"Horror Soundtrack": La musica e il cinema Horror - Parte 5

locandina_shining_originale.jpg"Horror Soundtrack": La musica e il cinema Horror - Parte 5

Cap. 5 - Shining

Esistono certe aree del sensibile e della realtà che sono peculiarmente inaccessibili alla parola.
La musica ha accesso a queste aree.

Stanley Kubrick

Nel 1980 approda all’horror un grande autore di cinema che ha fatto del rapporto musica e immagini uno dei suoi tratti peculiari e distintivi. Anche per Shining, Stanley Kubrick utilizzerà prevalentemente musica preesistente, avvalendosi della collaborazione di Wendy Carlos, la quale già aveva lavorato per lui in Arancia meccanica (1971), e di Rachel Elkind. Malgrado la grande quantità di materiale da loro composto per il film, Kubrick adoperò soltanto l’inquietante “Main Title”, per il quale Carlos si ispirò al sabba delle streghe dalla “Sinfonia fantastica” di Hector Berlioz, utilizzato nei titoli di testa, e il brano “Rocky mountains”, che accompagna la salita della famiglia Torrance verso l’Overlook Hotel. Le due compositrici, inoltre, aggiunsero vocalizzi, eseguiti dalla Elkind, sibili elettronici ed alcuni effetti sonori, come i battiti cardiaci.
Come afferma Roberto Pugliese, Kubrick attua una sorta di demonizzazione del repertorio musicale novecentesco, scegliendo brani di Béla Bartok, Gyorgy Ligeti e soprattutto Krzysztof Penderecki. “Kubrick gradua i loro interventi in funzione della progressione drammaturgica: Ligeti  (fisso, minaccioso, ipnotico) all’inizio; Bartok (vario, nervoso, colorito) nel mezzo e Penderecki (apocalittico, devastante) in tutta l’ultima parte.” (50) Anche da uno stesso brano, come i “De natura sonoris n.1 e n.2” di Penderecki, il regista estrae i segmenti più demoniaci e “orrificabili”. L’utilizzo della colonna sonora nel film è distante dalle pratiche ricontestualizzanti tipiche dello stile kubrickiano, costruite su procedimenti che giocano sull’ironia e sull’antifrasi, sull’effetto straniante e ricostruttore di senso prodotto nello spettatore, e denota un atteggiamento all’apparenza più prudente e più fedele agli stereotipi del genere. Ma se in Barry Lyndon (1975) la musica classica serviva a connotare storicamente le vicende del protagonista e ad incrementare le potenzialità drammaturgiche delle scene, adeguandosi alla perfetta ricostruzione visiva del periodo; se nel Dottor Stranamore (1963) e in Arancia Meccanica (1971) l’utilizzo ironico, grottesco, satirico dell’elemento musicale si sposava con un’intenzione dell’opera altrettanto ironica, satirica e grottesca; se in 2001: Odissea nello spazio (1968) la straordinaria resa espressiva musicale aggiunge poesia e lirismo filosofico ad un film che non ha genere, in quanto riflessione cinematografica foto_stanley_kubrick.jpg“totale”; se tutti questi citati sono film per i quali non esisterebbe una musica adeguata “a priori”, per i quali non è concepibile un utilizzo convenzionale della musica, anche e soprattutto perché dotati di intere sequenze concepite musicalmente, costruite “a partire” dalla musica; con Shining l’utilizzo più convenzionale del tessuto sonoro è pienamente giustificato da una scelta di genere precisa, seppure innovativa. Un ricorso a musiche con funzioni ed effetti similari a quelli dei suoi precedenti film avrebbe molto probabilmente discostato di parecchio la pellicola all’appartenenza di genere, avvicinandola forse anche alla parodia. Tutto ciò a dimostrazione del fatto che la colonna sonora può anche essere influente nel collocare o meno un film all’interno del genere horror. L’interazione tra musica e immagini creata da Kubrick nel film genera un intenso scambio reciproco di valore aggiunto che da un lato conferisce alle scene la profondità necessaria alla resa audiovisiva di una degenerazione psicologica e di un esplosione dell’inconscio, dall’altro dona nuovo senso alle musiche, trasformandole in horror music e, come afferma ancora Pugliese, riuscendo nell’impresa impossibile di farcele percepire come mai udite prima (51). La OST del film può ritenersi convenzionale se si considerano i particolari utilizzi della musica nei film precedenti del regista. Ma proprio in quanto diversa dalle altre, essa forse si presenta paradossalmente come eccezione all’interno della filmografia kubrickiana. E inoltre così non è, a nostro avviso, se la riflessione si sposta all’interno del genere horror. Quest’ utilizzo quasi “inevitabile” e solo apparentemente convenzionale si muove nella stessa direzione della gran parte degli elementi del film, i quali sembrano giocare con gli stereotipi del genere, mentre invece lo rivoluzionano dal profondo: luce anziché buio, spazi ampi anziché angusti, sangue ridotto al minimo, se si esclude la scena in cui scorre a fiumi dall’ascensore, la quale comunque non possiede una valenza splatter, così come l’intero film è lontano dalla sanguinolenza che in quegli anni caratterizzava il genere; inoltre, ricostruzione minuziosa e fedele degli ambienti, alla ricerca di un realismo che rendesse, per contrasto, ancora più angosciante l’orrore irreale; pochi effetti speciali e make-up che, nel finale in cui i fantasmi vengono alla luce, mostra gli stessi anche attraverso maschere ostentatamente in vista. Infine, orrore che proviene non da un entità esterna ma da un elemento del nucleo familiare, che dovrebbe essere un sicuro fattore di protezione. Il ricorso alla musica contemporanea novecentesca ha nel genere un solo illustre precedente, di cui abbiamo trattato: L’esorcista. Se tale ricorso fosse la pratica comune allora potremmo parlare di convenzione. Anzi, il fatto che molte sequenze siano state scritte, girate e montate sulla musica fa di Shining forse un film unico nel suo genere. Ancora secondo Pugliese, il procedimento del regista consistente nel “concepire musicalmente intere sequenze” (52) trova in Shining l’estrinsecazione più alta. Anche il cover_shining_giapponese.jpgfrequente ricorso al sincrono tra suono e immagine rappresenta una novità per il regista. La musica va a marcare colpi d’ascia e di mazza, apparizioni spettrali, gesti improvvisi, colpi di scena. “Ewangelia”, brano estratto dall’opera Utrenja di Penderecki, con le sue inquietanti percussioni ritmate va a sottolineare momenti dinamici e improvvisi come il risveglio brusco di Wendy Torrance (Shelley Duvall), che legge allo specchio la parola «Murder», la vista dei fantasmi, l’uccisione del cuoco Dick Halloran (Scatman Crothers) da parte di Jack Torrance (Jack Nicholson); un altro estratto della stessa opera, “Kanon Paschi”, è impiegato quando Wendy assiste alla cascata di sangue, per poi accompagnare tutto l’inseguimento di Danny (Danny Lloyd) nel labirinto, tra lugubri cori umani e stilettate di violino. La musica va inoltre ad evidenziare crescendi e sviluppi scenici ed emozionali. Esemplare è il dialogo fra Jack e Danny nella camera da letto, costruito sul terzo movimento del brano di Bartok “Music for strings, percussion and celesta”. La musica aderisce perfettamente alle battute dei due personaggi, grazie anche al montaggio di Gordon Steinforth, il quale operò anche dei piccoli tagli sul brano per ottenere una corrispondenza perfetta con le scene girate. Kubrick e Friedkin utilizzano perfino uno stesso brano nei loro rispettivi film: “Polymorphia” di Penderecky, utilizzato da Kubrick quando Wendy scopre i dattiloscritti folli di Jack, quando in seguito lo trascina nella dispensa e nella celebre scena in cui Jack abbatte le porte a colpi d’ascia; Friedkin, invece, adopera il brano, addirittura nello stesso passaggio, nella scena in cui Regan invoca aiuto attraverso segni sul corpo. Tuttavia la differenza tra i due registi è notevole: nel film di Friedkin la musica subliminale e possessiva connotava la corruzione socio-morfa della carne. In Shining ciò che viene corrotto è la mente. La colonna sonora di Shining è ciò che risuonerebbe nell’inconscio, se questo fosse udibile. Il film è un eccellente esemplare di horror psicologico, di un regista che non a caso è stato definito dal filosofo Gilles Deleuze «cineasta del cervello» (53). “L’Overlook Hotel è la metafora di un “interno che abita” invece di essere abitato. (…) L’intero film è strutturato come inconscio, dove ogni cosa è interno, sia “l’albergo-casa-abitazione” sia il labirinto, finto esterno, che racchiude in sé l’ennesima immagine dell’interno (degli emisferi cerebrali).” (54) Uno dei libri di riferimento per Stanley Kubrick e Diane Johnson nello scrivere la sceneggiatura del film è stato il saggio di Sigmund Freud Il perturbante, che l’autore definisce, citando la definizione che ne propone il filosofo Schelling, come “ciò che doveva rimanere nascosto ma è venuto alla luce” (55) La musica del film rende acusticamente visibile la discesa nell’abisso della mente di Jack Torrance, l’invasione che l’albergo opera nella sua psiche, il conflitto edipico che secondo molti è la chiave interpretativa del film. Essa ha un ruolo fondamentale nell’integrare e significare i primi piani del volto di Jack e di Danny, nelle visioni spettrali (ad esempio col brano “Lontano” di Ligeti, utilizzato nella prima apparizione delle gemelle Grady) e nelle manifestazioni della luccicanza, il potere extra-sensoriale di cui il bambino è dotato. “The Awakening of Jakob”, sempre di Penderecki, è utilizzato nelle scene in cui si manifesta lo shining e, con una curiosa assonanza tra titolo del brano e sequenza, nel risveglio di Jack, il quale, dopo essersi addormentato alla scrivania, è sconvolto per l’incubo di morte appena fatto. Significativa, inoltre è la sequenza in cui Jack nella hall osserva il modello del labirinto, nel momento in cui la moglie e il figlio sono all’interno di quello vero all’esterno dell’hotel.
cover_shining_originale.jpgLa vicenda raccontata abbandona progressivamente ogni sviluppo e rigore logico, esprime una condizione di caos e di disorientamento, tradendo ogni principio razionale. Una delle trovate più efficaci del film consiste proprio nel labirinto, assente nel libro omonimo di Stephen King da cui il film fu tratto e splendida metafora del cervello partorita dalla mente di Kubrick. “Se fosse necessario designare una figura a rappresentare l’essenza fisica e simbolica di Shining, questa non potrebbe essere che il labirinto. (…) Il labirinto di bosso riproduce la struttura vertiginosa e irrisolvibile, geometrica e metafisica dell’Overlook Hotel, ma dello spettatore riflette anche, e materializza, il disorientamento frustrato, la inadeguatezza razionale e l’atteggiamento incerto dinanzi a bivi e polivalenze di senso che gli si propongono. (…) La musica si propone anch’essa come riflesso, e a sua volta espressione, di questo marasma pianificato e frastornante, di questa dimensione che elude ordinamenti logico-costruttivi e categorie spazio-temporali tradizionali. (…) Sembra dunque lecito parlare di testo musicale studiatamente labirintico, di caos organizzato, dove ogni tentativo d’analisi sistematica si scontra col problema oggettivo di riassegnare alle rispettive unità morfologiche originali le tessere di un mosaico musicale pullulante e tumultuoso, riordinate – talvolta sino alla irriconoscibilità - sotto dettatura di sensazioni pure e immediate, secondo logiche schiettamente impressionistiche, e quintessenzialmente kubrickiane, che non beneficiano neppure della complicità di ritorni tematici associabili a ricorrenze drammaturgiche.” (56) La scelta precisa e pienamente consapevole di musica contemporanea rende efficacemente e riproduce acusticamente il “caos” narrativo, specchio di una complessità che appartiene alla mente e che la musica colta del novecento, influenzata come le altre arti contemporanee dalle teorie psicanalitiche di Freud, esprime e rappresenta sonoramente. Quest’ultima risulta dotata di alcune caratteristiche espressive e formali che la rendono particolarmente adeguata nel denotare, rilevare, determinare alcuni caratteri costitutivi del genere horror. Innanzitutto, si ravvisa in essa la frequente assenza del sistema tonale classico, che organizza gerarchicamente le altezze dei suoni all’interno di scale ordinate, ossia successioni convenzionali e simmetriche di note che definiscono una tonalità. “La tonalità ha un effetto globalmente strutturante, spiegabile attraverso dei processi fisiologici genetici, da cui appunto dipende il cosiddetto “sentimento tonale”, definibile come esperienza affettiva di rapporti definiti tra i suoni. I suoni musicali percepiti sono infatti integrati in un sistema scalare, cioè uditi come gradi di una scala avente un punto di partenza, la tonica, e altri gradi compresi nell’ottava. Inoltre, ogni nota è rivestita di un’armonia sottintesa e pertanto è dotata di coefficienti di movimento e di riposo, instabilità o stabilità, polarità o opposizione propri alle funzioni di ciascun grado, che determinano per il loro impiego frequente dei riflessi d’attesa.” (57) Possiamo dire che la generalità delle colonne sonore presentano armonie che infondono un senso di compiutezza e di riposo, di conclusione e di soddisfazione delle attese dello spettatore, che in tal modo orientano la percezione dell’ascoltatore/spettatore infondendo distensione psicologica. Shining costruisce un esempio paradigmatico di impianto musicale filmico privo di centri tonali stabili, che non rispetta le attese, né  tantomeno ne crea, producendo una tensione emotiva priva di punti di orientamento sonori. L’audiospettatore è in balia dell’imprevedibile e dell’inclassificabile. “Nella musica atonale vi è una perdita di riferimenti, un’assenza di direzione temporale percepibile, direzione che fonda il discorso della musica tonale: «L’ascoltatore non ha più la foto_wendy_carlos.jpgpossibilità di fare previsioni sullo sviluppo della forma e non ha più l’intuizione dei periodi di tensione e di distensione» (58). Questo spiega l’impressione di mistero, di tempo sospeso che si sprigiona dagli incontri fra questa musica e il cinema.” (59) Il sentimento tonale è solo uno dei fenomeni che definiscono la funzione di induzione senso-motoria della musica, ovvero la capacità di quest’ultima di modificare lo stato psicofisico dell’ascoltatore. Un altro di tali elementi è l’induzione motrice generata dal ritmo, il quale possiede una dimensione affettiva, in quanto suscita nell’ascoltatore una sensazione piacevole di simulazione, di coordinazione e identificazione con i ritmi biologici, universalmente valida e procurata dai ritorni periodici ed isocroni di elementi accentuati che vengono ripetutamente attesi e soddisfatti. La musica di Shining va nell’esatta direzione opposta: essendo priva di ritmo regolare e prevedibile, è quindi sprovvista della funzione ordinatrice del tempo, perde il valore rassicurante che lo psicoanalista Alberto Schon attribuisce al ritmo, in quanto stabilente, per il bambino, una ripetizione che viene costantemente soddisfatta e che richiama il battito cardiaco materno (60). L’assenza di ritmo produce dolore, angoscia, melanconia, le pulsazioni prive di raggruppamento regolare, psicofisicamente assecondabile e riconoscibile, suscitano sensazioni di disorientamento, di paura e di ossessione dalle quali istintivamente si fugge.
Nella musica di Shining è quasi sempre assente la melodia, nel senso classico del termine, la quale, oltre ad essere da un punto di vista psicoanalitico simbolo della voce umana e soprattutto di quella materna, rappresenta l’elemento strutturale della musica che fa da guida all’ascolto rilassante per l’attenzione, alla quale è affidata l’espressione di affetti ed emozioni.
Riprendendo la nozione greimasiana di isotopia, definita come lo strumento in grado di rendere conto dell’intelligibilità interpretativa di un testo che riduca al minimo l’ambiguità e riconosca la massima omogeneità possibile (61), al testo filmico di Shining, difficilmente se non impossibilmente sottoponibile ad una o più significazioni complessive, coerenti e razionali, corrisponde un testo sonoro arduamente analizzabile o interpretabile se non abbandonandosi a ciò che fantasticamente non è spiegabile a parole. Se le colonne sonore dei Goblin rimanevano impresse nella memoria conscia, la musica di Shining penetra nell’inconscio e lo rivela, richiede un ascolto consapevolmente inconscio, non si ricorda perché è “irricordabile” ma lascia tracce nella psiche dello spettatore rendendo audiovisibile quella dei suoi protagonisti.
Una funzione della musica decisamente ironica e spiazzante è comunque presente nel film, nell’impiego di alcune canzoni degli anni ‘30, le quali possiedono una valenza “spettralmente intra-diegetica”, in quanto fanno parte della scena, ma rappresentano musiche “fantasma”, come i fantasmi che incontra Jack nella sala da ballo. Molto probabilmente Kubrick ha selezionato questi balli d’epoca per le allusioni presenti nei loro titoli e nei loro testi: “It’s All Forgotten Now”, che fa da sfondo allo scambio e alla manipolazione mnemonica tra Jack Torrance e Delbert Grady; “Home (When Shadows Fall)”, che sentiamo quando Grady racconta a Jack cosa ha fatto alla moglie e alle figlie; “Midnight with the Stars and You”, il cui testo sentimentale contrasta con l’intera vicenda. Il brano attira Jack nella sala e chiude il film con il celebre carrello conclusivo sulla fotografia del veglione del 4 luglio 1921, con il protagonista sorridente e brindante.

NOTE:

50.Roberto Pugliese, Da «Lolita» a «Shining»: mappa sonora dell’immaginario kubrickiano in G.P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick. Tempo, spazio, storia e mondi possibili, Pratiche Editrice, Parma, 1985., p. 306.
51.Cfr. Ibidem, p. 307.
52.Ibidem.
53.Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1984.
54.Simona Marani, Horror. Sedotti e abbandonati, in Gino Frezza (a cura di) Fino all’ultimo film, Roma, Editori Riuniti, 2001, p. 312.
55.Sigmund Freud, Il perturbante, Torino, Boringhieri, 1989.
56.Sergio Bassetti, La musica secondo Kubrick, Lindau, Torino, 2002, pp. 143, 144.  
57.Cristina Cano, La musica nel cinema. Musica, immagine racconto, Gremese Editore, Roma, 2002, p. 79.
58.Michel Imberty, Continuità, discontinuità, in Jean-Jacques Nattiez (a cura di), Enciclopedia della musica, vol. 1, Einaudi, Torino 2002.
59.Gilles Mouellic, La musica al cinema. Per ascoltare i film, Lindau, Torino, 2005, p. 59.
60.Cfr. Alberto Chon, Messaggi sonori, in A.M. Accerboni e A. Schon (a cura di), Le frontiere della psicoanalisi, 1997, pp. 35-44.
61.Cfr. A. J. Greimas, Semantica strutturale, Rizzoli, Milano, 1968.

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