Il ‘900 musicale al Cinema

Il ‘900 musicale al Cinema

La miglior musica per film è quella che non si sente
Igor Stravinsky

foto igor stravinsky

Il celebre paradosso dell’autore del “Sacre du printemps” celava, com’è noto, una buona dose di malanimo: era infatti naufragato malamente l’abboccamento di Stravinsky con Hollywood per la partitura di Uragano all’alba (Commando Strike at Dawn, 1942, John Farrow), respinta dai produttori per eccesso di modernità e destinata poi a confluire nei ”Four Norvegian Moods”, proprio come sei anni prima la stessa sorte aveva subìto il progetto di La buona terra (The Good Earth, Sidney Franklin), che avrebbe dovuto coinvolgere Arnold Schönberg, padre del sistema dodecafonico, ma le cui richieste di libertà espressiva cozzarono frontalmente contro i rigidi dettami e tempi dell’establishment hollywoodiano. E ciò malgrado ques’ultimo avesse scritto nel ’30 quella “Musica per accompagnamento di una scena da film” op.34, divenuta una sorta di ipotetico manifesto metodologico del settore, cui nel ’74 Jean-Marie Straub e Danièle Huillet dedicheranno un cortometraggio didascalico.

Avendo per protagonisti i due massimi esponenti del Novecento musicale, epoca nella quale lo stesso concetto di “musica classica” o “colta” subisce un autentico terremoto di significati, i due episodi la dicono già di per sé lunga sui tempestosi rapporti che i compositori accademici del Secolo Breve hanno intrattenuto con il mondo della musica per immagini: rapporti svoltisi all’insegna di una diffidenza reciproca, spesso astiosa quando non sconfinante in aperto disprezzo, da una parte verso una “destinazione d’uso” (la musica per film e più in generale la musica applicata) ritenuta ancillare, umiliante e puramente commerciale, dall’altra verso un linguaggio percepito come élitario e cripticamente negato a qualsiasi comunicazione emozionale.
foto camille saint sansCiò non impedisce, tuttavia, che si svolgano alcune collaborazioni importanti, anche se occasionali o saltuarie, nelle quali le conquiste linguistiche e stilistiche sul piano sonoro cercano e trovano corrispondenza – a volte in modalità del tutto inattese – in quelle visive. Uno sguardo di tipo storicistico segnala intanto alcune clamorose assenze: colpisce ad esempio che Sergej Rachmaninov (1873-1943), universalmente additato come la principale fonte d’ispirazione per una intera scuola cinemusicale hollywoodiana, ancorché spesso saccheggiato dal cinema non sia mai stato chiamato direttamente in causa da Hollywood, dove pure viveva e lavorava. Analogo discorso per Béla Bartók (1881-1945), che pure trascorse negli Stati Uniti gli ultimi cinque anni della sua vita, in condizioni di assoluta indigenza. Ed infine Richard Strauss (1864-1949), compositore “filmologico” quant’altri mai (si pensi solo ai suoi poemi sinfonici o alla “Alpensymphonie”) e tuttavia mai incrociatosi col cinema. Sarà peraltro appena il caso di ricordare quanto il repertorio di tutti e tre (e molti altri) questi maestri sia stato utilizzato sullo schermo, da Lean a Kubrick a Iñarritu: ma questa sarebbe un’altra storia.
Eppure il ‘900 musicale aveva cominciato ad interessarsi al cinema sin dagli albori, come dimostra il pionieristico lavoro di un figlio diretto del tardo romanticismo quale Camille Saint-Saëns (1835-1921) per il film L’assassinat du Duc de Guise (1908, André Calmettes e Charles Le Bargy); né è un caso che alcuni compositori più lungimiranti siano stati spesso sfiorati dalla Settima Arte, pur senza esito, evidentemente vedendo in essa un potenziale espressivo inedito rispetto al genere dominante del teatro d’opera. Si pensi al caso di Giacomo Puccini (1858-1924), il massimo operista europeo del ‘900, che almeno in un paio d’occasioni fu prossimo a lavorare per il grande schermo. D’altronde altri numi tutelari non avevano esitato a farsene coinvolgere; per restare nell’àmbito del verismo italiano è nota la “Rapsodia satanica” di Pietro Mascagni (1863-1945) per l’omonimo caposaldo del muto del 1915 di Nino Oxilia, così come oltralpe spicca il caso di Maurice Ravel (1875-1937), cui nel 1933 furono commissionate le musiche del Don Chisciotte di Georg W.Pabst, ma al quale venne poi preferito il lavoro di Jacques Ibert (1890-1962), che con il cinema ebbe dimestichezza per tutta la sua carriera. Meno noto il contributo di Jean Sibelius (1865-1957), patriarca della musica finlandese e nordica ma prestato al cinema in un’unica occasione e in età avanzatissima, per rielaborare il proprio poema sinfonico “Finlandia” nel semisconosciuto… Il soldato sconosciuto (1955, Edvin Laine).
In realtà, nel periodo delle pre-avanguardie, alcune scuole nazionali si dimostrano molto disponibili ed anzi notevolmente inclini a lavorare in questo settore, e non solo per ragioni meramente alimentari. In Francia ad esempio, gli esponenti del cosiddetto Group des Six partecipano attivamente con le proprie partiture al rinnovamento del cinema francese; in particolare Arthur Honegger (1892-1955), Darius Milhaud (1892-1974), Francis Poulenc (1899-1963) e soprattutto Georges Auric (1899-1983), il più attivo anche fuori dal proprio paese. Tutti, comunque, ampiamente scavalcati in vena provocatoria dal dadaista Erik Satie (1866-1925), protagonista della più spregiudicata avanguardia parigina, che con il suo balletto “Relâche” sovverte in Entr’acte (1924, René Clair) le ancor giovani convenzioni sonore del cinema muto.
Non troppo diversamente, anche in Italia la cosiddetta Generazione dell’80 intuisce nel cinema un mezzo particolarmente efficace attraverso il quale svecchiare il retaggio musicale tardo-neorealista che ancora si appoggiava ai cascami dell’operismo verista. Spesso sono contributi limitati a pochissimi titoli, ma esemplari. Tali sono ad esempio la “Sinfonia del fuoco” di Ildebrando Pizzetti (1880-1968) composta per il dannunziano Cabiria (1914, Giovanni Pastrone) o le “Sette invenzioni per orchestra” di Gian Francesco Malipiero (1882-1973) per Acciaio (1933, Walter Ruttmann), o ancora tutti i numerosi ed entusiasti contributi forniti da Goffredo Petrassi (1904-2003) – maestro tra gli altri di Ennio Morricone – tra i quali spiccano le partiture per Riso amaro (1949, Giuseppe De Santis) e Cronaca familiare (1962, Valerio Zurlini). Ma altri nomi in quest’area del ‘900 italiano si accosteranno volenterosamente al cinema, da Mario Zafred (1922-1987) a Mario Labroca (1896-1973), da Alfredo Casella (1883-1947) a Luigi Dallapiccola (1904-1975), sino all’esempio più attivo, quello di Roman Vlad (1919-2013), che nel cinema vede una forma di ispirazione assolutamente paritaria alle altre; senza contare Mario Castelnuovo-Tedesco (1895-1968) che oltre a comporre in prima persona per lo schermo sarà foto prokofiev pianoanche prezioso docente negli Usa, dov’era emigrato, annoverando tra i propri allievi anche Herrmann, e naturalmente Nino Rota (1911-1979) che coniuga il retaggio operistico postpucciniano con il mondo del cinema e del circo.
Fa storia a sé il caso dell’Unione Sovietica, per almeno due buoni motivi. Innanzitutto a condizionarlo è la presenza di due figure gigantesche come Sergej Prokofev (1891-1953) e Dimitri Shostakovich (1906-1975), entrambe fortemente influenzate dal clima rivoluzionario delle avanguardie nella prima stagione del bolscevismo: il primo co-autore per il cinema di Sergej Ejzenstein dei più arditi esperimenti di sinergia musica-immagine, il secondo più tormentato e insoddisfatto, ma dedito al cinema, e con risultati eccelsi specialmente sino agli anni ’30 (sia pur fra mille frustrazioni), per tutta la sua carriera. Inoltre le fortissime esigenze della propaganda staliniana vedono nel cinema, e nella sua musica, un formidabile strumento di penetrazione, facendo sì che tutti i principali compositori della scena sovietica (da Khachaturian a Sebalin, da Khrennikov a Denisov) si trovino coinvolti nella musica per film. Occorrerà attendere la generazione formatasi nel dopo-Stalin e nel cinema del disgelo perché anche in questo settore spiri aria fresca, meno paludata e più attenta a ciò che accadeva anche nel resto d’Europa, come attestano le figure di Rodion Shedrin (1932), Alfred Schnittke (1934) e Sofia Gubajdulina (1931), tutte diversamente connesse al rinnovamento del cinema russo.
Altrove la situazione si colloca entro i confini di una più rassicurante convenzionalità. In Gran Bretagna ad esempio figure come William Walton (1902-1983, affrescatore musicale delle trascrizioni shakespeariane di Laurence Olivier) o Ralph Vaughan-Williams (1872-1958) coniugano moduli neoclassici, sinfonismo postbruckneriano e patrimonio popolare autoctono, mentre Gustav Holst (1873-1834) lavorerà per il cinema solo una volta (The Bells, 1931, Harcourt Templeman e Oscar F.Werndorff), ma vedrà poi la sua composizione più celebre, la suite “I Pianeti”, fonte di idee per compositori di ogni latitudine, a cominciare dal John Williams di Star Wars. La personalità inglese più innovatrice, Benjamin Britten (1913-1976), pur molto attivo nei documentari, consegna solo una partitura per un lungometraggio, peraltro abbastanza di maniera entro i canoni del “noir”, L’ora del supplizio (Love from a Stranger, 1937, Rowland V. Lee); mentre il compositore d’avanguardia Peter Maxwell-Davies (1934-2016) si lega soprattutto a due film, molto diversi, del regista Ken Russell come la commedia musicale Il boy friend (The Boy Friend, 1971) e soprattutto il cupissimo I diavoli (The Devils, 1971), quest’ultimo già oggetto di un’opera lirica di Penderecki. Quanto a Hollywood, il dominio assoluto è inizialmente quello della canzone e del musical, con una figura come George Gershwin (1898-1937) a fare da ponte tra il jazz e le suggestioni dell’impressionismo parigino di Ravel e Debussy; compositori come Aaron Copland (1900-1990), Morton Gould (1913-1996) e più tardi il poliedrico Leonard Bernstein (1918-1990) traghettano il mondo della musica popolare e folkloristica americana verso gli orizzonti del sinfonismo europeo, ma il compito di saldare le due sponde spetta a quella pattuglia di compositori mitteleuropei emigrati e specializzatisi a Hollywood (Max Steiner, Franz Waxman, Erich W. Korngold, Miklòs Ròzsa, Dimitri Tiomkin, Bronislau Kaper) che costituiranno la cosiddetta Età dell’Oro della musica per film americana. Molto più defilati esponenti “locali” come George Antheil (1900-1959) o Virgil Thomson (1896-1989), estremamente selettivi nelle loro collaborazioni. E forse non a caso una figura centrale del panorama musicale statunitense come Charles Ives (1874-1954), amatissimo ed eseguitissimo da Bernard Herrmann, non incontrerà mai il cinema.
Il quadro muta radicalmente con lo spartiacque cruciale del ‘900: la dissoluzione della tonalità, l’introduzione del sistema dodecafonico e la scuola di Vienna (Schönberg, Berg, Webern). Un linguaggio che il cinema, specie hollywoodiano, inizialmente respinge poi accetta con fatica e attribuendogli una produzione di senso totalmente negativa: così ad esempio Miklòs Ròzsa (1907-1995) impiega una serie dodecafonica per descrivere il diavolo nella scena delle tentazioni di Cristo in Il Re dei re (The King of Kings, 1961, Nicholas Ray), e Leonard Rosenman (1924-2008) applica l’intero sistema alla partitura di La tela del ragno (The Cobweb, 1955, Vincente Minnelli) per descrivere un ambiente manicomiale; più rigoroso il francese Antoine Duhamel (1925-2014), il compositore dei primi Godard e Truffaut, e pioniere della dodecafonia nel proprio paese. Da parte sua un teorico e seguace di Adorno come Hanns Eisler (1898-1962), allievo di Schönberg, identifica la dodecafonia con il mostro nazista in Anche i boia muoiono (Hangmen Also Die, 1943, Fritz Lang) contrapponendola a pagine tonali dedicate alla resistenza del popolo cèco. Ma è negli sviluppi successivi che questa forbice si ampia ulteriormente; se alcuni compositori come Pierre Boulez, Giuseppe Sinopoli, Franco Donatoni, Iannis Xenakis, Luciano Berio, Salvatore Sciarrino, Karlheinz Stockhausen, restano totalmente indifferenti al cinema, altri vi si accostano con i piedi di piombo, come il figlio di Karlheinz, Markus (1957: Berlin Jerusalem, 1989, Amos Gitai), Edgar Varèse (1885-1965) o – generazioni dopo – Sylvano Bussotti (1931), limitandosi a partecipare alla realizzazione di film “d’arte” musicale. Diverso il caso di Fabio Vacchi (1949), figura poliedrica di compositore dallo spiccato polistilismo, che si lega al cinema soprattutto grazie alle raffinate, ellittiche partiture per Ermanno Olmi (Il mestiere delle armi, 2001, e Centochiodi, 2007), ma anche con il rigoroso, vitreo ambiente sonoro di Gabrielle (Id., 2005, Patrice Chéreau).
foto mario castelnuovo tedescoPiù interessante l’atteggiamento di alcuni esponenti della Internationale Ferienkurse für Neue Musik, meglio nota come scuola di Darmstadt: se alcuni (Milton Babbitt, Stockhausen, Olivier Messiaen, Mauricio Kagel, Gyorgy Ligeti: quest’ultimo però ampiamente utilizzato ad esempio da Stanley Kubrick) si mantengono indifferenti alle potenzialità musicali del cinema altri vi si avvicinano con esiti diversi. John Cage (1912-1992), radicale profeta della “musica aleatoria”, vi si applica in due occasioni: per il frammento “Discs” dedicato a Marcel Duchamp in Dreams that Money Can Buy (1947, Hans Richter) e per il lungometraggio Works of Calder (1959, Herbert Matter); Luigi Nono (1924-1990), fedele alla propria rigorosa militanza comunista, si dedica prevalentemente a documentari “didattici” ma anche a Un hombre de éxito (1985, Humberto Solás). Più interessante l’altro veneziano, Bruno Maderna (1920-1973), che non subisce complessi d’inferiorità dal cinema e anzi crea uno straordinario esempio di sperimentalismo sonoro, con ramificazioni di “musique concrète”, per un tipico B-movie, il thriller La morte ha fatto l’uovo (1967) di Giulio Questi; oppure Giacomo Manzoni, con la sua partitura aristocratica per Malina (Id., 1991, Werner Schroeter). Ma si avvicinano già nuove scuole e tendenze, come quel gruppo di improvvisazione romano, Nuova Consonanza, dal quale usciranno poi Egisto Macchi (1928-1992) ed Ennio Morricone (1928), specialisti di settore. Mentre i cambiamenti si rincorrono e la ricerca musicale oscilla tra neoromanticismi e polverizzazione del sound design, tra minimalismo e strapotere elettronico, cancellando le barriere fra i generi e impegnando al cinema così come nella musica “assoluta” personalità quali Philip Glass, Michael Nyman, Max Richter o Ludovico Einaudi, altre figure spiccano a varie latitudini in splendido, ormai crepuscolare isolamento; Arvo Pärt (1935), Toru Takemitsu (1930-1996) e Krzysztof Penderecki (1932), quest’ultimo autore della formidabile partitura d’avanguardia per Il manoscritto trovato a Saragozza (Rekopis znaleziony w Saragossie, 1965, Wojciech Has), ma anche spesso utilizzato nelle sue composizioni, in primis dall’immancabile Kubrick. O ancora Hans Werner Henze (1926-2012), marxista rigoroso quanto indefesso miscelatore di stili, particolarmente affiliato al cinema letterario di Volker Schlöndorff.
Il resto è rumore”, verrebbe da concludere con lo storico del ‘900 musicale Alex Ross: ma è sufficiente forse a capire che nel XX° secolo la musica, quella davvero grande, si è ascoltata anche – forse soprattutto – al cinema.

Articolo pubblicato sulla rivista Segnocinema n° 197 Gennaio – Febbario che ringraziamo enormemente per averci concesso l’onore di poterlo inserire tra le nostre pagine


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