Intervista esclusiva a Sandro Di Stefano.

L’opera principale è il film, non la musica sola: Intervista esclusiva a Sandro Di Stefano.

Lo inseguivamo da tempo e finalmente lo abbiamo incontrato, il Maestro Sandro Di Stefano, compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra e sound designer, nonché docente di corsi sulla musica applicata. Nato nel paese che ha dato i natali a Nino Manfredi, Ceccano, Di Stefano si è diplomato brillantemente presso il Conservatorio di Musica "A. Casella" de L’Aquila. Da studente si aggiudicò la Borsa di studio in 'Composizione e arrangiamento di musica da film’ , si è quindi specializzato al Cet sotto la guida del famoso compositore di colonne sonore Stelvio Cipriani.

Nel suo curriculum vi sono circa una sessantina di lavori per miniserie, teatro, documentari, corti, spot e film di vario genere sia in Italia e Germania che in Belgio e negli Stati Uniti. E’ salito come direttore sul podio di varie orchestre nel mondo, quali, tra le altre, la Bulgarian National Radio Symphony Orchestra di Sofia e l’Orchestra MediaPro di Bucarest, e registrato pezzi per artisti come Ornella Vanoni, Mario Lavezzi, Eugenio Bennato, Arturo Sandoval, Fabrizio De André.
Nel nostro Paese ha scritto le musiche molto diverse fra loro per film quali Una vita da sogno con M. Ceccherini, A. Paci, C. Del Basso, Fantasticherie di un passeggiatore solitario con Luca Lionello (Premio Berenice Miglior Colonna Sonora 2016 e Premio Miglior Musica al Coruna Film Festival - FKM), Deline e Amorth, l’esorcista entrambi di Giacomo Franciosa, Seconda Primavera di Francesco Calogero, Janara, la strega di Benevento, prodotto dalla Warner ed al momento in USA ha concluso un ciclo di tre film con il regista Giorgio Serafini.
Con il film The Eve di Luca P. Machnich ha vinto i premi 'Miglior Musiche originali del Los Angeles Horror Competition (USA, 2015)'. L’attività didattica è una parte importante della sua missione, ha tenuto lezioni e laboratori specializzati presso il Centro Sperimentale di Cinematografia ed in importanti istituzioni italiane ed europee, dedicandosi alla creazione di programmi originali concepiti per lo studio pratico e teorico per gli Amministratori, Editor Video e Compositori. E’ docente di "Tecniche di composizione musicale" presso il Conservatorio F. Ghedini in Italia e il CESMA in Svizzera, tiene workshop sulla musica da film presso la Scuola Sentieri Selvaggi di Roma.

Colonne Sonore: Come ti approcci solitamente alla colonna sonora di un film?
Sandro Di Stefano: Tutto di pancia, nessun progetto precostruito. L’emozione ed il coinvolgimento nella storia assumono solo i connotati della vita reale. Secondo Bela Balazs esiste una partitura della vita di cui noi tutti facciamo parte, siamo uno dei timbri di questa grande partitura. Dunque, ci viene chiesto solo di riconoscere ciò che ci circonda: i suoni, le emozioni, le facce, i particolari, gli umori, le reazioni, la musica che proviene dai bar, dalle automobili, etc. Tutto questo è contenuto nella vita. Quando poi ci troviamo di fronte ad un film, tutto deve essere naturale, approcciandosi solo nella semplice osservazione di quella partitura. Anche nella vita avviene la diegesi e la extradiegesi musicale, basta solo stare attenti e siamo tutti sonorizzati o ci sonorizziamo inconsciamente. Quindi va da sé che ogni suono, ogni emozione, ogni personaggio, deve poter dialogare con l’altro. Mettere in moto questo dialogo significa essere in grado di capire quando parlare e quando stare zitti, come in un normalissimo dialogo educato fra persone, e vuol dire altresì avere l’umiltà di comprendere che l’opera principale è il film, non la musica sola. Se, nella vita reale, due persone stanno parlando fra loro, non posso entrare inopportunamente e chiedere “Scusi, che ore sono?”. Non sarebbe opportuno, educato interrompere una conversazione altrui. Allo stesso modo, la musica nel film deve rispettare i dialoghi, reali ed emotivi, fra persone e suoni presenti in quel momento. Poi esiste la tecnica. La tecnica è quel cassetto dove sono riposti gli arnesi di lavoro, utili come quelli di Michelangelo per scolpire la pietra. Ma come disse proprio Michelangelo: “Non creo figure scolpendo il marmo; tolgo solo il marmo che non serve”. Ecco, questa sua visione mi ha sempre affascinato e cerco di riportarla nella musica, nel film; avere l’obiettivo preciso di quello che si vuole dire, fare, guardando un blocco intero amorfo, significa penetrarlo con l’immaginazione a tal punto da vedere nitida la figura che vogliamo tirare fuori. Quasi metafisico, sovrannaturale, mistico e allo stesso tempo terreno. Questo è il compositore di musica da film. A differenza del compositore di musica assoluta (da concerto, per capirci o comunque non applicata), il compositore di musica da film è come un pittore che trova il disegno a matita già presente nella tela, gli viene richiesto solo di colorarlo, individuarne la prospettiva e le profondità, l’insieme dei colori. Se invece di fare questo, lui cambia il disegno per difficoltà nel relazionarsi con esso, non è più la sua missione, non è il suo lavoro. Egli non crea dal nulla, contribuisce ad un’opera, fa parte di un’opera. Il concetto esistenziale di Carmelo Bene circa il capolavoro “Non bisogna fare capolavori, bisogna essere capolavori” è esattamente questo: essere un tutt’uno, contribuendo - nel nostro caso - a tirare fuori quell’alchimia complessiva già presente nell’opera filmica stessa, annidata in quel blocco marmoreo di prima.



CS: Quali sono le tecnologie che usi quando ti appresti a scrivere una score?
SDS: Oggi, onestamente, molto si può chiedere all’informatica musicale, di cui sono un assiduo utilizzatore, ma dipende da cosa dobbiamo fare con esattezza. Non amo chiedere al computer di imitare l’essere umano, amo chiedergli cose che l’essere umano non potrà mai fare, semmai insieme all’essere umano. A volte è anche una questione di limiti strumentali ma in ogni caso do sempre priorità all’esecutore in carne ed ossa perché la musica ha bisogno della sua umanissima sensibilità, di quel respiro che non fa più parte del compositore ma dell’esecutore, il quale sta facendo il suono di quella idea scritta sulla carta.
Con i dovuti distinguo, mi viene in mente J. S. Bach ed il suo percorso professionale. Bach - famoso per aver operato solo all’interno dei confini della Germania - ha girato varie città e corti. Il suo lavoro consisteva nello scrivere una quantità giornaliera di musica davvero elevata e di qualità. Esistono delle composizioni di Bach davvero rappresentative ed altre poco meno. Esistono sue differenti versioni delle medesime composizioni, semplicemente trascritte ed adattate da egli stesso per altri strumenti.
Questo perché durante quei suoi cambi di corte, di città e di committenti, aveva a disposizione esecutori di alto profilo oppure altri meno dotati. Doveva dunque accontentarsi ed allora gli veniva in mente - ad esempio - che quel dato brano per violino scritto - semmai a Lipsia - poteva anche essere adatto per quel bravo liutista di Weimar che aveva li a disposizione, perché il violinista di Weimar casomai non era poi un granché di esecutore. Oggi per noi compositori - sempre con i dovuti distinguo - nel nostro secolo non è pensabile di adattare nostre composizioni per svariate ragioni, creative ed editoriali; però questo breve racconto su Bach ci insegna come un compositore a cui viene commissionata musica deve essere in grado di ingegnarsi di fronte alle necessità, alle criticità in quello che si chiama ‘lavoro’. Venendo al punto più specifico, è importante capire se il film stesso necessita di un suono importante oppure modulabile e controllabile. Se la storia lo consente, esistono molte possibilità offerte dalle nuove tecnologie, opportunamente miscelate con l’invenzione soggettiva del compositore. Nella mia produzione ci sono state colonne eseguite interamente solo con un pianoforte; altre che hanno richiesto lo spiegamento della grande orchestra; altre - come nella mia colonna del film premiato al Chioma di Berenice, Fantasticherie di un passeggiatore solitario - dove progettai un suono misto, fra l’elettronica più spinta e i suoni orchestrali più tradizionali. Un premio importante che rientra nel concetto di artigianato. Per me è stata una grande soddisfazione, oltre che una sorpresa. Sono entrato in cinquina molto silenziosamente ed a me bastava questo, che già ritengo un risultato. La giuria ha voluto premiare ulteriormente il mio lavoro d’artigiano conferendomi la Chioma di Berenice 2016. Sono davvero grato e felice di questo apprezzamento, anche perché il Presidente di giuria è stata Lina Wertmuller che per me è un mito vivente. Un premio all’artigianato, quell’artigianato di noi compositori per il cinema che misuriamo e vestiamo di emozioni un film. È un mestiere molto complesso dove la componente principiale è l’onestà intellettuale. Essere premiati con un Premio di questo livello equivale a ricevere un apprezzamento al proprio lavoro svolto, e questo mi fa molto piacere che sia stato compreso. Fantasticherie di un passeggiatore solitario è stato un film molto particolare: costruito su tre livelli narrativi e piani temporali differenti, dove una certa applicazione sonora trovava la giusta collocazione timbrica. Altri film hanno richiesto da subito un suono elettronico (per ‘elettronica’ intendo manipolazioni di materiali sonori esistenti e/o suoni non presenti in natura); altri film hanno richiesto cori, grande orchestra, una scrittura orchestrale, anche old school, specie in USA dove ultimamente sono più collocato lavorativamente. Ad esempio nel film Janara - la strega di Benevento - ho scritto per doppia orchestra e doppio coro, ovviamente sovraincidendo sia l’orchestra che il coro. Questa doppia incisione però non si riferisce alle medesime note musicali come rafforzativo, bensì ad una vera e propria doppia scrittura per due sezioni complete d’archi e due cori diversi, creando una dicotomia armonica, melodica e ritmica piuttosto spiazzante, Janara è un thriller. Ovviamente per fare questo è indispensabile avere a disposizione un’orchestra di livello e scelsi l’orchestra della Radio Nazionale Bulgara di Sofia, registrata da Marco Streccioni e dal suo staff. Sono molto contento del risultato finale, grande suono. Anche il coro, il Josquin des prez, preparato dal mio amico direttore Mauro Gizzi, ha fatto un grande lavoro raggiungendo un suono giustissimo per quel che avevo in mente di ottenere. Sempre per questo film, ho avuto la possibilità di avere in colonna e dirigere Pietra Montecorvino che con il suo timbro unico di voce ha fatto metà del suono che avevo in mente. E’ un’artista straordinaria. Pietra, insieme con Eugenio Bennato, eseguirono altresì il brano dei titoli di coda di Janara. I testi sono di Eugenio ed il risultato è una canzone mainstream con connotazioni geografiche ben precise che racconta la storia della ‘Janara’, il brano si chiama “E’ na janara”.

CS: Raccontaci il percorso creativo che dalla sceneggiatura ti porta alla partitura finale? E il rapporto diretto con il regista e il montatore che in taluni casi usano la tanto odiata, dai compositori, temp track?
SDS: I registi amano inviare la sceneggiatura, si aspettano sempre commenti che nulla hanno a che fare con la musica in un primo momento. Ricevo molte sceneggiature e non riesco a leggerle mai tutte perché lo trovo un lavoro faticoso. Amo servirmi della sceneggiatura solo mentre lavoro ai temi. In un primo momento adoro ricevere il soggetto, un breve trattamento visto da lontano ed il punto di vista del regista, cosa vuole. A volte segue subito la scrittura, a volte si attende il primo girato, dipende. Ad esempio, in Seconda Primavera di Francesco Calogero partimmo da molto lontano, leggemmo varie stesure della sceneggiatura ed iniziai ad individuare il suono orchestrale secondo me giusto per quel film. Ricordo che Calogero aveva un’idea molto convinta circa il tema principale del film, che era - concettualmente vicina - al frühling di Strauss che lentamente, proposta dopo proposta, è diventato un’altra cosa, ma ho capito che il regista non aveva bisogno di quel brano (le note) ma di alcune sensazioni emotive che quel brano gli trasmetteva. Quando capii questo capii il film e diedi il ‘La’ all’intera colonna sonora, snocciolando tutti i temi del film. Questo film contiene anche un brano non mio, “La canzone dell’amore perduto” di Fabrizio De André. Calogero mi chiese se potevo realizzare una nuova versione orchestrale di questa canzone, allora pensai di stravolgerla completamente giacché dovevo toccarla. Ebbi l’autorizzazione a farlo dall’editore originale, ovvero il compianto Piero Colasanti. Chiesi all’amico Mario Lavezzi di interpretarla vocalmente ed il risultato è stampato nei titoli di coda del film, spero sia piaciuto, è il nostro omaggio a De André. Questo per dire che siamo chiamati anche come arrangiatori talvolta, non solo come compositori. Solo che in questo caso - su questa versione del brano non mio - sono accadute un paio di cose volute: questa versione ha lo stesso suono della colonna del film e dentro l’orchestrazione sono presenti alcuni procedimenti tematici che appartengono alla colonna sonora originale. Quindi una fusione assoluta fra timbro, canzone e colonna originale. Il rapporto con la figura del regista in generale, umanissima entità sovrana con il potere di scelta, è che lui potrebbe trovarsi in disaccordo con quello che noi autori proponiamo; non capita spesso per fortuna, ma mi è successo di essere convinto di una proposta per poi vedermela bocciare. Questo capita, certo, fa parte del mestiere, l’importante che dall’altra parte ci siano però le idee chiare oppure si lasci la libertà al compositore di fare le sue proposte. In passato - remoto - mi è capitato di lavorare con dei registi assai autoreferenziali che confondevano la trasmissione del loro punto di vista con l’imposizione di un preciso stile senza attendere la proposta del compositore o decidere di farsi sorprendere. Ecco, questo mi piace meno. Essere un juke box che compila il film con incrocio di lettere e numeri non è esattamente quello che avrei deciso di essere professionalmente e moralmente.



CS: Ti è capitato di affrontare alcune difficoltà, all’apparenza insormontabili, scrivendo una colonna sonora?
SDS: Si, nel 2012 conobbi il succitato Francesco Calogero in occasione del suo lavoro filmico Nella terra del Padrino, prodotto anche da Rai Cinema.
Questo film racconta tutti i retroscena de Il padrino di Francis Ford Coppola ed io mi trovai ad essere contattato da Calogero per un motivo particolare: quel documentario non aveva ottenuto l’autorizzazione all’inserimento delle musiche originali di Nino Rota. Cosa direi castrante in quanto di diretta conseguenza, visto di cosa tratta, ed allora era necessario un intervento musicale molto delicato. Ricordo che fu un momento assai imbarazzante perché da una parte avevo il grande riferimento di Nino Rota e non mi andava di mettermi a fare il ‘rotino di scorta’ scimmiottando le musiche originali del film; e dall’altra parte però ero cosciente che stavo mettendo le mani su un’opera universale della quale chiunque al mondo conosceva la musica originale. Mi venne in mente di relazionarmi con due elementi che mi avrebbero tirato fuori da quell’imbarazzo creativo: il primo riguarda la geograficità dei timbri, quindi Sicilia; l’altro riguarda i procedimenti armonici e melodici storicamente tipici di un certo Sud d’Italia. Quindi ne uscii proponendo una musica che tenesse conto degli aspetti culturali piuttosto che di riferimento al film, cosa quest’ultima che in ogni caso non avrei mai fatto.
All’interno poi realizzai anche una versione del brano cantato da Vito Andolini bambino (Don Vito Corleone) “Lu sciccareddu”. E’ una canzone popolare siciliana che nel film originale fu curata non da Nino Rota bensì da Carmine Coppola. E’ un brano di dominio pubblico e feci semplicemente la mia versione, arricchendola armonicamente ed anche qui - come nel film - la feci interpretare da una vocina di bimbo. Questo si poteva fare, rientra nelle mansioni richieste ad un compositore/arrangiatore.



CS: Perché sei diventato un compositore di musica applicata?
SDS: Domandona. Io sono del 1969, da bimbo rimasi letteralmente fulminato da una musica che poi scoprii essere quella di Metti una sera a cena di Ennio Morricone. Non avevo gli strumenti (ancora non studiavo musica) per capire la musica ed il cinema ma ricordo che musicalmente restai affascinato da questa “canzone” che ripeteva le stesse tre note in maniera quasi ossessiva. Con ogni probabilità si depositò in me ed infatti più avanti iniziai ad interessarmi a questo genere musicale notando che il mio respiro musicale era aderente a quel genere. Da ascoltatore - mentre continuavo gli studi in conservatorio - iniziavo a scrivere musica per studio. Anni dopo, la scuola di Mogol mise a bando alcune borse di studio per la musica da film. Partecipai al bando spinto da un amico che sapeva di questa mia tendenza, vinsi ed entrai nella scuola studiando con Stelvio Cipriani. Da li in poi lentamente - corto dopo corto - mi ritrovai a fare questo mestiere, in contemporanea al mio lavoro del tempo che era l’insegnante di chitarra. Qualcosa ha voluto che oggi sia la mia professione assoluta e spero che la mia onestà intellettuale mi assista sempre nel capire se realmente il cinema ha bisogno di quel che scrivo io, o meno.
Ultimamente mi sto occupando di vari film quasi contemporaneamente. In Italia sto concludendo una commedia e diversi documentari, ho terminato da poco due film in USA molto belli, Unhinged e Flashburn con un bel cast: Eric Balfour, Sean Patrick Flanery, Cameron Richardson, per la regia di Giorgio Serafini, un regista davvero in gamba che firma lavori di spessore nella scena di Hollywood. Con Giorgio stiamo per iniziare - novembre 2016 - il nostro terzo film insieme, mi trovo molto bene a lavorare con lui. Poi sono a lavoro a Varsavia su un film la cui sceneggiatura è stata premiata a Cannes 2015, il film si chiama The Man with the Magic Box per la regia di Bodo Kox e co-prodotto dalla tv polacca, dall’Alter Ego Pictures e dall’italiana Vargo Film.



CS: Che significato ha per te la pubblicazione su CD di una tua colonna sonora, o preferisci solo la versione digitale?
SDS: I tempi sono cambiati, io provengo dal vinile, ho visto nascere il CD, il minidisk, il dat, l’i-pod, l’mp3, i sistemi cosiddetti “proprietari” di iTunes su dispositivo mobile. Credo che sia la naturale evoluzione dei tempi. Non sono affezionato ad un dato supporto, sono del parere che la musica debba essere di qualità, sia nel cinema che nell’ascolto. Il CD resta un biglietto da visita ma direi anche ingombrante, considerando che possiamo avere tutto dentro il telefono con ottimi auricolari. Poi esiste il vintage, insuperabile, sia hi-fi domestico che fuori. Indubbiamente superiore.

Per maggiori info: http://www.sandrodistefano.it/

 

Stampa