla di guerra, di Iraq, ma non è un film di guerra. E’ piuttosto un film di emozioni, di stati d’animo, di reazioni emotive, di psicologie, quelle dei protagonisti, soldati volontari alle prese con la sopravvivenza. Lo stile è adrenalinico, energico, virile, tecnicamente interessante. Da segnalare i tre giovani protagonisti, di indubbio talento, tra cui spicca un intenso e aggressivo Jeremy Renner. Da un uomo ad un altro uomo: Mickey Rourke, splendido interprete di The Wrestler firmato da Aronofsky. Rourke è Randy, un wrestler un tempo famoso, la cui vita si trascina da un incontro all’altro sino al momento in cui, durante un sanguinolento match, rischia di perdere la vita. E’ allora che i medici lo pongono di fronte alla realtà: se continuerà a combattere morirà. Randy prova perciò a diventare un uomo come tanti, con una vita normale, con un quasi legame con una spogliarellista (Marisa Tomei) e con un rapporto quasi inesistente con la figlia (Evan Rachel Wood). Ma si trova ad essere prigioniero di una vita e di un mondo che non gli appartengono. Davvero una magnifico film, convincente, intelligente, asciutto. Straordinaria l’interpretazione di Rourke. Per chiudere qualche veloce segnalazione: iniziamo con Teza, di Halile Gerima. Etiopia, 1990, Anberber è un medico che, dopo aver completato gli studi universitari in Germania degli anni Settanta, ritorna nella natia Etiopia mutilato nel fisico e nell’anima. Spera di esser utile al suo paese grazie alle sue capacità e le conoscenze acquisite, ma presto farà i conti con una realtà che non riconosce come sua e soprattutto con il repressivo regime marxista di Haile Mariam Mengistu, che ha dissolto lo spirito della sua gente. Un film ricco di immagini e suggestioni di rara bellezza. Qualcosa di più leggero? Eccovi serviti, è Pranzo di Ferragosto, di Gianni Di Gregorio. Un vero è proprio caso che si è imposto anche al botteghino. Al centro della vicenda troviamo Gianni, un uomo di mezza età, figlio unico di madre vedova, che vive con sua madre in una vecchia casa nel centro di Roma. Tiranneggiato da lei, Gianni passa le giornate tra la casa e l’osteria. Il pranzo di ferragostoIl giorno prima di Ferragosto l’amministratore del condominio gli propone di tenere in casa la propria mamma per i due giorni di vacanza. In cambio gli scalerà i debiti accumulati in anni sulle spese condominiali. Gianni è costretto ad accettare. A tradimento, l’amministratore si presenta con due signore, una delle quali è la zia che non sa dove collocare. Gianni, travolto e annichilito dallo scontro cerca in tutti i modi di farle contente. Accusa un malore e chiama un amico medico che lo tranquillizza ma, implacabile, gli lascia la sua vecchia madre perché è di turno in ospedale. Gianni passa ventiquattro’ore d’inferno. Quando arriva il sospirato momento del congedo però le signore cambiano le carte in tavola. Successo meritato, per l’astuzia, l’intelligenza e per il coraggio. In pochi avrebbero portato sullo schermo una storia di “vecchiette”. Chiudiamo con un cenno ad un altro film italiano, Il seme della discordia, diretto da Pappi Corsicato. Ispirato alla novella La marchesa Von O. Corsicato confeziona una commedia scaltra, leggera e graffiante, che ha portato un po’ di buon umore e scompigliata irriverenza anche in questa grigia e umida laguna.

 

I PREMI DEL FESTIVAL DI VENEZIA 2008

Leone d'Oro miglior film: The Wrestler di Darren Aronofsky

Leone d'Argento miglior Regia: Aleksey German jr. per Paper Soldier

Premio Speciale della Giuria: Teza di Halile Gerima

Leone del Futuro, Premio Luigi De Laurentiis per un'Opera Prima: Pranzo di Ferragosto di Gianni di Gregorio

Leone Speciale per l'insieme dell'opera: Werner Schroeter (Nuit de chien)

Coppa Volpi migliore attore: Silvio Orlando per Il papà di Giovanna

Coppa Volpi migliore attrice: Dominique Blanc per L'autre

Premio Marcello Mastroianni miglior attrice emergente: Jennifer Lawrence per The Burning Plain

Osella per la miglior sceneggiatura: Halile Gerima per Teza

Osella per la miglior fotografia: Paper Soldier di Aleksey German jr.

Gli altri Premi:

I Premi della sezione Orizzonti: La Giuria Orizzonti della 65. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, composta da Chantal Akerman (Presidente), Nicole Brenez, Barbara Cupisti, Jose Luis Guerin, Veiko Õunpuu, ha deliberato all’unanimità di assegnare i seguenti premi:
PREMIO ORIZZONTI: Melancholia di Lav DIAZ (Filippine)
PREMIO ORIZZONTI DOC: Below Sea Level di Gianfranco ROSI (Italia, Usa)
MENZIONE SPECIALE: Un Lac di Philippe GRANDRIEUX (Francia)
MENZIONE SPECIALE: Wo men (Noi) di HUANG Wenhai (Cina, Svizzera)

I Premi collaterali:
Pranzo di Ferragosto di Gianni di Gregorio ha vinto il Premio Francesco Pasinetti attribuito dai giornalisti cinematografici italiani al miglior film italiano della 65esima Mostra di Venezia. Il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani ha attribuito anche una menzione speciale a Pa-ra-da, esordio di Marco Pontecorvo nella sezione Orizzonti oltre ai premi come miglior attore protagonista Silvio Orlando per Il papà di Giovanna di Pupi Avati, miglior attrice Isabella Ferrari per Un giorno perfetto di Ferzan Ozpetek, entrambi in Concorso, il Sngci segnala con Birdwatchers - La terra degli uomini rossi di Marco Bechis, Thyssenkrupp Blues di Pietro Balla e Monica Repetto e La fabbrica dei tedeschi di Mimmo Calopresti, la forte aderenza alla cronaca italiana e la realtà internazionale, il dramma del lavoro e dello sfruttamento.

Il film francese L'Apprenti di Samuel Collardey ha vinto il premio della Settimana internazionale della Critica.

Premio FIPRESCI miglior film Venezia 65 a Gabbla (Inland) di Tariq Teguia, miglior film Orizzonti e Settimana Internazionale della Critica a Goodbye Solo di Ramin Bahrani
Premio FEDIC : Machan
Premio DOC/IT (premio documentaristi italiani): Below Sea Level
Leoncino d'Oro Agiscuola: Il papà di Giovanna
Segnalazione cinema per Unicef: Teza
Future Film Festival Digital Award: The Sky Crawlers

 

INTERVISTA A GIANNI DI GREGORIO
“Ecco il mio pranzo di Ferragosto!”
Come esordire alla regia a quasi sessant’anni.

Cosa le ha fornito lo spunto per il film?
La mia esperienza personale! Figlio unico di madre vedova, ho dovuto misurarmi per lunghi anni, da solo, (moglie e figlie si erano dileguate per istinto di sopravvivenza), con mia madre, personaggio di soverchiante personalità, circondato dal suo mondo. Ho conosciuto e amato la ricchezza, la vitalità e la potenza dell’universo dei “vecchi”. Ma ho anche visto la loro solitudine e vulnerabilità in un mondo che cammina a passo accelerato senza sapere dove va perché dimentica la sua storia, perde la continuità del tempo, teme la vecchiaia e la morte ignorando che nulla ha valore se non la qualità dei sentimenti. Nell’estate del 2000 realmente l’amministratore del condominio, sapendomi moroso, mi propose di tenere sua madre per le vacanze di ferragosto. In un sussulto di dignità rifiutai, ma da allora mi chiedevo spesso cosa sarebbe potuto succedere se avessi accettato. Questo è il risultato!

Come ha trovato le attrici?
Le interpreti sono quattro signore dagli 84 ai 91 anni, bellissime, che m'hanno proprio travolto durante le riprese…è andata così, dopo aver incontrato delle professioniste, ho scelto delle signore che non avevano mai recitato, prive di vizi formali, in base alla forza della loro personalità.

Com’è si è trovato sul set con delle “non professioniste”?
Durante le riprese mi hanno travolto, la storia cambiava in base ai loro umori ma l’apporto, in termini di spontaneità e verità, è stato determinante. Alcune riprese le ho addirittura rubate!

Come mai ha riservato per lei la parte del protagonista?
…perché in fase di preparazione, mentre spiegavo all’equipe che occorreva trovare un uomo di mezz’età, più o meno alcolizzato, che aveva vissuto per anni con la madre, tutti i visi si sono rivolti molto seriamente verso di me. Ho avuto il coraggio perché da ragazzo ho studiato regia ma anche recitazione… con Alessandro Fersen.


INTERVISTA A JONATHAN DEMME
Rachel Getting Married
La famiglia come l’America

“Mi è piaciuto raccontare la storia di questo gruppo familiare che si incontra e si scontra proprio perché rappresenta l’America a cui sono più vicino, l’America che amo. Il film non tratta di un matrimonio interrazziale a parte la provenienza e l'origine degli sposi, avrei potuto scegliere altri attori appartenenti alla stessa cultura e il senso della storia non sarebbe cambiato”. Così Jonathan Demme, parla del suo ultimo film, Rachel Getting Married, la cui sceneggiatura è firmata da Jenny Lumet (figlia di Sidney), e aggiunge: “La famiglia ritratta nel film cerca di trovare un modo per comunicare ed in sintesi è quello che stiamo cercando di fare noi nel nostro Paese”.

Parliamo di musica, così presente nel suo film…
Jonathan Demme"Mi piace dire che la musica ha un ruolo principe. La musica è incredibilmente importante. È anche una sorgente di piacere. E mettere della musica su delle immagini è la parte più piacevole, più intrigante, più rompicapo della messa in scena. Mi piace molto l'idea di un matrimonio tra Musica e Cinema, avevo sempre avuto l'idea di farlo prima o poi. E l'ho fatto in questo film, volevo che la musica venisse creata mentre noi giravamo. Sidney è un musicista, e così molti amici e parenti, e anche il padre della sposa è nel campo musicale. Quindi i primi casting sono stati fatti per cercare dei musicisti. Mi piaceva l'idea… e non mi aspettavo certo che venisse fuori uno spartito, solo della buona musica. Durante le prove i musicisti suonavano, anche durante i dialoghi ad esempio un violinista cominciava a suonare ciò che si sentiva, e questo ha dato stimoli interessanti sia alla produzione che agli attori”.

E dove ha trovato i musicisti?
"In Medio Oriente! Ho subito sentito che potevo fidarmi di loro, tra di noi c’era una grande intesa, sono stato fortunato a trovare dei musicisti con una vena creativa così sviluppata."

Anche la fotografia è particolarmente vibrante…
"Il mio direttore della fotografia ed io abbiamo cercato di amplificare l’approccio visivo, dando l’impressione che il film fosse stato girato in casa. E il risultato è stato eccezionale."

Lei è un documentarista, questo l’avrà senz’altro aiutata nel dare al film un taglio a metà strada tra documentario e fiction…
"Sì. La mia esperienza di documentarista è stata molto presente in questo film. Fin dagli anni '90 mi chiedevo fino a che punto fiction e documentario potessero mescolarsi, quando si fa un film si cerca di renderlo il più reale possibile, mentre in un documentario si trasporta sullo schermo la realtà. In questo film abbiamo cercato di aumentare l'approccio visivo come se stessimo facendo un film casalingo, per farlo sembrare vero, e far partecipare in maniera più forte gli spettatori. E come in un documentario non abbiamo fatto molte prove. È stato ripreso da ogni angolazione, tanto che nemmeno gli attori sapevano da quale parte fossero ripresi! Amo molto il genere dei film Dogma, per questo ho cercato di esser il più fedele possibile alla realtà, molto simile ad un documentario, riducendo ogni manipolazione e ogni velleità registica."

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