The Music Man: Buon 80° Compleanno, John Williams!

ColonneSonore.net celebra l'ottantesimo compleanno del grande compositore americano con una panoramica sulla sua lunga ed eclettica carriera cine-musicale.

John Williams

Nella vita di tutti i giorni non capita spesso di celebrare un genetliaco di questa entità senza risuonare palesemente nostalgici e anche un po' rassegnati. Come a voler dire “as time goes by...”, sospirando per i bei tempi andati e una vita ormai quasi totalmente alle proprie spalle. Tali omaggi rischiano così di trasformarsi in grotteschi ed impolverati musei in cui fare la conta di glorie passate e ricordi trascolorati, un po' come la villa di Norma Desmond in Viale del tramonto. Ebbene, festeggiando l'ottantesimo compleanno di John Williams ci si ritrova invece a fare i conti con qualcosa (anzi, qualcuno) di ancora estremamente vivace, appassionante e in costante evoluzione, capace di dimostrare che, soprattutto nel mondo delle Arti, la cosiddetta Terza Età può davvero essere sinonimo di una Nuova Giovinezza.
Il compositore N°1 del cinema hollywoodiano (ma non solo) da più di un trentennio ad oggi è quel che si dice – per usare una definizione logora – una vera e propria leggenda vivente. E' il nume tutelare della musica applicata nel cinema americano, punto di riferimento assoluto di schiere di compositori di colonne sonore statunitensi ed europei. E' il simbolo contemporaneo di ciò che è stato definito “The Hollywood Sound”, ovvero il musicista che ha saputo più e meglio di altri assorbire una tradizione e rinnovarla con impetuoso slancio creativo. Ed è ça va sans dire colui che ha dato voce ed anima musicale ai più grandi successi popolari del cinema americano degli ultimi quattro decenni. Sarebbe oltremodo sterile fare il solito lungo elenco dei vari blockbuster a cui Williams ha prestato le sue cure musicali. Perché celebrando gli 80 anni di colui che è probabilmente – insieme al nostro Ennio Morricone – l'ultimo vero Maestro dell'Ottava Arte, diventa necessario esplorare e fare un grande punto sull'opera di questo impareggiabile genio della musica contemporanea (la musica del nostro tempo nel senso olistico del termine) in modo meno superficiale e più trasversale ed approfondito.

E dunque parliamo di John Towner Williams, nel suo essere uomo di musica a tutto campo: compositore eclettico per il cinema, la televisione, ma anche autore di numerose espressive pagine per la sala da concerto; direttore d'orchestra di grande bravura interpretativa, soprattutto nel repertorio filmico e in quello che gli anglosassoni definiscono con eccesso di sintesi light classical; pianista di sopraffina tecnica e di straordinaria destrezza, in particolare per il jazz anni '40 e '50. Basterebbe questa stringatissima panoramica per capire che Williams non è soltanto il cantore delle guerre stellari, delle arche perdute, degli squali famelici, degli extraterrestri sperduti e dei maghetti occhialuti. Senza nulla togliere alla sua imprescindibile produzione cinematografica più celebre ed amata (fondamentale per studiare e capire a fondo la “poetica” di questo autore, come vedremo più avanti), la sua è una figura musicale molto più ricca, sfaccettata e persino complessa di quanto non si sia portati a credere. Come tutti i Grandi della musica del XX secolo, Williams trascende i recinti – se non addirittura i ghetti – dentro cui sovente si vuol confinare la sua opera.
Dando un'occhiata alle sue note biografiche, è subito chiaro come la sua formazione sia elemento capitale per cogliere appieno il suo status di musicista tout court. Williams, classe 1932, cresce e si forma in un periodo storico molto vivace e stimolante per la musica e le arti in genere, ovvero gli anni '40 e '50. Sono i decenni in cui le rigide barriere tra musica “alta” e musica “popolare” crollano definitivamente, dando vita ad un terreno creativo fluido ma dentro cui è possibile affondare solide radici. Proviene da una famiglia in cui la musica è presenza costante (il padre, John F. Williams sr., era un poliedrico percussionista, membro dell'orchestra della CBS Radio e vulcanico batterista nel complesso jazz Raymond Scott Quintette) e che lo spinge a coltivare le sue ambizioni artistiche. Se l'essere nato e cresciuto a New York gli dà la possibilità di respirare l'aria densa ed irripetibile delle scene musicali della Grande Mela di quegli anni (il padre suonò anche per George Gershwin) e imprime in lui il sacro fuoco della Grande Musica, in adolescenza sarà l'atmosfera solare e la vivacità culturale della West Coast ad avere un altro fondamentale impatto sulla sua formazione. Gli studi di composizione con il compositore italiano Mario Castelnuovo-Tedesco, allora uno dei più quotati e prestigiosi insegnanti di composizione della città di Los Angeles (con lui studiano anche future celebrità cine-musicali come André Previn, Jerry Goldsmith e Henry Mancini) ci danno una prospettiva molto interessante e curiosa, soprattutto se pensiamo a ciò che Williams sarebbe diventato in età adulta: Castelnuovo-Tedesco fu allievo di Ildebrando Pizzetti, uno dei pochi compositori sinfonici italiani del primo Novecento, il quale a sua volta studiò in gioventù con Nikolaij Rimskij-Korsakov (che fu maestro anche di Stravinskij). E dunque viene spontaneo vedere in filigrana un fil rouge, una specie di “linea ereditaria” che parte dal grande compositore russo ed arriva infine all'autore della musica di Star Wars e Indiana Jones, così spesso lodato per le sue partiture scintillanti e per la sua proverbiale capacità di utilizzare l'orchestra sinfonica in tutte le sue sfumature. Williams ha inoltre riconosciuto l'importanza dei suoi studi con l'arrangiatore Robert Van Eps, il quale gli darà le prime possibilità di sbirciare da vicino il lavoro di un professionista attivo sia nel cinema che nell'industria discografica. Ma prima di arrivare al cinema, Williams passa per le bande militari (presta servizio di leva per 2 anni nelle Forze Aeree dell'esercito dove svolge il ruolo di arrangiatore e direttore di banda), il conservatorio (studia pianoforte per 2 anni presso la prestigiosa Juilliard School of Music di New York) e il jazz (incide molti album come pianista solista ed accompagnatore, ma successivamente anche in qualità di arrangiatore e direttore per big band), quest'ultimo indubbiamente un elemento sostanziale nel suo percorso formativo.

John Williams sul podio

Tutto questo ci fa capire come la cifra eclettica, poliedrica di Williams sia presente sin dagli anni della sua formazione. Ciò risulterà fondamentale anche per la fase successiva della sua avventura artistica. L'approdo al mondo del cinema e della sua musica avviene all'interno di un percorso musicale molto ricco e sfaccettato, in cui la carriera del futuro compositore di Spielberg avrebbe potuto prendere strade molto diverse (l'ingresso alla Juilliard sotto l'egida dell'insegnante Rosina Lhevinne potrebbe presagire un futuro da concertista). Ma è evidentemente nella Settima Arte che il nostro ha trovato il suo naturale polo d'attrazione. I primi anni hollywoodiani di Williams sono all'insegna dell'apprendistato e del lavoro dietro le quinte, per certi versi una sorta di “manovalanza” di lusso: come pianista a contratto nelle orchestre degli studios si ritrova a suonare nelle partiture di pressoché tutti i “big” della musica per film dell'epoca, da Franz Waxman a Dimitri Tiomkin, passando per Alfred Newman e Bernard Herrmann (con quest'ultimo stabilirà anche un personale rapporto di stima ed amicizia). In questo ruolo scopre ed osserva il mestiere del musicista hollywoodiano e le dinamiche del processo di realizzazione di una colonna sonora. La possibilità di lavorare a fianco di alcuni dei più brillanti compositori di allora gli dà una prospettiva unica ed irripetibile. L'organizzazione dei dipartimenti musicali imponeva ritmi industriali, ma ciononostante era possibile per il compositore fare musica ad alto livello, magari mettendo da parte qualche velleità artistica ma senza per questo rinunciare totalmente alla propria integrità di musicisti tout court. Come la stessa Hollywood, anche l'apparato musicale degli studios era il risultato di una fusione tra la tradizione mitteleuropea e lo spirito pionieristico statunitense. Alcuni tra i più colti e raffinati compositori europei trovarono nell'industria del cinema americano un confortevole riparo e un agio altrimenti impossibile. Alcuni di essi poi furono davvero coloro che si inventarono dal nulla un genere, uno stile e un mestiere.
Va notato che Williams muove i suoi primi passi durante la fase terminale di quell'epoca (altrimenti nota come “Golden Age”), in un periodo di forti cambiamenti sia estetici che produttivi. Il sempre bruciante desiderio di Hollywood di rimanere al passo coi tempi impose di svecchiare stili e metodi dell'accompagnamento musicale. E dunque la formazione jazzistica consente a Williams di adattarsi in maniera ideale alle nuove richieste. E' in quegli anni infatti che comincia a firmare le sue prime colonne sonore in veste di compositore: il suo debutto avviene nel 1958 con la partitura per il film Daddy-O (inedito in Italia). Le prime composizioni per il cinema di “Johnny” Williams sono caratterizzate da una pimpante vena jazz à la page, non lontana dallo stile di autori come Elmer Bernstein e Henry Mancini (per cui suona come pianista), all'epoca due delle nuove voci hollywoodiane più richieste proprio per la loro tendenza ad un lessico più vicino alla nuova sensibilità di produttori e registi.
A tutto questo vanno aggiunte almeno altre due fasi “formative” essenziali: il lavoro come arrangiatore e orchestratore di partiture altrui (collabora soprattutto con Dimitri Tiomkin e Adolph Deutsch) e l'attività come compositore per la televisione. Se nel primo caso si tratta di un passaggio quasi obbligatorio per arrivare sul podio di auteur di cinemusica hollywoodiana (e che insegna a Williams i metodi per proteggere in futuro l'integrità delle proprie composizioni da intrusioni ed imposizioni “esterne” di orchestratori e/o arrangiatori), l'excursus nel mondo del tubo catodico risulterà un momento importante per il consolidamento del suo talento compositivo. La televisione americana di fine anni '50-inizio anni '60 è una fucina di talenti e di grande sperimentazione di linguaggi e stilemi, nonostante l'esigenza dei network nazionali di avere prodotti facilmente fruibili dal pubblico. I dipartimenti musicali di tutte le principali major si ritrovano ad aprire un reparto specifico per la realizzazione di colonne sonore per la televisione e dunque ad assumere schiere di compositori giovani. I budget sono assai più ristretti rispetto a quelli delle produzioni per il grande schermo e dunque diventa fondamentale per il compositore fare di necessità virtù. Williams viene messo sotto contratto dai Revue Studios (che poi diverrà la branca televisiva della Universal Pictures) e finisce sotto l'egida del music supervisor Stanley Wilson, il quale nota immediatamente il talento del compositore nemmeno trentenne e gli affida i commenti musicali di molti episodi di serie antologiche quali Playhouse 90, Alcoa Premiere Theatre, Kraft Mystery Theatre, Kraft Suspense Theatre, ma anche di prodotti di stampo seriale come M-Squad, Checkmate, Wagon Train, Gilligan's Island. Malgrado l'aspetto da catena di montaggio di queste produzioni (il compositore ha solo 2-3 giorni a disposizione per scrivere e incidere dai 20 ai 30 minuti di musica per ciascun episodio), l'esperienza offre a Williams la possibilità di confrontarsi ogni settimana con prodotti di genere differente – dal western al thriller, passando per commedia, guerra e fantascienza – e di imparare a fidarsi del proprio istinto drammaturgico, oltre a diventare molto rapido nella stesura delle partiture. I limiti di budget lo spingono a trovare soluzioni timbriche creative, sfruttando organici ridotti e tessiture inedite. Tutto questo, come si può ben intuire, diventa una insostituibile palestra per esercitare il proprio stile e le proprie capacità. Inoltre, l'organizzazione del dipartimento musicale gli consente un costante confronto con il lavoro dei suoi colleghi compositori.
Questa lunga panoramica sui primordi williamsiani serve a farci capire come la sua figura sia il prodotto di un grandissimo lavoro sulla propria arte e sulle proprie abilità. Troppo spesso si tende a etichettare il mestiere del compositore hollywoodiano come un mero artigiano, se non addirittura un art composer frustrato che scrive partiture per il cinema come ripiego di comodo. La lunga e variegatissima  gavetta di John Williams invece dimostra come l’ambiente di allora consentisse alle persone di talento di costruirsi un solidissimo background  ricco di possibilità e successivamente di proiettarli verso una carriera di grandi traguardi artistici. E’ proprio la diversità degli incarichi e dei ruoli da svolgere che ha impresso in Williams la capacità di essere un vero e proprio camaleonte della musica per film (e non solo). Ed è parere di chi scrive che questa sia la lente più idonea e sorprendente attraverso cui studiare ed analizzare la carriera di Williams compositore.

John Williams in una foto dei tardi anni '70

E’ davvero troppo facile e semplicistico etichettare John Williams come il compositore delle fanfare, delle marce e dei temi altisonanti. Verissimo è che lui stesso ha fatto di questa cifra un personale marchio di fabbrica immediatamente riconoscibile – si vedano ad es. le sue composizioni pomp and circumstance extracinematografiche come i temi per le Olimpiadi del 1984 e del 1996 – ma è altrettanto vero che circoscrivere il suo contributo all’Ottava Arte (e alla Musica in generale) soltanto a questo sarebbe fare un grande torto alla sua bravura e alle sue capacità. Sarebbe altrettanto facile citare le partiture meditate ed intimiste di film come Schindler’s List, Turista per caso o Memorie di una geisha per mettere a tacere qualsiasi tentativo di bollare Williams come un compositore capace soltanto di “esibizionismo sinfonico”. Ma basta dare un’occhiata alla sua ricchissima filmografia per rendersi conto che siamo di fronte ad un vero e proprio funambolo. Dal 1958 ad oggi troviamo una amplissima varietà di generi, stili e forme che indubbiamente sono andate via via uniformandosi nel corso del tempo verso un linguaggio più marcatamente “autoriale”, ma che hanno comunque forgiato la voce del compositore e gli hanno dato un’impronta assolutamente unica. E se si tende a identificare Williams , seppur a ragion veduta, quasi esclusivamente con i film più celebri di Steven Spielberg o comunque con il cinema di un certo tipo (le saghe multimilionarie di Star Wars e Harry Potter), è altrettanto vero che tutto ciò tende ad oscurare il prezioso lavoro svolto insieme a molti altri registi, tra cui anche alcuni veri e propri “mostri sacri”: Robert Altman, Alfred Hitchcock, Brian De Palma, Clint Eastwood, Arthur Penn, Oliver Stone, Sydney Pollack. Senza dimenticare anche quella schiera di grandi “artigiani” del cinema americano non meno importanti come Alan J. Pakula, John Frankenheimer, Martin Ritt, Norman Jewison, Mark Rydell, Barry Levinson. Andrebbe poi certificato il ruolo centrale di alcuni storici produttori hollywoodiani quali Walter Mirisch, Irwin Allen, Arthur P. Jacobs, Richard Zanuck & David Brown, che Williams ha più volte incontrato nel corso della sua carriera.
Tutto ciò non per arrivare ad uno sterile elenco di nomi più o meno famosi, ma casomai per sottolineare una volta di più come Williams abbia attraversato cinque decenni di cinema americano in quasi tutte le sue forme, scrivendo partiture sempre molto diverse e talora persino audaci, dimostrando un eclettismo e una capacità di adattamento che trova ben pochi paragoni nel mondo della cinemusica americana. Se guardiamo ed ascoltiamo ad esempio il lavoro incredibilmente denso di arrangiamento ed orchestrazione svolto per l’adattamento di musical come Il violinista sul tetto (1971) o Goodbye Mr. Chips (1968) ci accorgiamo come Williams riesca persino a far propria anche la musica altrui, senza tradire lo spirito originario ma aggiungedovi una dimensione assente dalla partitura originale (lo stesso Leslie Bricusse, autore delle musiche e dei testi di Goodbye Mr. Chips, ha detto: “Williams ha trasformato quelle che erano canzoni poco più che decenti in qualcosa di stupefacente”). Le due collaborazioni con Robert Altman mostrano invece un compositore di grandissimo acume e di finissimo intelletto, capace di tradurre in musica un complesso ed intrigante tessuto psicologico (la partitura letteralmente “schizofrenica” ed allucinanta per Images, 1972) ma anche di giocare a livello metatestuale dentro e fuori i confini della diegesi e dell’extradiegesi (Il lungo addio, 1973). In anni più recenti è stato il regista Oliver Stone a fornirgli l’occasione di cimentarsi in territori complessi e stratificati: se Nato il 4 luglio (1989) ci mostra un compositore propenso a sofferte elegie di barberiana intensità in contrasto con l’atrocia delle immagini, la folgorante partitura per JFK (1991) rivela un’inedita vena che mescola minimalismo, elettronica e nobili inni coplandiani, sposandosi alla perfezione con la regìa rapsodica e pseudo-documentaristica di Stone. E cosa dire di quel misconosciuto gioiello che unisce jazz, barocco e grande spessore drammatico per commentare il thriller ad alta quota Assassinio sull’Eiger (1975) diretto da un giovane Clint Eastwood? O del vero e proprio divertissement con cui accompagna l'ultima opera del grande Alfred Hitchcock, Complotto di famiglia?
Non vanno dimenticate nemmeno le numerose incursioni nel cinema di genere e in quello delle produzioni di più smaccato profilo commerciale (che nelle mani più sapienti possono diventare veri e propri laboratori di sperimentazione, vedasi Jerry Goldsmith e Morricone), dove troviamo autentiche perle della produzione williamsiana: ad esempio il Dracula (1979) diretto da John Badham, accompagnato da una sontuosa, avviluppante sinfonia di stampo ottocentesco capace di ammantare il film di una fortissima sensualità altrimenti inesistente; l’entusiasmante vena coplandiana per il western giovanilistico I cowboys (1972); le atmosfere bucoliche di ispirazione britannica che commentano la diligente versione televisiva di Jane Eyre interpretata da George C. Scott e Susannah York (1971); il beffardo, mefistofelico “sabba” citazionista – da Berlioz a Puccini passando per Prokofiev – per Le streghe di Eastwick (1987); l’incredibile vortice herrmanniano che avvolge e risucchia i protagonisti di Fury (1978) di Brian De Palma.
A costo di sembrare ripetitivi, tutto ciò non serve a fare soltanto la conta degli elementi che compongono il grande opus williamsiano ma piuttosto ad allargare gli orizzonti di quanti sono ancora convinti che la musica di questo compositore sia riducibile a formule o etichette, come invece una buona parte della cinemusica hollywoodiana appare al giorno d’oggi. La sua bravura nel trovare sempre la giusta, ideale traduzione di un film in senso squisitamente musicale, senza mai rinunciare al suo essere compositore – come tutti i grandi dell’Ottava Arte hanno sempre dimostrato da Erich Wolfgang Korngold, Miklos Rozsa e Herrmann fino a Alex North, Goldsmith e Morricone  – è sempre andata di pari passo con un grandissimo lavoro di cesello – volontario o meno, non importa – sul proprio stile e sulla propria voce, arrivando così ad un corpus musicale che è indubbiamente uno dei più ricchi che si possano trovare in quest’arte tutto sommato ancora negletta.

Una coppia inossidabile: Williams & Spielberg (foto di Murray Close)

Ma non si può certo soprassedere su ciò che ha reso John Williams, appunto, quel John Williams che oggi anche il pubblico meno attento è probabilmente in grado di riconoscere dopo poche note. Il compositore dei temi svettanti per archeologi scavezzacollo alla ricerca di antichità rare, delle fanfare che squillano nello spazio a velocità luce e nelle metropolis solcate da supereroi col mantello rosso fuoco, del pulsante ostinato di due note che pare schiudersi dalle profondità degli abissi, delle marce imperiali per la tenebrosa nemesi avvolta di nero, delle ariose melodie per archi che fanno volare le biciclette over the moon. L’alleato nascosto e forse più importante del cinema spettacolare più lieto e scanzonato che ha segnato almeno due generazioni di spettatori ed ha cambiato per sempre, nel bene e nel male, l’industria di Hollywood. Williams sinfonico cantastorie, divenuto tale grazie soprattutto ai film di Steven Spielberg e di George Lucas, insieme a cui formerà un tandem inossidabile che – nel caso del primo – continua e si rinnova anche oggi.
La partitura de Lo squalo (1975) rivela un compositore capace di andare dritto alla giugulare in termini di espressività e di aderenza al fotografico: la musica di Williams è un tutt’uno con la vibrante regìa spielberghiana, alimentando il senso orrifico e primordiale con un tocco di geniale semplicità (lo scarto di un semitono suonato da celli e bassi, accentato ulteriormente da fagotti e tromboni) ma al contempo corroborando lo spirito avventuroso della quest dei tre protagonisti a caccia del pescecane, sfoderando una musica d’avventura “nautica”  come non si sentiva dai tempi de Lo sparviero del mare di Korngold. Un’operazione che all’epoca fu persino audace, se si pensa che il cinema americano aveva quasi totalmente abiurato al commento musicale orchestrale in pompa magna. E’ quasi naturale che Williams diventi due anni più tardi il protagonista assoluto del ritorno perentorio della colonna sonora sinfonica, che avviene con la potenza travolgente di quell’accordo in Si bemolle maggiore che letteralmente esplode nella potenza del primo Dolby Stereo accompagnando i caratteri cubitali di Guerre stellari e il celebre roll dei titoli di testa. “La musica per film si riappropria finalmente dello schermo”, ha scritto nel 2007 il critico Roberto Pugliese e mai definizione fu più azzeccata. La partitura per la rivoluzionaria epopea di George Lucas è un inno alla Grande Musica del Cinema, una dichiarazione d’amore a quei pionieri dell’Ottava Arte come Erich Wolfgang Korngold, Max Steiner, Franz Waxman, Miklos Rozsa che seppero letteralmente infondere nuova vita nel corpo consumato della Musica Tonale grazie alla potenza espressiva del mezzo cinematografico. Assai più che in Wagner e la sua Tetralogia, sovente citati a sproposito, è nel solco della migliore tradizione hollywoodiana e dei compositori appena citati che va vista l’operazione (innegabilmente retrò e nostalgica) compiuta da Williams. E questo non significa assolutamente togliere alcunché al valore dell’opera. Ciò che oggi colpisce di questo monumento – considerando anche le partiture dei successivi capitoli, L’impero colpisce ancora (1980) e Il ritorno dello Jedi (1983) – è la sua schietta semplicità, la sua scanzonata vena liberatoria, fatta di temi e motivi diretti, essenziali, eppure così espressivi (basti solo ricordare il malinconico tema legato a Ben Kenobi e alla “Forza”), degni del grande poema sinfonico tardoromantico. La narrazione epica e lineare di Lucas trova così il suo contraltare musicale naturale, immortalato nell’esecuzione scintillante della prestigiosa London Symphony Orchestra. Non è esagerato affermare oggi che la colonna sonora di Star Wars sia uno dei grandi traguardi della musica orchestrale statunitense del XX secolo, degna di stare accanto a opere “nazionalpopolari” come West Side Story di Leonard Bernstein o Appalachian Spring di Aaron Copland.
Nello stesso anno Williams suggellerà definitivamente il suo sodalizio con Spielberg, nel film Incontri ravvicinati del terzo tipo. La contemporaneità delle due opere sembra quasi una dichiarazione poetica d’intenti (il ritorno del Cinema come luogo principe di sogni e magia, lontano dalle angosce e dai tormenti di una sempre più disorientante contemporaneità) e che Williams ne sia il protagonista sul podio del direttore suona come un suggello. La partitura stessa pare affermare la volontà del ritorno a qualcosa di familiare e rassicurante: dalla nebbia fatta di dissonanze liquide e spettrali sonorità avanguardistiche si arriva infine ad un risonante accordo in Mi maggiore, trasformando i famosi cinque toni spogli in una sorta di aria lirica estatica, inno alla fratellanza intergalattica: “When you wish upon a star...”
Oscar, Grammy, dischi d’oro e di platino incoronano il compositore e la sua musica. Da allora la sua carriera è lanciata nella stratosfera e Williams diventa l’incontrastato number one. Il successo planetario di Star Wars e della sua colonna sonora – più di 4 milioni di copie vendute del soundtrack album – ha anche il positivo effetto di far tornare in auge la tradizione musicale hollywoodiana e di renderla commercialmente appetibile per le major. “Improvvisamente ci siamo ritrovati tutti nuovamente pieni di lavoro”, affermò Elmer Bernstein. La partitura sinfonica ritorna ad essere la compagna ideale del grande spettacolo cinematografico e Williams ne è il re incontrastato. I suoi successivi lavori si inseriscono nel medesimo solco e confermano la sua grande abilità di alchimista capace di soluzioni musicali scintillanti: la partitura per la versione cinematografica di Superman (1978) diretta da Richard Donner mescola grandeur straussiana a tocchi impressionisti, ancora una volta nel segno squisitamente korngoldiano dell’avventura e dell’eroismo (la trascinante marcia del supereroe è oggi quasi una sorta di inno americano alternativo). Le imprese mirabolanti e al limite dell’improbabile dell’archeologo Indiana Jones in  I predatori dell’arca perduta (1981) e nei successivi capitoli sono accompagnate da febbrili tour de force a tutta orchestra opportunamente sopra le righe, una miscela esplosiva di mickeymousing, esotismo e sfacciato, gustoso citazionismo, abile a non prendersi mai troppo sul serio. E la favola spielberghiana di E.T. l’extra-terrestre (1982) ci mostra un compositore in grado di trasformare in epos una semplice storia d’amicizia, con una partitura appassionata, commovente e traboccante sincero lirismo (forse ancora oggi la vetta assoluta della carriera di Williams e uno dei massimi traguardi della cinemusica americana). E’ proprio in questa sincerità, in questa disarmante spontaneità a rispondere con gioviale entusiasmo alle storie e agli indimenticabili personaggi raccontati in quei film che Williams pare trovare la contagiosa, irresistibile energia di cui la sua musica è piena e che ancora oggi, a 80 anni, risplende nelle sue ultimissime fatiche Le avventure di Tintin e War Horse. E’ un compositore che vive pienamente, per usare le parole di Leonard Bernstein, la gioia della musica.
L’innegabile protagonismo delle partiture citate viene visto da alcuni critici (cinematografici e musicali) come un peccato imperdonabile. Williams è tacciato di saturare i film con commenti musicali invadenti e soffocanti (un’abitudine evidentemente dura a morire, leggendo alcune recensioni del recente War Horse). Questa osservazione ci consente di indagare brevemente su un altro equivoco, ossia che la musica di Williams sia soltanto un raddoppio di ciò che avviene sullo schermo, che pecchi di ridondanza e che infine nuoccia al film. Se da un lato è vero che Hollywood ha sempre mostrato una netta preferenza per una descrizione musicale che non lascia grandi spazi a sottigliezze o tenui sfumature, è altrettanto evidente che gli universi estetici in cui vivono film come E.T., Star Wars, Indiana Jones, Superman ma anche i successivi Jurassic Park e Harry Potter sono luoghi della pura immaginazione, in cui la teatralità del gesto musicale è componente fondamentale del loro essere. Inoltre, lo spessore prettamente musicale di queste partiture ha sovente dell’incredibile in termini di architettura e costruzione narrativa, un valore artistico intrinseco che, a nostro parere, è un aspetto altrettanto importante per separare la Grande Musica per Film dalla mera carta da parati.

Williams alla testa della sua Boston Pops Orchestra

La gioia della musica Williams l’ha trovata anche nella sua intensa attività come direttore d’orchestra a partire dal 1980 in poi, anno in cui viene nominato direttore musicale della Boston Pops Orchestra, incarico che ricopre fino al 1993. L’occasione nacque a seguito del successo di Star Wars e lo stesso Williams riconosce oggi che questa ne fu la conseguenza più bella ed importante per la sua carriera. Vera e propria istituzione americana e costola della prestigiosissima Boston Symphony Orchestra, la compagine trova nel musicista newyorkese un efficace condottiero, degno erede del sornione Arthur Fiedler, rispettoso della sua tradizione ma altrettanto voglioso di portare nuova linfa nel suo repertorio. Williams non si fa intimorire dal podio né tantomeno dal pubblico bostoniano e inserisce composizioni cinematografiche sia proprie che altrui nei programmi abituali dell’orchestra. Forse meglio di altri capisce che questo può essere il veicolo ideale per portare la musica del cinema finalmente fuori dallo schermo e darle una sua meritata dignità nella sala da concerto (è da questo momento in poi che Williams comincerà a redigere regolarmente delle suite molto curate dalle proprie colonne sonore da eseguire dal vivo). Se oggi la musica per film trova assai più spazio nei programmi delle orchestre americane e del resto del mondo lo si deve anche lui.
Inoltre l’attività direttoriale è probabilmente ciò che spinge Williams ad uscire con più convinzione fuori dal recinto di film composer ed ecco che il suo repertorio di musica “assoluta” comincia ad arricchirsi di nuove commissioni e nuovi lavori. Dopo due composizioni (il Concerto per Flauto del 1969 e il bellissimo Concerto per Violino del 1976) e un paio di sinfonie (la First Symphony del 1966 e la Sinfonietta per strumenti a fiato del 1968) accolte con tiepidezza dalla critica, Williams accantona temporaneamente qualunque tentativo di avventurarsi nella art music per concentrarsi sulla sua carriera filmica, ma l’arrivo sul podio della Boston Pops apre nuove possibilità: fioccano le commissioni per brani di natura celebrativa o “di circostanza” (fanfare, inni, marce, preludi), in taluni casi per grandi eventi internazionali come le Olimpiadi di Los Angeles del 1984 e il Centenario della Statua della Libertà nel 1985. Ma arrivano anche occasioni più stimolanti ed avvincenti come il Concerto per Tuba del 1985, scritto espressamente per il tubista della Boston Pops, Chester Schmitz e successivamente entrato nel repertorio fisso dello strumento. Da qui in avanti, con l’atteggiamento del vero e proprio esploratore sinfonico, Williams comincia ad indagare con maggior frequenza la forma concertante per strumento solista e orchestra: il prokofieviano Concerto per Clarinetto del 1991, il magnifico, trasognato Concerto per Fagotto ("The Five Sacred Trees") del 1993, l’intenso Concerto per Violoncello del 1994, lo splendido, cangiante Concerto per Corno del 2003, per citare i più importanti. A questi si aggiungono concerti per tromba (1996), arpa (2009), viola (2009), oboe (2011), oltre a brani per orchestra e un ciclo di sette canzoni per soprano su testi della poetessa afroamericana Rita Dove (Seven for Luck). In tutte queste opere è chiara la volontà dell’autore di distanziarsi da qualunque genere di descrittivismo musicale e da intenti programmatici marcati, ma piuttosto si manifesta l’intento di esplorare timbri, dinamiche, possibilità dello strumento prescelto e dell’orchestra stessa (secondo una filosofia altrimenti nota come “musica per la musica”) in uno stretto rapporto con il solista e i membri della compagine. Tutto ciò attraverso un linguaggio quanto mai espressivo e diretto, sovente lontano da qualunque forma di esibizionismo, assai più propenso alla contemplazione e a uno sguardo meditabondo: il secondo movimento – “Slowly, in peaceful contemplation” – del Concerto per Violino è quanto di più profondo e dolorosamente bello sia mai scaturito dalla penna di Williams.
Solisti di grido come Yo-Yo Ma, Gil Shaham e Itzhak Perlman gli chiedono di comporre pagine espressamente per loro; direttori d’orchestra come Seiji Ozawa, James Levine e Zubin Mehta dirigono abitualmente la sua musica; orchestre di livello mondiale come la Chicago Symphony, la New York Philharmonic, la Cleveland Orchestra, la London Symphony e la Los Angeles Philharmonic se lo contendono come direttore ospite in concerti da tutto esaurito. Nonostante l’ascesa nei luoghi del gotha della musica americana, alcuni critici togati continuano a considerarlo come un compositore di seconda categoria, troppo commerciale e derivativo, esageratamente ancorato a forme e stili consunti, sin troppo propenso a una showmanship che non si addice al musicista “serio”. Come tutti i compositori in pace con la propria arte, Williams non si è mai fatto scalfire da questo genere di rimostranze, né hai mai cercato di trovare assoluzioni per giusticare il proprio successo popolare. Anzi, pare dimostrare – come già accadde a figure come Leonard Bernstein e Aaron Copland – la possibilità per il compositore odierno di poter far convivere serenamente il Colto e il Popolare. “Gli ho detto un sacco di volte, ‘Per carità d’Iddio, lascia perdere quelle sciocchezze per il cinema e sii un vero compositore’”, ha raccontato una volta il compositore e direttore d’orchestra André Previn. “John è un musicista troppo valido per essere soddisfatto per sempre di quella vita. Detesto vederlo sprecare tempo in filmetti come Mamma, ho perso l’aereo o cose del genere. Non è degno del suo talento. Ma l’argomento non regge, poiché lui è molto felice di ciò che fa. E lo fa molto bene.”. Come riassumono bene le parole di Previn, non è indossando una casacca piuttosto che l’altra che Williams diventa serio oppure commerciale. La sua figura è una fusione inscindibile in grado di contenere più anime e più volti senza per ciò svilire la propria integrità, dimostrazione che la nevrosi della double life così ben definita da Miklos Rozsa sia definitivamente risolta.

Williams dirige la Chicago Symphony Orchestra

Col passare degli anni, le committenze cinematografiche diventano sempre più frutto di scelte meditate. Trovandosi nella rara posizione di poter selezionare i film a cui lavorare, Williams mantiene da un lato il canale privilegiato per i film dell’amico Spielberg, col quale darà vita ad una sempre più vivace ed eclettica collaborazione regista/compositore capace di rinnovarsi e sorprendere continuamente in opere di ogni genere e cifra (si veda l’esauriente monografia di Roberto Pugliese qui pubblicata), ma dall’altra parte sceglierà di dedicarsi più spesso a film lontani da esigenze dichiaratamente spettacolari, a cui regalare commenti musicali intimisti e rarefatti: Turista per caso (1988), Lettere d’amore (1990), Sleepers (1996), Le ceneri di Angela (1999), Memorie di una geisha (2005). Sono partiture preziose, tenui e di sorvegliatissimo lirismo. Williams, se mai ve ne fosse stato bisogno, smentisce e contraddice una volta di più i suoi detrattori dimostrando una rara sensibilità come cantore di atmosfere agrodolci e malinconiche.
Ma l’anima blockbuster del compositore rimane sempre viva e capace di creare nuovi classici – i tre capitoli di Harry Potter sono veri e propri scrigni musicali da cui sgorgano a profusione inventiva, lirismo e sapienza orchestrale – anche ad un età in cui la maggior parte dei suoi colleghi probabilmente tira già i remi in barca e campa di rendita. E non ha nemmeno paura di tornare a confrontarsi, a vent’anni di distanza, con la propria tradizione e di tentare un’avventura rischiosa come la trilogia prequel di Star Wars, da cui Williams esce vincitore nonostante la palese debàcle estetica di tutta l’operazione lucasiana.
All’alba degli 80 anni Williams vive in uno status, come dicevamo in apertura, da leggenda vivente: le committenze cinematografiche ormai sono esclusivamente dedicate ai film di Steven Spielberg, con cui prosegue un cammino segnato dalla varietà e da operazioni anche innovative (il sorprendente cartoon tridimensionale Le avventure di Tintin). La musica da concerto occupa uno spazio più rilevante, ma punta a scelte dettate quasi unicamente dalle proprie preferenze (brani da camera come il Duo concertante per violino e viola e il quartetto La Jolla per violino, violoncello, arpa e clarinetto). Non manca il piacere di dirigere la propria musica insieme ad orchestre prestigiose sul suolo americano e tantomeno quello di veder la sua opera costantemente onorata da una pletora di premi e riconoscimenti (record assoluto di 47 nomination e 5 vittorie al premio Oscar, 17 Grammy, 3 Emmy Awards, numerosi dischi d'oro e di platino e via dicendo).
“Più hai a che fare con la musica e maggiori sono gli anni che passi insieme ad essa, più intenso sarà l’amore che provi”, ha detto Williams nel 2002. “Non è un lavoro spiacevole, è l’esatto opposto. E’ sempre più attraente e interessante”. Il compositore ha trovato nella propria ferrea disciplina una delle sue Muse, capace di fargli sentire ancora un giovanile entusiasmo. Williams è sempre con lo sguardo rivolto in avanti, verso la prossima sfida (è già al lavoro su Lincoln, l’atteso biopic di Spielberg sul più celebre Presidente degli Stati Uniti in uscita a fine anno), qualunque sia l’incarico affidatogli.

Forse la definizione migliore di questo autore l’ha data nel 2002 Richard Dyer, il critico musicale del Boston Globe: “Anche quando ha dovuto fare il ventriloquo, come talvolta il mestiere di compositore per il cinema gli impone di essere, non credo che Williams abbia mai scritto una nota disonesta in tutta la sua carriera. Come chiunque altro, ci sono cose più riuscite di altre. Ma non credo sia per lui un processo meccanico. Riesce a scrivere musica di eroica risolutezza perché si sente esattamente in quel modo. Si affida al suo mondo interiore e crea una dimensione ulteriore all’interno del film. Ed è questo che fa funzionare anche la musica per la sala da concerto.”. E’ qui che, se dovessimo proprio tentare di scovare il segreto del suo talento, probabilmente andremmo a cercare. Già, perché il mistero della creazione musicale risiede sempre nelle profondità dell’animo umano. E l’arte, la musica di John Williams scaturiscono proprio da un’anima che ha saputo lavorare sul proprio talento e che, ancora oggi, riesce a meravigliarsi e a meravigliare con lo sguardo candido ed innocente di un ragazzino.

E allora facciamo gli auguri a questo formidabile ragazzino di 80 anni: Buon Compleanno, John Williams!

John Williams (foto di Matthew Cavanaugh/Boston Globe)

Le citazioni di John Williams, André Previn e Richard Dyer sono tratte dall'articolo scritto da Jon Burlingame "A Career of Epic Proportions", pubblicato nel 2002 dal Los Angeles Times: http://articles.latimes.com/2002/feb/03/entertainment/ca-burl3

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