"Horror Soundtrack": La musica e il cinema Horror - Parte 2

locandina_psycho.jpg"Horror Soundtrack": La musica e il cinema Horror - Parte 2

Cap. 2 -  Il caso Psycho

Non soltanto l’immagine, ma anche il suono deve conservare l’emozione.
Alfred Hitchcock

Nel periodo descritto del sinfonismo post-romantico hollywoodiano, emerse un compositore che, a partire dagli anni ‘40, rinnovò la scrittura musicale per il cinema. Bernard Herrmann avviò un  processo di attualizzazione del linguaggio musicale considerato ancora esemplare, soprattutto per la stretta interazione che stabilisce tra componenti visive e sonore. Herrmann, sin da Quarto potere di Orson Welles (1941), per il quale utilizzò piccoli gruppi di strumenti cui affidò un gioco sottile di leitmotiv, impose il proprio stile personale “costruito intorno a motivi melodici molto semplici che sembrano non dover mai risolversi e un’orchestrazione che privilegia il registro grave dei fiati a svantaggio del lirismo degli strumenti a corda.” (16)
Il compositore ribalterà totalmente quello stesso lirismo quando comporrà le musiche per Psycho (1960) di Alfred Hitchcock. Il film, tratto dal romanzo omonimo di Robert Bloch, pose le basi per l’horror moderno. Le vicende non si svolgono in contesti ottocenteschi, ma in epoca contemporanea, al mostro si sostituisce il folle, l’ambientazione gotica del castello diventa un motel abbandonato e una casa isolata (pur costruita secondo il modello del nuovo gotico californiano), il soprannaturale confluisce nella psicopatologia, e il tema del doppio, vera e propria miniera d’oro per l’horror, la cui origine risale al romanzo di Robert Louis Stevenson Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hide, trasferisce la sua causa scatenante da un esperimento mal riuscito di chimica o medicina fantastica alla malattia mentale. A tutto ciò corrispose un nuovo modo di concepire la musica da film. Hitchcock scelse di girare il film in bianco e nero a causa delle scene di eccessiva violenza, per l’epoca, e per attenuare l’effetto della vista del sangue. In un periodo caratterizzato dalla diffusione sempre maggiore del media televisivo, in cui la violenza reale del mondo acquisiva sempre più la possibilità di rendersi visibile e conoscibile agli occhi e alla mente dell’individuo e l’orrore diventava quotidiano nonché reale e assistibile attraverso la narrazione dello schermo televisivo, Hitchcock segnò il passaggio spettacolare della violenza dall’area dell’invisibile e dell’immaginazione all’area della visione o della semi-visione. Non si trattava di una violenza storica, collettiva, trasposta in una dimensione temporale e spaziale in cui è contestualmente giustificata (film di guerra, western, storico, avventura) ma di una violenza individuale, intima, visivamente dettagliata e produttrice di una distorsione nella narrazione che si riflette nella ricezione dello spettatore. Psycho è anche l’avo degli slasher movies che permette all’occhio dello spettatore il primo sguardo fugace sul corpo violentato e trapassato. Secondo alcune testimonianze, Hitchcock avrebbe voluto mostrare di più, ma non lo fece, evitando così problemi con la censura, e ottenendo anche un risultato estetico più raffinato. La violenza intravista del suo film segna l’inizio di un decennio in cui i tagli censori, in particolare sugli horror, i quali, per ovvie ragioni, erano stati sempre ì più vietati e ritoccati, diminuirono consistentemente. Secondo Susan Sontag i ‘60 furono il decennio in cui “i freaks divennero pubblici, un soggetto artistico sicuro e approvato” (17). La riscoperta e la rivalutazione di Freaks (1932) di Tod Browning al Festival di Cannes, fu uno dei segnali di una progressiva tendenza verso estremi senza precedenza nelle immagini dei media. Riferendosi a Diane Arbus, una fotografa di moda passata nel 1961 a ritrarre freaks e soggetti macabri, la Sontag afferma: “L’opera della Arbus è un buon esempio di una tendenza dominante nella grande arte dei Paesi capitalisti: sopprimere, o almeno ridurre, la schizzinosità morale o censoria. Gran parte dell’arte moderna è devota all’abbassamento della soglia di ciò che è terribile.” (18) Nel 1964 rappresentazioni dall’umorismo nero della famiglia postnucleare americana e forzature su morte e sesso erano gli ingredienti principali di due cover_psycho_originale.jpgnuove serie televisive, The Munsters per la CBS e La famiglia Addams per la ABC. Già dalla metà degli anni ‘50 esplose la Monster Culture, un fenomeno legato ai film horror presentati in tv, in programmi appositi, come Shock Theater, da personaggi che ne rappresentavano l’iconografia (Vampira, Roland). Infine cominciarono a diffondersi, soprattutto fra i giovanissimi, riviste del settore come Famous Monster, il cui primo numero uscì nel 1958. Orrore, mostri e violenza (da fiction, ovviamente, non reale) divennero un elemento importante, se non primario, dell’evasione culturale.
Se mostri e forme diverse di orrore erano cinematograficamente presenti, visibili e consumabili praticamente fin dalla nascita del medium, riguardo la violenza Hitchcock pose la prima pietra. La musica di Herrmann traduceva in suono questo elemento del film: una musica violenta, marcata, piena di forza sonora ed emotivamente disturbante, dall’impatto angosciante quanto la vicenda che l’ha suscitata. Durante la preparazione dei suoi film, Alfred Hitchcock era solito dettare indicazioni anche estremamente dettagliate riguardo all’inserimento della musica. Per Psycho chiese ad Herrmann una nervosa colonna sonora di jazz post-bebop, ma il compositore scrisse una musica “in bianco e nero”, con interventi di soli archi e più temi ricorrenti. Per la celebre sequenza dell’assassinio della protagonista Marion Crane (Janet Leigh) sotto la doccia, Hithcock aveva previsto perfino l’assenza totale di musica. Nel momento in cui visionò la sequenza, prima senza musica e dopo con il tema dei “violini urlanti”, eseguito utilizzando le note più alte del cantino (la corda del violino dal suono più acuto), il regista decise senza alcuna esitazione di inserire le composizioni di Herrmann. Probabilmente Hitchcock acquisì immediatamente coscienza del valore aggiunto che la scena otteneva con la musica. Il concetto di valore aggiunto è stato descritto da Michel Chion, il quale lo definisce come “il valore espressivo e informativo di cui un suono arricchisce un’immagine data, sino a far credere, nell’impressione immediata che se ne ha o nel ricordo che se ne conserva, che quell’informazione o quell’espressione derivino «naturalmente» da ciò che si vede, e siano già contenute nella semplice immagine. E sino a procurare l’impressione, eminentemente errata, che il suono sia inutile, e che esso riproduca un senso che invece introduce e crea, sia di bel nuovo, sia tramite la sua differenza con ciò che si vede.” (19) Nella scena vediamo il coltello nella mano dell’assassino alzarsi per poi colpire, vediamo e sentiamo Janet Leigh urlare e disperarsi, ma non vediamo mai il coltello conficcarsi nel suo corpo (è presente nella sequenza solo un frammento, rapido e quasi impercettibile, in cui la lama sembra toccare il ventre della vittima). Eppure molti spettatori giurarono all’epoca di aver visto chiaramente il coltello colpire la protagonista più di una volta. In realtà è l’immaginazione che produce questa illusione, e ciò avviene anche grazie al simbolismo sinestetico di tipo tattile che la musica incorpora. Tramite il simbolismo sinestetico, le capacità espressive dei suoni investono eventi riguardanti altre cover_psycho_reincisione.jpgmodalità sensoriali. L’altezza degli acuti è “tagliente” come la lama del coltello. Il significato di tale ricezione è motivato, non arbitrario e possiede valenza di tipo interculturale. Se Hitchcock riesce a sconvolgere  nascondendo contemporaneamente la nudità della vittima, il volto dell’assassino e le ferite provocate dal coltello è anche perché lo spettatore “sente” lo shock.
Ulteriore elemento caratterizzante della sequenza è il netto contrasto sonoro tra la forza e l’intensità musicale della stessa, di cui si è detto, e il silenzio musicale che precede e segue l’azione. Marion Crane si trova nella situazione più intima possibile per un individuo, è abbandonata ad un momento di rilassamento in cui i rimorsi per il gesto criminoso compiuto (il furto di 40.000 dollari) scivolano via, ed è totalmente indifesa. L’assenza della musica esalta l’elemento rumoristico del getto della doccia che priva la vittima, già impossibilitata a vedere, della facoltà di udire ciò che sta accadendo vicino a lei. Nel seguito dell’assassinio, Marion Crane cade morta riversa col volto sul pavimento e la musica cessa, concedendo una sorta di tregua sonora allo spettatore, come se volesse permettergli di riprendersi dallo shock visivo, come se volesse fargli rendere conto dell’accaduto e indurlo ad accettare ciò che ha visto, lasciandolo davanti al fatto compiuto, documentato dalla macchina da presa, il quale richiede un momento di pausa e di recupero delle forze audiovisive. Intanto il getto della doccia continua a riempire di rumore la scena, continua a svolgersi come se niente fosse, dando vita a ciò che Chion definisce come effetto anempatico, un evento sonoro, in questo caso  provocato da un rumore, “completamente indifferente alla situazione, impassibile rispetto alla scena appena accaduta, che ha per effetto non già quello di congelare l’emozione, bensì di raddoppiarla, inscrivendola su uno sfondo cosmico.” (20) Il valore aggiunto è un concetto reciproco: come l’immagine acquisisce un senso e un effetto diverso se affiancata al suono, così essa rende il suono diverso da come risulterebbe se risuonasse da solo e senza immagini: “il caso dei suoni orribili o impressionanti, sui quali l’immagine proietta per suggestione un senso che essi non comportano affatto, è l’esempio di tale reciprocità.” (21) La pertinenza di una scrittura musicale per il cinema non dipende tanto dalla sua bellezza o dalla sua qualità intrinseca, ma soprattutto dalla sua efficacia nel supportare, integrare, arricchire l’immagine e dalla qualità dei rapporti che con essa è in grado di instaurare. Chion osserva che “l’album integrale della partitura di Herrmann per Psycho è di una monotonia terrificante, mentre nel film questa partitura funzione in modo ideale.” (22) L’effetto scioccante trasmesso dall’omicidio, che devia radicalmente le aspettative dello spettatore in merito allo sviluppo della trama (non era mai accaduto che la star principale del film morisse ad appena un terzo di esso), è espresso, oltre che dal montaggio veloce, sorpreso, quasi volutamente disordinato per l’improvviso colpo di scena, dalla musica altrettanto rapida, priva di punti di riferimento acustici, un leitmotiv dell’omicidio, privo di ogni criterio di cantabilità e orientamento sonoro: “se Herrmann fondamentalmente non contesta il leitmotiv, lo rinnova «dall’interno» a forza di dissonanze, di cambiamenti di registro o di rivolti. Mentre il leitmotiv classico è basato sul riconoscimento, quello di Herrmann è costruito su un’idea di contaminazione, come un elemento di disturbo o un virus che, impedendo qualsiasi slancio degli strumenti a corda o a fiato, provoca una tensione, un’angoscia profonda.” (23) La mancanza di sincronizzazione tra il coltello che colpisce e le arcate sui violini contribuisce ad aumentare questo senso di “confusione” narrativo-visiva, di spaesamento della fruizione e di sorpresa. Il tema ritorna nella scena dell’omicidio dell’investigatore privato Milton Arbogast (Martin Balsam), in forma accelerata e modificata, e, nella forma originaria, quando Lila Crane (Vera Miles) scopre nella cantina di casa Bates il cadavere disseccato e impagliato della madre e Norman Bates (Anthony Perkins) entra vestito da donna brandendo un coltello. Molto probabilmente il film non avrebbe avuto lo stesso enorme successo senza le musiche di Bernard Herrmann e la scena della doccia non sarebbe risultata come tra le più spaventose, inattese e scioccanti della storia del cinema.
cover_psycho_elfman.jpgPsycho introduce per la prima volta il fenomeno della standardizzazione di un tema di paura caratteristico che diventa un vero e proprio stereotipo acustico immediatamente riconoscibile e consolidato nella cultura audiovisiva, utilizzato anche in altri ambiti mediali (televisione, radio, internet), un modello sonoro, assieme a tutta la musica del film, per musicisti e registi, e non solo dei generi horror e thriller. Le qualità acustico-articolatorie del brano principale della colonna sonora riproducono alcuni caratteri dell’evento di riferimento. Il tema costituisce una cosiddetta icona sonora, caratterizzata da “un rapporto di somiglianza percettiva, legata all’imitazione” (24), con la scena a cui è riferita. La musica nell’interazione con le immagini, svolge anche una funzione referenziale, tende ad illustrare un referente preciso, una situazione rappresentata nella scena filmica di cui potenziare il significato, la quale “funziona da ancoraggio per i suoni, annullandone la plurisemanticità nel momento stesso in cui guida lo spettatore a scegliere, nello spettro dei significati potenziali, quelli più propriamente riconducibili al referente oggettuale presente sulla scena.” (25) La referenzialità reciproca immagine-musica del celebre tema costituisce ormai un clichè consolidato e inestirpabile dall’immaginario comune. Chiunque assocerebbe automaticamente la musica di Herrmann ad un folle che brandisce un coltello, e viceversa.
Riferimenti e omaggi alla colonna sonora di Bernard Herrmann per Psycho si trovano in Carrie, lo sguardo di Satana e Vestito per uccidere di Brian de Palma (nel secondo troviamo perfino una rielaborazione della scena della doccia, così come in Frantic di Roman Polanski), Halloween, la notte delle streghe di John Carpenter, Nightmare – Dal profondo della notte di Wes Craven, The Amityville horror di Stuart Rosenberg e Attrazione fatale di Adrian Lyne. Inoltre Gus van Sant ha riutilizzato la stessa partitura, rieseguita, per il suo remake di Psycho del 1998.
Dello stesso anno di Psycho è il film di Michael Powell L’occhio che uccide (1960), vero e proprio campionario metafilmico di riflessione cinematografica, in cui l’assassino uccide tramite la sua videocamera, ed è in grado di farlo soltanto vedendo attraverso di essa. Il suo voyeurismo si identifica con quello dello spettatore, prima nel filmare e poi nel rivedere al proiettore la paura sul volto delle sue vittime, quasi a voler significare che l’occhio che uccide, simbolicamente, è quello di noi spettatori, e che quest’occhio ha comunque bisogno necessariamente di un ascolto che lo integri e rinforzi sensorialmente: la musica durante il film è spesso assente o soffusa, e viene fuori proprio nei momenti di compenetrazione visuale tra protagonista e spettatore.
Parlando di Hitchcock, non si può non menzionare il suo film Gli uccelli (1963), il quale, oltre ad essere un cult di riferimento per diversi film horror, tra i quali La notte dei morti viventi e The Fog, e un capostipite per gli innumerevoli horror-thriller che raccontano di nature impazzite e animali furiosi contro l’uomo, si contraddistingue per l’assenza totale di musica. La componente sonora è costituita dai rumori degli uccelli elaborati come una vera e propria partitura rumoristica, che assume in sé diverse funzioni proprie, normalmente, della musica stessa, di alcune delle quali parleremo in seguito: funzione attivatrice di emozioni, funzione narrativa, funzione d’induzione senso motoria, funzione spettacolare. Da segnalare che Bernard Herrmann fu supervisore e consulente per il suono del film.



NOTE:

16.Gilles Mouellic, La musica al cinema. Per ascoltare i film, Lindau, Torino, 2005, p. 33.
17.Susan Sontag, On Photography, New York, Farrar, Straus & Giroux 1977 ( trad. It. Sulla fotografia. Realtà e imagine nella nostra società, Torino, Einaudi, 1992).
18.Ibidem.
19.Michel Chion, L’audio-vision. Son et image au cinéma, Paris, Editions Nathan, 1990. (trad. it. di Dario Buzzolan, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 1997, pp. 14, 15.)
20.Ibidem, p. 18.
21.Ibidem, p. 29.
22.Chion Michel, La musique au cinéma, Fayard, Paris 1995, p. 249.
23.Gilles Mouellic, La musica al cinema. Per ascoltare i film, Lindau, Torino, 2005, pp. 33, 34.
24.Cristina Cano, La musica nel cinema. Musica, immagine racconto, Gremese Editore, Roma, 2002, p. 27.
25.Ibidem, p. 185.

Stampa