Magia in scena: Intervista a Angelo Talocci
Magia in scena: la musica senza frontiere di Tablò
Forse Tablò, lo spettacolo ideato ed interpretato dal mago illusionista Gaetano Triggiano, con il suo incessante divenire sulla scena, il continuo spostarsi tra musical, illusionismo e teatro, solo sommariamente inscrivibile in un genere capace di renderne pienamente la portata d’intrattenimento, era davvero l’unica frontiera finora inesplorata dall’eclettico Angelo Talocci. Dopo la nostra conversazione sul suo scoring per il televisivo La stagione dei delitti (2004), pubblicata sul numero 11 della nostra vecchia rivista cartacea, la sua carriera ha continuato a muoversi con estrema duttilità in tutti gli ambiti audiovisivi, compresa – nel 2007 - un’inedita prestazione per Citto Maselli con la colonna musicale di Civico zero. Lo incontriamo quando, come sempre, è immerso nel più fitto lavoro presso gli studi della sua Spirito Sound, centrale romana per la post-produzione audio. Mentre compone per il promo di una nota casa di amplificazione, pensa già all’impegno del giorno seguente, completamente diverso per committenza e genere musicale. Ma è palpabile l’emotiva partecipazione con cui prende a parlare di Tablò, riconoscendone lui stesso la difficoltà di definizione:
Angelo Talocci: In effetti è stato un problema non indifferente. Anch’io mi sono documentato da quando ho iniziato a dedicarmi a questo mondo e sono convinto che si tratti dell’unico spettacolo di teatro con illusionismo, o di illusionismo con una storia teatrale. Il manifesto iniziale poteva confondere, perché rischiava di passare per un film. Poi è stata affinata l’intenzionalità del progetto ma l’unicità è rimasta: io ero tra il pubblico quando è stato presentato ad Atene nel gennaio del 2008 e c’erano delle vere e proprie esclamazioni di sorpresa. Qualcuno poteva anche immaginare, ma tutti si sono trovati davanti a qualcosa che va ben oltre il tradizionale. E la cosa bellissima è che fino ad oggi sono state già apportate delle modifiche senza snaturarlo: puoi metterci tutto quello che vuoi e toglierci tutto quello vuoi. La storia è essenzialmente quella di un uomo e della sua musa, ambientata in vari momenti storici e temporali. Se vogliamo aggiungere l’Egitto e le piramidi, possiamo farlo…La trama non cambia.
ColonneSonore: Come sei entrato a far parte del progetto?
AT: Avevo conosciuto Gaetano Triggiano in occasione di alcuni suoi spettacoli. Nel marzo 2005 mi è stato proposto il lavoro, siamo andati a Pisa – dove lo spettacolo veniva montato e provato - e abbiamo fatto un incontro con il regista, Serge Denoncourt: un approccio gelido, ma questo solo perché lui aveva già deciso di fare uno spettacolo con musiche di repertorio. Non immaginava che si potesse scrivere della musica originale per uno show di illusionismo e forse pensava anche che non ci fossero le disponibilità, non tanto economiche quanto di tempo; infatti avevano intenzione di partecipare al Festival della Versiliana, fissato per il 15 luglio e di conseguenza la scadenza per la messa a punto era davvero vicina. Poi ha iniziato a fare avanti e indietro tra Pisa e il mio studio di Roma, durante i fine settimana. Man mano che ha sentito le prima cose, soprattutto in termini di massa sonora, ha iniziato a darmi credibilità e a convincersi della fattibilità del progetto. In seguito, scusandosi, mi ha detto che loro, oltreoceano, sono abituati ad intendere la musica da film italiana esclusivamente come quella di Rota e di Morricone. Non poteva immaginare e non si aspettava questa mastodonticità musicale, pensava piuttosto al classico musicista con le tastiere e i sintetizzatori ed ecco quindi l’iniziale preferenza per il repertorio.
Chi è stato il tuo referente durante la produzione?
Sempre il regista, diversamente sarebbe stato impossibile perché l’interprete era impegnato con le prove e la costruzione dei numeri, anche se poi ci sentivamo al telefono. Quello che avveniva in studio, durante la lavorazione, è stato davvero divertente…
CS: Musicalmente, quali sfide ha rappresentato per te questo lavoro e quale reputi sia stata la più dura da portare a termine?
AT: Forse la sfida maggiore è stata quella di impegnarmi su generi che non sono tra i miei preferiti. Per esempio il pezzo della scena ambientata a Chicago: il coreografo rimase stupito dalla modularità ritmica, dall’uso della tromba con la sordina. All’inizio ho faticato, ma perché dovevo trovare l’idea – è facile fare un cosa di genere già sentita. E anche se non è uno stile che mi fa impazzire, ho cercato di metterci del mio. Stessa cosa per il brano successivo, con il classico piano ‘honky tonky’: è stato impegnativo, soprattutto nell’arrivare a quella particolare sonorità. Però poi è uscito tutto. Ad alcune soluzioni sono arrivato preso dai tempi strettissimi, magari alle 5 di mattina, una sorta di allucinazione e ancora non riesco a capire come ho fatto. Vivevo così quelle giornate, dovevo inventare e immaginare senza avere la minima idea di come sarebbero state le ambientazioni, se non attraverso le parole del regista: mi sono fatto trasportare.
CS: Dunque la composizione deve essere stata tanto anomala quanto complicata: puoi descriverne le fasi in dettaglio?
AT: Come ti dicevo è stato davvero divertente e mi pento di non aver montato una telecamera nascosta per poter rivedere tutto. Il regista aveva a disposizione solo uno scalettone dello spettacolo, che saltava da un pezzo all’altro senza continuità; una stesura a grandi linee tramite la quale sapeva cosa sarebbe successo. Il mio metodo, che avevo già adoperato in minima parte anche su altri lavori teatrali, è stato questo: abbiamo fatto in studio tutte le musiche. Lui mi raccontava tutto quello che succedeva in scena, lo simulava, contava i passi che si sarebbero fatti sul palco e io partivo con il pezzo. Le uniche cose che sono riuscito ad avere prima sono state alcune coreografie dei balletti. Inizialmente mandavo io le ritmiche, ma poi per “avere gli otto” abbiamo fatto delle riprese fisse di alcuni numeri, io ci montavo sopra una griglia ritmica con battito di metronomo o batteria e da lì prendevo i sincroni. La ritmica la sceglieva il regista – diciamo 100 bpm piuttosto che 90 – e io mi orientavo di conseguenza. Quando per esempio Gaetano ha finito di preparare il numero con i cubi, mi ha mandato la tempistica e su quella ho lavorato. Ovviamente poi una prova con gli attori, soprattutto con lui, andava fatta: dal brano che gli mando, dalla sua gestione non solo ritmica ma anche melodica e armonica, arrivano dei segnali che deve assimilare. In seguito, quando abbiamo modificato alcune scene, Gaetano conosceva il metodo, sapeva quello che potevo fare e ne teneva conto. Raramente abbiamo accorciato qualcosa per metterlo a synch su di lui. Stesso discorso per le coreografie di ballo: mandavo i pezzi completi. Se avessi modificato qualcosa dopo, magari aggiungendo o sottraendo musicalmente, avremmo corso il rischio di falsare tutto. Addirittura quando le tracce furono inizialmente spedite in 5.1, ci rendemmo conto che l’ascolto nel teatro risultava anomalo – anche sul pezzo più semplice ai ballerini tornava qualcosa di strano e abbiamo dovuto lasciarlo in stereo. Perché se mando una registrazione con dei corni francesi e poi li tolgo, a loro potrebbe venire a mancare un segnale per un anticipo o per qualcosa che dovrà accadere. Tant’è che ascoltando attentamente alcuni brani questi segnali si notano.
CS: C’è stato un numero particolarmente difficile da accompagnare musicalmente?
AT: Forse quello delle spike, ma più che altro per Gaetano, perché prima di Tablò lo eseguiva con un pezzo dance, che io naturalmente conoscevo quando ho iniziato a comporre. Il problema è che un pezzo famoso può anche essere molto squadrato e l’artista può pensare erroneamente che attiri maggiormente l’attenzione. La fatica è stata disabituare l’artista a quei movimenti, ripartire da zero.
CS: L’evidente predominanza della componente ritmica nel tuo score non sovrasta mai un avvolgente impianto melodico-tematico. Puoi riassumerne le linee principali?
AT: La canzone di Eva è il tema principale, che si ripete anche con una vocalist ne “La fontana della vita”, ed è continuamente variato: 3/4, 2/4… C’è poi “The Mirror of Shape” – il brano che chiude lo spettacolo - che era venuto fuori per una particolare esigenza ma che in seguito è cresciuto d’importanza. Esiste inoltre una versione dance del tema di Eva – la si ascolta mentre il teatro si svuota – che non siamo riusciti ad inserire nel CD per questioni di tempo. Allo stesso modo alcuni estratti presenti nel disco sono differenti da quelli poi usati in scena, a causa di modifiche dell’ultimo momento dovute ai balletti o perché rifatti di sana pianta.
CS: Lavorare ed interagire con gli effetti sonori di scena è stato diverso rispetto all’approccio cinematografico o televisivo?
AT: Diciamo che in questo caso il lavoro era facilitato dal supporto musicale, perché tutti gli effetti, eccetto qualche rumore ambiente, venivano generati da un synch di riconoscibilità della musica. Lo si può fare su ogni scena con la musica già stesa: sai che butterà qualcosa sempre in quel momento e allora aggiungi l’effetto. E’ stato fatto a posteriori, come avendo a disposizione il film in proiezione. Della base si è occupato uno dei miei collaboratori, Alessandro Salvatori, poi per esigenze di tempo - per la prima di Atene sono state fatte delle modifiche in tempi stretti - sono subentrato io.
CS: Come d’abitudine, per l’esecuzione della partitura ti sei affidato alla tua notevole competenza con i campioni e le bank digitali, ad iniziare da Vienna Symphonyc Library. Puoi dettagliare la tua prassi in questo senso e cosa è cambiato nella tua scelta dei suoni dai tempi de La stagione dei delitti?
AT: Sono usciti degli aggiornamenti. Avevo già aggiunto la Vienna con la East West, che è concepita diversamente, ma essenzialmente il vero cambiamento c’è stato nel dicembre del 2007 quando ho aggiunto la Cube, un upgrade della Vienna. Le differenze ci sono: prima di tutto il 24 bit, che si sente in quanto a resa e profondità del suono. Poi ho notato un grande scarto nel suonare Vienna su Gigastudio anziché sulla nuova piattaforma autonoma, dove il risultato è davvero buono. Con Gigastudio il suono sembra sempre leggermente velato e la dinamica è inferiore. Questo vale anche con motore e player East West. Io non adopero l’orchestra campionata per voler emulare tutti i canoni di quella vera. Cerco qualcosa che possa sembrare irreale, anche se la coloritura resta elettronica. Quando scrivi su carta puoi destreggiarti quanto vuoi ma devi comunque attenerti ai limiti di registro degli strumenti. Ma principalmente parlo del sound. Su Vienna ad esempio oggi ci sono queste nuove tipologie d’archi, l’ultima è l’Appassionata: non 11 o 12 violini, ma qualcosa come 22 o 24, una massa veramente cinematografica che magari in America, dal vero, possono anche permettersi ma che qui da noi è più difficile da ottenere. Senti che il segnale delle sezione è completamente diverso. Per quanto riguarda la mia prassi, non ci sono trucchi: bisogna sganciarsi da quella che è la mentalità dello scrivere prima e del suonare dopo, quelli strumenti devi eseguirli tu. La difficoltà è solo questa. Io non mi metto a fare le regolazioni. Creo un determinato impasto sonoro in base alla dinamica, alla potenza. Sono tutti file midi che suono in tempo reale, il file audio è solo quello finale. Potrei farlo su piste separate e poi missare, ma c’è il rischio che non si riesca a tirare fuori tutto quello di cui ho bisogno. Io non quantizzo e non duplico, salvo rari casi: suono tutto e in tutte le sezioni; se una parte si ripete risuono anche quella. Ascoltando il pezzo di Chicago si noteranno alcuni evidenti errori di battiti, il rullante che quasi ‘s’impiccia’. Alla fine abbiamo lasciato tutto. Perché se rimangono queste imprecisioni e acciaccature, quelle che io chiamo “svizzere”, l’effetto è unico. La quantizzazione invece si sente, vengono fuori delle controfasi, tutto viene messo sullo stesso asse: ma dove stanno due violinisti che suonano perfettamente allo stesso tempo?
CS: L’iniziale riserva del regista sull’utilizzo di musiche originali potrebbe essere nata proprio dall’impossibilità di utilizzare l’orchestra?
AT: Il problema non se l’è proprio posto perché siamo passati subito all’atto pratico. La prevenzione era solo legata all’utilizzo del repertorio. Ci tengo però a dire una cosa: se qualcuno mi offre un budget con cui è possibile registrare una colonna sonora come questa con l’orchestra io sono il primo ad accettare. Ma quella disponibilità economica non c’era e non c’è. La prima stesura di Tablò è stata fatta nell’arco di 40 giorni circa. Senza la possibilità di usufruire di questa strumentazione, di poter lavorare in tempo reale, di fare manipolazioni, non sarebbe stato possibile. Ma è una questione di tempo, non di qualità compositiva. Se devi fare una scena d’azione e l’orchestra non è preparata devi provare, il che significa più tempo e più soldi. Poi mi piacerebbe sapere perché andiamo a registrare all’estero quando abbiamo tantissimi esecutori che escono dal conservatorio e non possono suonare. Basterebbe un incentivo, una detassazione ai turnisti per rimettere in funzione le sale che abbiamo in Italia – indipendentemente da quanti fiati e violini ci sono a disposizione. Detassare affinché i produttori possano andare a registrare al Forum di Roma piuttosto che a Sofia o a Praga. Non ho nulla contro queste orchestre, ma noi abbiamo gente altrettanto valida e inoltre si ridarebbe al conservatorio la giusta funzione di vivaio, ricreando peraltro un indotto non indifferente. Non parlo solo di commenti cinematografici o televisivi, ma anche di orchestre per show di varietà e quant’altro. Purtroppo però di questo nessuno parla.
CS: Qual è stato finora l’iter di Tablò?
AT: Dopo l’esordio alla Versiliana nel 2005 – più che altro un test – è stato allo Smeraldo di Milano per 3 settimane. Sarebbe poi dovuto andare a Montreal ma per alcuni problemi è stato presentato solo qualche frammento. Abbiamo dovuto affrontare la questione del mercato italiano, anche se al di là della consulenza di Arturo Brachetti lo spettacolo è quasi interamente creato da artisti del Cirque du Soleil, perché da qui partivamo, ma la collocazione non è semplice. E’ venuto fuori uno showcase in un paesino della Toscana, scelto per ragioni logistiche e turistiche, nel 2006, a cui hanno partecipato molti distributori internazionali. Infine una società olandese ha portato lo spettacolo ad Atene: qui, dal 6 all’11 febbraio, sono stati dichiarati 18.000 spettatori – ma noi pensiamo fossero anche di più. Ora stiamo aspettando delle risposte per una tournée. E’ un spettacolo solo apparentemente costoso, ma certo può intimorire. Nel frattempo, a conferma di quanto abbia già influenzato altri spettacoli, un giornalista d’oltreoceano, che non poteva conoscerlo, è stato informato e ci ha informato che un altro spettacolo di illusionismo emulerebbe Tablò. Significa che c’è davvero qualcosa di nuovo e funzionale.
LA RECENSIONE DEL CD DELLO SPETTACOLO:
Angelo Talocci
Tablo (2008)
A&G Records - Edizioni Rai Trade CDAG17
30 brani - Durata: 67'58"
Per un professionista della musica applicata attivo nel contemporaneo panorama italiano, notoriamente privato di un definito sistema di generi sin dalla fine degli anni’70 e soverchiato dal preponderante dominio esercitato dal dramma e dalla commedia, confrontarsi con il commento di uno spettacolo anomalo come Tablò potrebbe essere il peggiore degli incubi o l’avverarsi del miglior sogno nel cassetto. Più unico che raro sulla scena teatrale, tanto europea quanto internazionale, il progetto dell’illusionista e interprete Gaetano Triggiano (Grand Prix agli Internazionali d’Italia nel 1999) mescola istanze di magia spettacolare a là Copperfield, uno spirito saltimbanco tipico del Cirque du Soleil (da cui proviene il regista Serge Denoncourt), connotazioni musical e pennellate mélo nelle modalità sdoganate da Riccardo Cocciante con la sua opera popolare, miscelando senza soluzione di continuità riferimenti cinematografici e d’intrattenimento tra i più diversi e apparentemente inconciliabili: Matrix e il cinema muto, Shakespeare e il vaudeville, Cabaret di Fosse e il grand guignol, passando per le giungle impervie memori del King Kong di Schoedsack e Cooper. Il tutto risultante in una tenuta narrativa soddisfacente - che sa illuminare debitamente i notevoli numeri di Treggiano senza perdere di vista la storia - garantita soprattutto dal fil rouge di una traccia universale: una passione amorosa che travalica il tempo e lo spazio. Incubo, dunque, per il compositore italiano calato in un cinema nazionale che difficilmente, almeno negli ultimi vent’anni, può avergli offerto la scuola necessaria per confrontarsi con un simile strumentario estetico – quell’eclettismo specialistico che oltreoceano (ma sempre più anche in Francia e in Spagna) s’impone come tassativa credenziale per l’accesso al professionismo – e sogno per il musicista magari cresciuto nella copiosa richiesta di mestiere e duttilità, spesso considerati imbrattanti per le mani dell’autore, da parte di quel frangente dell’industria audiovisiva che spazia dal video alla pubblicità, dai format al seriale, dai jingle televisivi al documentario. Dove i modelli e il linguaggio della musica di genere è reclamata a piena mani.
Senza ignorare le voci cinematografiche che attraversano il suo curriculum (l’ultima, una svolta intimista per il film di Citto Maselli Civico zero nel 2007), la figura di Angelo Talocci sembrava candidarsi automaticamente per l’incarico, facilitata da un excursus carrieristico nella televisione abbondantemente riassumente la citata lista di esperienze. Un catalogo che ha riempito negli anni le più gettonate library italiane di estratti musicali pronti all’utilizzo catodico in virtù di un’inclinazione - non comune nella produzione autoctona - per le sonorità ad alta spettacolarità tipicamente hollywoodiane, in spiccata sintonia con il linguaggio mastodontico coniato dalla ex-Media Ventures di Zimmer & Co. Eppure, una volta salito a bordo, anche equipaggiato della preparazione più eterogenea e della competenza raggiunta in ambiti che risulterebbero perlomeno “scomodi” ai colleghi più noti, Talocci si è comunque ritrovato a fronteggiare problematiche inedite, ad iniziare proprio da un pungo di ambientazioni nuove persino per il suo bagaglio professionale e da un processo di composizione intuitiva, basato sull’impossibilità di visionare lo spettacolo ultimato prima di stendere il materiale musicale, per altro necessitante di stretti sincronismi con l’azione scenica.
Anche alla luce di un simile retroscena, lo score offerto allo spettacolo che ha esordito nel 2005 al Festival della Versiliana è ragguardevole. Talocci, bissando i traguardi sonori raggiunti con la sua partecipazione alla prima stagione de La stagione dei delitti (per citare uno dei suoi lavori più noti), ha fatto la differenza avvalendosi di uno score sonico capace di avvalorare un impasto fortemente sinfonico senza tradire, almeno in larga parte, l’origine integralmente elettronica della sua strumentazione. A conti fatti e in valutazione della resa sulla messa in scena, forse l’unico trattamento capace di rispondere compiutamente al respiro gotico e spettacolare dello show. Spettacolo che con i suoi forti colori luministici, lo sfarzo scenografico e l’aspirazione coreografica difficilmente avrebbe giovato di miglior controparte sonora. Come difficile sarebbe immaginare un diversa punteggiatura musicale per i fondamentali quadri di magia e illusionismo su cui si dimensiona l’intera rappresentazione. La ritmica imperversante – un tratto distintivo del comporre del musicista – è l’elemento che più s’impone come necessario a tutti i livelli e in tutti gli scenari: i balletti in stile vecchia America (“Ballet to Chicago”), il piano honky tonky (“The Table of the Game”), l’animata pennellata provenzale della fisarmonica in “The Java” e la parata medievale di “Romeo and Juliet”, fino ai massicci ostinato per archi e ottoni, che rappresentano davvero il punto d’unione del musicista con la scuola americana. L’impasto postmoderno di Don Davis per Matrix, la muscolare robustezza delle fasce zimmeriane ma anche le personalizzazioni sgorgate dai lavori di Harry-Gregson Williams e John Powell (che in “Jungle Mur” sembra chiamato in causa anche per il suo operato nell’animazione), sono evidentemente, e frequentemente, alla base degli slanci talocciani. Sono anche gli interventi dove maggiormente si rintraccia l’expertise nella fusione dei campioni orchestrali cui il compositore da tempo riesce a conferire una genuinità soddisfacente – seppur sempre intesa su scale di grande impatto e voluminosità – anche per l’orecchio più critico nei confronti dell’emulazione sintetica e indubbiamente beneficiata dall’esecuzione live di tutte le sezioni; una prassi sganciata dal trend del sequencer che si evidenzia nel movimento parallelo delle masse strumentali, un articolazione cumulativa che conferisce forza e spessore a passaggi tra i più facili da sbagliare in sede elettronica (“The Beginning of the War”, “Kidnapped and Forced”, “The Infinity War”).
Il contraltare a questa possanza ritmica è una corposa imbastitura melodica altrettanto significativa, se non altro ai fini della citata, pulsante traccia romantica del racconto e quindi necessariamente allocata in un procedimento tematico. Sovrastante in questo senso è “La chanson de Eva”, spina dorsale della partitura costruita nella sua versione principale su di una rutilante linea marciante attraversata da un’elegante pianismo richiamante Andrea Guerra e intervallata da sviluppi per violino e fisarmonica (ma merita attenzione anche il felice arrangiamento in “Giulietta”). Una cartina di tornasole della capacità e dell’ispirazione melodica insite nel tocco di Talocci. Ad esaltarle ci sono la voce passionale di Pascale Montreuil (su liriche del regista) e le avvolgenti aperture vocalizzanti di Oriana Dimitrijevic in “The Fountain of Life”, una pagina imprescindibile dell’intero lavoro.
Gli ultimi atti dello spettacolo offrono anche esempi di integrazione con linguaggi di maggior modernità – su tutti l’innesto di chitarra elettrica e batteria prog nel formidabile “Mitrorange” – e un utilizzo puro delle risorse elettroniche (i pad metallici in “Intostomac”, estratto indicativo della caratura marziale dello score).
Tra sogno e incubo, insomma, Talocci ha consegnato un esito collocabile artisticamente proprio al centro dei due estremi: pathos romantico nella calorosa impronta melodica e propellente dinamica ritmica. Il CD restituisce abbondantemente le sfaccettature dello spartito in 30 generose tracce. Che meriterebbero almeno un ascolto anche da parte dei detrattori dell’elettronica emulativa tanto quanto dai meno affini all’estetica apertamente forgiata sui canoni della Media Ventures, elementi di cui, come palesato, lo score di Talocci non vive unicamente. E anche mantenendo riserve sul tracimare degli archetipi zimmeriani e ancora convinti della loro discutibile funzionalità nella produzione d’oltreoceano, Tablò guadagna il merito di materializzare un’alternativa su un fronte italiano che di tracimazioni stilistiche e vizi autoriali vive ormai da troppo tempo. Ben venga allora il tentativo di una voce differente, con buona pace dei trend da cui prendere le distanze, se in grado di colmare una lacuna, offrire una nuova strada, estendere le possibilità di espressione e soprattutto adempiere perfettamente ai bisogni e alle potenzialità del referente narrativo.