Paolo Fresu e il suo jazz: quando la musica si fa racconto

Paolo FresuPaolo Fresu è tra i musicisti più completi ed interessanti all’interno del panorama jazzistico non solo italiano. La sua musica ha un carattere ed una identità precise, riconoscibili. Così anche il suono della sua tromba, caldo, ricco di sfumature e dettagli. Il suo mondo sonoro è cresciuto e si è arricchito, negli ultimi dieci anni, anche attraverso il contatto e il confronto con il cinema.  Molti progetti che lo vedono impegnato in diversi concerti, in Italia e all’estero, sono riconducibili, in modo più o meno diretto, ad esperienze, percorsi compositivi, legati al cinema. Scores! ad esempio, o il suo disco più recente, Think, in cui suona con Uri Caine e che contiene un brano scritto per il film di Ermanno Olmi, Centochiodi, ed uno dei pezzi di Scores! , “Ossi” . Un jazzista di razza, a cui però non piacciano le etichette e che non riesce a definire la propria musica in modo stretto, univoco. Attento alle contaminazioni e agli incontri di generi e linguaggi differenti. Come compositore e come interprete ha lavorato con decine e decine di artisti con i quali si è creato un legame ed un’intesa che è stata spesso capace di dar vita a suggestioni sonore che hanno conquistato il pubblico e la critica. Basti citare, tra le altre,  le collaborazioni con Giorgio Gaslini, Enrico Rava, Enrico Pieranunzi, Rita Marcotulli, Stefano Di Battista, Stefano Bollani, Michael Nyman. I lavori realizzati con Uri Caine, il quartetto Devil, il quartetto Alborada, in duo con il cantante tunisino Dhafer Youssef, la "Italian Trumpet Summit" con i trombettisti Franco Ambrosetti, Flavio Boltro, Marco Tamburini e Fabrizio Bosso ed ancora i progetti legati alla musica tradizionale della Sardegna "Sonos 'e memoria" (con Elena Ledda, Luigi Lai, il coro "Su Cuncordu 'e su Rosariu" di Santu Lussurgiu, Antonello Salis, Federico Sanesi ed altri), e "Ethnografie" del 2003. Esperienze, percorsi che testimoniano la grande passione, e la creatività che tutti gli riconoscono.
Il suo incontro con il cinema, risale al 1987 anno in cui partecipò al film di Gianfranco Cabiddu,
Il figlio di Bakunìn, prodotto da Giuseppe Tornatore, in qualità di solista. Nel 1999 compose le musiche del film Il prezzo di Rolando Stefanelli che furono eseguite dal “Paolo Fresu Quintet”. Nel 2003 e nel 2004 ha lavorato a progetti legati al cinema che gli hanno consentito di confrontarsi con invenzioni e soluzioni differenti. Per il film di Ferdinando Vicentini Orgnani Il più crudele dei giorni (2003), dedicato alla storia di Ilaria Alpi con Giovanna Mezzogiorno e Rade Sherbedja,  ha utilizzato  organici differenti creando un legame tra famiglie di strumenti diversi e i luoghi, i caratteri del racconto. Per L'isola (2003) la regia di Costanza Quatriglio si è in qualche modo lasciata vivificare dalla musica, e dal suono della tromba di Fresu e della voce di Dhafer Youssef. A questi lavori sono seguiti quelli per il film prodotto da Nanni Moretti Te lo leggo negli occhi (2004) con la regia di Valia Santella, colonna sonora registrata con il Quartetto Alborada e Diederik Wissels; Passaggi di Tempo (2005) firmato da  Gianfranco Cabiddu e registrato con  i "Sonos 'e Memoria", e poi ancora Sette ottavi (2006) di Stefano Landini, Centochiodi (2007) di Ermanno Olmi, In viaggio con Patrizia (2007) di  Alberto Grifi e Zulu meets Jazz (2008) di Ferdinando Vicentini Orgnani.

Colonne Sonore: Ben trovato e grazie per aver accettato il nostro invito, sappiamo bene che sei sempre molto impegnato! Volevo iniziare con una domanda che può apparire semplice, banale, ma per rispondere alla quale forse potrebbe non bastare il breve spazio di una intervista. Cos’è per te il cinema?

Paolo Fresu: Beh! Il cinema è una macchina fantastica, per la quale ho sempre avuto una grande fascinazione. È naturale che, per il mestiere che faccio, sia sempre stato molto attento all’aspetto sonoro, musicale, di quest’arte. Qualcosa di magico, che amo tantissimo, anche se, purtroppo, riesco ad andare poco al cinema! Ti confesso che sono stato anche redarguito dall’Accademia del cinema che  organizza i premi “David di Donatello”, della cui giuria faccio parte, in quanto lo scorso anno non sono riuscito a votare. Il che è accaduto proprio perché non avendo visto i film su cui dovevo esprimere un giudizio ho ritenuto più corretto non farlo. Credo si possa dire che quello di scrivere per il cinema sia un sogno, un desiderio, più o meno chiaramente espresso, per ogni musicista. Proprio perché quando si scrive la musica per un film ci si confronta con un atto creativo, un meccanismo compositivo  diverso da quello che si mette in atto quando si scrive musica per un disco, per sé, quando si è tristi, annoiati o perdutamente innamorati. Scrivendo una colonna sonora è necessario che ci sia un rapporto sinergico tra quello che pensi e quello che ottieni, bisogna confrontarsi con la storia, con il tessuto narrativo, con i luoghi. Anche se poi non sempre quello che si scrive al pianoforte, che si fissa sul foglio bianco del pentagramma corrisponde al risultato che si ottiene quando la musica incontra l’immagine. E questa sorpresa, questo scambio tra la musica e le immagini è poi per un musicista la vera magia del cinema. Il risultato finale è spesso molto diverso da quello che io avevo pensato nella fase di scrittura e questa cosa, che può essere drammaticamente preoccupante, poi in realtà mi piace molto!

CS: Forse anche per il cinema vale il principio secondo cui il tutto non è riconducibile alla semplice somma delle singole parti?

PF: Esattamente. Ho tenuto dei corsi a Siena, nei Seminari senesi di Siena Jazz, e mi ricordo che all’Accademia Chigiana il Maestro Morricone incontrava gli allievi per delle lezioni sul rapporto tra musica e immagini. Ecco io non sono un professionista della scrittura per il cinema, ma ritengo non si possa parlare di regole in senso stretto. Sinceramente, fermo restando ovviamente l’attenzione e il rispetto per tutto ciò che Morricone rappresenta, non credo esistano dei modelli compositivi che riescano ad assicurare che un determinato brano o frase musicale sia funzionale ad una immagine, ad un personaggio, ad un tratto del racconto del film. Si tratta piuttosto di fare di volta in volta una scelta compositiva di tipo emozionale. Ciò che il compositore deve riuscire a fare è entrare in sintonia con il film, con la sua anima, con il regista e quello che vuole ottenere.

CS: Può accadere allora che si pensi un brano della colonna sonora per servire una scena particolare di un film e che poi invece quella stessa musica venga usata in modo diverso?

PF: A me è successo. Nel caso, ad esempio, de Il più crudele dei giorni il film di Vicentini Orgnani dedicato alla vicenda di Ilaria Alpi, il regista mi inviava i girati dal Marocco con delle musiche civetta. Per la scena del film che raccontava il ritorno delle salme in Italia su un Hercules dovevo scrivere un Requiem, e mi inviò lo "Stabat Mater" di Pergolesi. Ecco io scrissi quel brano pensato per quella scena, ma poi nel montaggio finale del film, il Requiem, fu spostato altrove…

CS: Perché in questo modo acquistava forse un significato più forte, serviva meglio il film di quanto avrebbe fatto se fosse stato utilizzato semplicemente come musica di commento ad una scena già intensa dal punto di vista emozionale?

PF: Probabilmente si. Ho fatto quest’esempio proprio per sottolineare il fatto che ciò che mi piace dello scrivere per il cinema, è appunto il confrontarsi con una scrittura che si alimenta di giorno in giorno. Che è mobile, viva. Ovvero tu scrivi lavorando su un’idea, un personaggio, su una storia, su dei colori, dei profumi… poi non solo quella musica vive altrove all’interno del film, ma addirittura nel mio caso vive al di fuori del film stesso sui palcoscenici dei teatri.

CS: Questo perché il tuo lavoro per il cinema si inserisce perfettamente all’interno della tua poetica di interprete e di compositore. Si può considerare come musica applicata capace di vivere anche al di fuori dello stretto rapporto sinergico con le immagini.

PF: Si, certamente. Spesso nei miei concerti inserisco brani che sono nati per il cinema. È il caso, ad esempio de “Il viaggio” scritto per il film su Ilaria Alpi, nato per accompagnare le immagini del viaggio nei balcani fatto da lei con il suo operatore. Per cui diciamo che la mia scrittura per il film non è destinata soltanto al film per cui è stata pensata, ma nasce per sopravvivere al film, per vivere al di fuori della pellicola.

CS: Ma facciamo un passo indietro, il tuo primo incontro con il cinema e la musica da film?

PF: L’incontro con il cinema è stato casuale, come spesso accade. Il primo film per cui ho realizzato le musiche è Il prezzo di Rolando Stefanelli e non mi aspettavo tutto questo… nel senso che non pensavo - da concertista, da non “addetto ai lavori” - la scrittura per il cinema come uno strumento così potente, capace poi di alimentare il mio quotidiano, capace di diventare poi parte del mio repertorio di tutti i giorni. D’altro canto inevitabilmente la mia musica entra prepotentemente nella scrittura per il cinema, diventa suggeritore di ciò che al film viene offerto musicalmente. Forse perché, come dicevo prima, non sono un professionista della musica da film, e la mia formazione, il mio percorso musicale e artistico mi spingono inevitabilmente verso questa direzione. Sono un musicista che presta la propria opera al film, e che tendenzialmente cerca sempre di portare all’interno del film e della sua musica i propri musicisti. Mi viene difficile pensare di scrivere per il cinema senza che poi ne sia anche interprete. Sapendo che questa mia presenza può essere in qualche modo ingombrante e imbarazzante. Perché non solo la tromba è, di per sé, uno strumento che “buca lo schermo”, ha una sua fisionomia precisa, complessa, ma anche perché mi piace scrivere la musica per il film come in genere faccio con tutta la mia musica, ovvero pensando a dei musicisti precisi che poi ne saranno interpreti. Forse la ragione sta nel fatto che comunque dentro la scrittura si conserva un elemento di improvvisazione che resta imprescindibile, e che in chi scrive si lega a persone precise. Questo può essere anche un problema. Per esempio per restare a Il più crudele dei giorni, ebbi un incontro con il produttore che mi disse che trovava la musica veramente bella, ma che temeva fosse eccessivamente personale per quel film… 
Storicamente ci sono stati dei casi, basti pensare a Ornette Coleman (l’artista riconosciuto come il padre del free jazz ha collaborato con Howard Shore alle colonne sonore dei film Naked Lunch di David Cronenberg e Philadelphia di Jonathan Demme), a Charles Mingus (cui Elio Petri commissionò la musica per il suo film Todo Modo che, però, non accompagnò l’opera alla sua uscita). Si trattava di musicisti talmente grandi che in qualche modo hanno ostacolato la colonna sonora tanto che poi non sono state utilizzate le loro musiche, o almeno in parte. 
Quindi quando un regista mi chiede di scrivere, io nell’accettare dichiaro subito che intendo farlo alla mia maniera. So che non potrò mai realizzare della musica che risulti fedele alle esigenze di sincronismo con le immagini, ma che, partendo dal mio mondo musicale, che passa anche per l’improvvisazione, ricerchi l’emozione che si intende comunicare, riconoscendo che si tratta comunque di una scrittura con finalità e regole diverse che però non si allontanano in fondo poi così tanto da quello che amo fare quotidianamente. 
Ti confesso che, anche se mi rendo conto che questo non è ciò che normalmente accade quando si scrive musica da film, il fatto che la mia vita come artista, come jazzista, anche se questa è un termine che mi sta stretto,  non si dissoci dalla mia attività di scrittura per il cinema è una cosa che mi piace molto.

CS: Hai detto che la definizione di jazzista ti sta un po’ stretta, però resta quello il mondo a cui è possibile ricondurre la tua musica e la tua cifra stilistica. E’ forse anche per questa ragione che la tua scrittura per il cinema punta più sulla definizione di un ambiente, di un’atmosfera piuttosto che sulla perfetta coincidenza di immagini e suoni, come ci hai raccontato.

PF: Beh si, io lavoro più per atmosfere, per suggestioni e sono anche molto prolisso nello scrivere per il cinema. Per un film ho scritto anche venti brani diversi. Non lavoro di solito con l’idea classica del motivo conduttore, che poi si veste in modi diversi. La necessità di scrivere per un film mi spinge a produrre molta musica, ed è una cosa che a me piace moltissimo. Non sempre tutto il materiale viene utilizzato, ma quando penso alla musica per un film penso per colori, per situazioni, piuttosto che per motivi centrali… e sono i timbri, le atmosfere ad essere molto importanti. 
La musica deve saper interpretare il mood del film, per questa ragione scrivo molto e cose anche molto diverse tra di loro, che poi vengono scelte in fase di post produzione. Se il regista è uno di quelli che ama la musica, i brani a volte vengono poggiati sulle immagini e finiscono per essere loro a  guidare il montaggio stesso andandone anche a modificare quello che era l’impianto originale. E questo è molto interessante. Ho avuto modo di lavorare con registi che, come Cabiddu, Vicentini Orgnani, sono appassionati di musica, si crea allora quel rapporto di simbiosi per cui la musica riesce ad entrare all’interno del ritmo stesso del film, lo guida. In altri casi questo non accade perché ci sono comunque molti registi che pensano la musica come un elemento secondario, accessorio, funzionale alla storia del film.

Paolo FresuCS: Non è un caso allora che molti dei film che sono stati accompagnati dalle tue musiche sono pellicole che hanno un rapporto stretto con la musica, che in alcuni casi rimandano alla musica fin dal titolo. Penso al film di Cabiddu Passaggi di tempo - il viaggio di Sonos ‘e memoria (2005) un’opera che è difficile definire, che sfugge alle comuni categorie e resta sospesa tra la natura di documentario e di film-concerto. O a Sette ottavi di Stefano Landini (2006), in cui la musica è protagonista assoluta, o ancora al recente film di Vicentini Orgnani, il racconto fantastico Zulu meets jazz. Ancora il jazz che torna, un’idea di musica che, per citare un articolo di Fayenz di qualche anno fa (disponibile anche sul sito ufficiale di Paolo Fresu, www.paolofresu.it) ha fatto innamorare molti registi tra cui Olmi e Albertazzi con cui hai collaborato. Quali sono secondo te, se ci sono, i punti di contatto tra il cinema e la musica jazz? Ritieni che siano due linguaggi che possano ben integrarsi?

PF: Io credo di si. Come dicevo però resta comunque un rischio, nel senso che il jazz è una musica di improvvisazione, molto personale, dove il musicista mette dentro tutto ciò che possiede. È sicuramente interessante, perché resta una musica molto ricca ed espressiva capace di rimandare a mondi e colori diversi. Questo consente al jazzista di spaziare, di muoversi in regioni diverse dal punto di vista musicale, della scrittura, dell’orchestrazione. Il limite, come dicevo, resta quello che si tratti comunque di una musica molto personale. E alcune volte può rischiare di andare a pestare i piedi al costrutto del film. Per cui, in ultima analisi, anche la scelta di utilizzare la musica jazz all’interno di un film è una scelta personale che spetta al regista. Ci sono registi che amano questo genere e che tendono anche a dare al film un ritmo, un andamento jazzistico. E altri che non lo fanno. Certamente bisogna fare dei distinguo. Anche all’interno del jazz convivono realtà differenti, pur essendo una musica relativamente giovane, o meglio giovane e vecchia insieme tanto quanto il cinema. Anche nel cinema ritengo che ci siano registi che si possono avvicinare al jazz molto bene, e altri che con questa musica, con questo mondo, non hanno nulla da spartire.
O meglio le tecniche e le domande che pongono possono essere completamente diverse tra di loro e dipendono dal criterio di lavoro che seguono. Quando ho lavorato con Valia Santella per Te lo leggo negli occhi, dove c’era Nanni Moretti che era il produttore e la cui presenza inevitabilmente era molto forte, per me non è stato facile trovare il giusto equilibrio all’interno dell’economia dell’opera. Mentre con molti altri registi lavorare era stato sempre molto semplice. Spesso si trattava di persone che conoscevano già la mia musica, che scoprivo già amare quello che facevo, e per cui quando sceglievano me lo facevano per portare dentro la loro opera il mio mondo. Nel caso del film della Santella ho dovuto lavorare molto per trovare un equilibrio.

CS: Probabilmente deve esserci un pensiero comune, un modo di approcciare al film tra regista e compositore che sappia trovare dei punti di incontro, per consentire all’autore della colonna sonora di muoversi liberamente all’interno dell’opera in modo da portare un reale contributo. Questo credo si traduca poi anche nelle scelte dell’organico. Per Il più crudele dei giorni, cui hai fatto riferimento prima, e per L’isola della regista Costanza Quatriglio - che hai poi presentato al pubblico unendoli in un unico disco (“Paolo Fresu Scores!” ndr), hai fatto scelte molto diverse. Per il primo hai utilizzato diversi strumenti (pianoforte, quartetto d’archi, chitarra elettrica, percussioni), per il secondo invece hai scelto di affidarti soltanto alla tua tromba e alla voce di Dhafer Youssef. Come definiresti il tuo strumento, che sappiamo essere molto “ingombrante”,  e come lo vivi in relazione agli altri strumenti nel momento in cui approcci la scrittura di un lavoro per il cinema?

PF: Per Il più crudele dei giorni ho fatto una scelta che mi ha portato a legare gli strumenti ai luoghi e ai momenti del racconto. Per cui tutto ciò che era legato all’Italia, a Roma, agli ambienti Rai,  alla famiglia, veniva affidato al quartetto con una scrittura, forse solo apparentemente più tradizionale, piana, lineare. Per i Balcani, d’altra parte, ho utilizzato le  percussioni che acquisivano una funzione predominante e poi per raccontare Mogadiscio la presenza di Dhafer Youssef. Quel che si è ottenuto credo sia una sensazione di equilibrio, i suoni  del film sono legati a tre luoghi geografici ben definiti che diventano poi anche luoghi dello spirito. 
Nel caso de l’Isola invece il percorso è stato diverso. È stata la stessa regista a venirmi a trovare in camerino dopo un concerto che avevo tenuto a Roma in duo con Dhafer Youssef, e a dirmi che per il suo film avrebbe voluto la mia musica. Quello che per il film voleva era lo stesso mondo di suoni, che caratterizzava il nostro concerto. E così di fatto è stato. Ho lavorato su questa idea, per questo film che parla di bimbi, di vecchi, di mare in cui il suono della mia tromba e la voce quasi mistica di Dhafer ben si accompagnavano con quelle immagini. 
Diverso ancora è stato per il film prodotto da Moretti, in cui ho lavorato soprattutto con il quartetto, il pianoforte e soltanto in alcuni brani è stata inserita la tromba, anche per ragioni di tempi. Il film doveva essere concluso, eravamo in ritardo. I tempi erano molto stretti, bisognava lavorare d’estate ed io non ero disponibile, e si trovò una soluzione (ride) semplice e veloce che ci ha consentito di ottenere comunque un buon risultato.

CS: Purtroppo spesso nella realizzazione di un film si pensa alla colonna sonora quando il processo produttivo è molto avanzato. La fase delle riprese è già terminata ed in fase di post produzione si pensa a come vestire il film con una musica.

PF: Esattamente. Ed è un vero peccato, perché se ci fosse più tempo a disposizione si potrebbe lavorare in modo diverso, si potrebbe organizzare un percorso. Sarebbe bello se si fosse coinvolti ancora in fase di preparazione, quando il film non è ancora stato realizzato. Questo non accade quasi mai e non so se ciò vada interpretato come il fatto che la musica non è poi così importante… ma non credo sia così, o meglio non credo sia sempre così, o se questo accade per difficoltà oggettive di tipo organizzativo, economico. È forse normale che si cerchi con più urgenza di portare a casa il lavoro fondamentale, per pensare soltanto in un secondo momento alla questione della musica. Non sono neanche d’accordo sul fatto che nei titoli di coda il nome dell’autore della colonna sonora sia confinato in fondo… Credo che un film sia frutto di un lavoro di squadra e che il ruolo svolto dalla musica sia molto importante, e non lo dico da musicista.
Ripeto, dico questo non da musicista ma da spettatore, e da amante del cinema, la musica ha in un film un ruolo predominante, nel bene e nel male, e sono convinto che un bel film con una buona musica valga molto di più. Se pensiamo ad importanti coppie di autori che hanno fatto la storia del cinema, Fellini e Rota, Nyman e  Greenaway, Morricone e Leone, solo per fare gli esempi più scontati, c’è un rapporto talmente forte tra la musica e l’immagine nelle loro opere che diviene impossibile pensarle separate l’una dall’altra.

CS: In alcuni temi della tua colonna sonora per Il più crudele dei giorni mi è sembrato di ritrovare in qualche modo la “lezione” di Morricone, penso in modo particolare al brano “Canzone”, nella sua versione per pianoforte e soprattutto nella versione affidata al quartetto Alborada. Quali sono i tuoi rapporti con la musica degli altri autori di colonne sonore. C’è qualcuno che in qualche modo ti ha saputo indicare delle vie che hai ritenuto interessante seguire e approfondire?

PF: Probabilmente si! Credo naturalmente che Morricone sia un Maestro straordinario, per il modo in cui ha creato dei temi splendidi, per la sua capacità di orchestratore, è uno di quei musicisti che dedicando molto spazio della propria produzione alla musica da film ne ha fatto un “mestiere” eccezionale. Poi tra l’altro è anche un trombettista e questo non può che creare una certa affinità (ride). Beh, tra gli italiani ci sono stati diversi compositori che hanno saputo lasciare un segno con il loro stile: da Nino Rota ad Andrea Guerra e Paolo Buonvino, solo per citare alcuni dei giovani autori bravi, che hanno molte belle idee, e che conoscono bene anche l’orchestrazione. Tornando indietro penso anche a Piero Umiliani, a  Piccioni, musicisti di matrice jazz che hanno incontrato il cinema  e che per il cinema hanno scritto delle belle pagine di musica. Insomma credo che l’Italia possa vantare una buona tradizione che in parte si rifaceva alla musica americana di quegli anni, e in parte ad uno stile tipicamente italiano. Noi italiani restiamo senz’altro tra i più bravi a creare delle belle melodie, del resto il bel canto è qualcosa che appartiene profondamente alla nostra cultura e alla nostra sensibilità. Altrove altri bravi musicisti hanno certamente caratteristiche diverse che magari noi non abbiamo. La scrittura per il cinema, legata com’è al concetto della melodia che identifica un carattere, un personaggio, un momento del racconto, ha trovato senz’altro in Italia terreno fertile per lo sviluppo di tanti talenti, e si sono scritte delle belle pagine di musica.

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