"Horror Soundtrack": La musica e il cinema Horror - Parte 1

"Horror Soundtrack"
La musica e il cinema Horror - Parte 1


Introduzione

L'Horror è uno dei generi cinematografici in cui maggiormente la musica costituisce un fondamentale elemento espressivo per la resa complessiva del significato filmico. Molto spesso essa non definisce semplicemente un accompagnamento sonoro per le immagini, ma entra in stretto rapporto con esse, creando un contesto poliespressivo che ne modifica radicalmente la funzione e la fruizione. La musica non si limita ad appoggiare ciò che già si vede sullo schermo, ma riesce ad esprimere ciò che da sola l'immagine non esprime, restituendone il significato inespresso.
Per facilitare il processo comunicativo, la colonna sonora cinematografica sfrutta la cosiddetta “musica di genere”, allo scopo di suggerire immediatamente connotazioni di ambientazione, una musica legata a stilemi linguistici precisi e facilmente riconoscibili, che il cinema ha largamente diffuso presso il vasto pubblico.

cover_king_kong_1933.jpgLa musica da film Horror presenta una serie di peculiarità e caratteristiche specifiche che le conferiscono un particolare statuto tecnico-formale, garantendole un alto livello di significazione che trasmette e condivide con le immagini. Anche nelle colonne sonore, l’horror si alimenta di convenzioni e topoi, elementi dalla valenza semantica precisa ed inequivocabile, vere e proprie strutture tipiche della comunicazione in musica.

Intendiamo qui analizzare e dimostrare il significativo e fondamentale contributo della musica nel cinema Horror, soffermandoci su di una serie di collaborazioni tra musicisti e registi e su alcuni film d’autore storici, risultanti tappe importanti ed innovative rispetto al genere e al relativo rapporto immagine/musica. Tali analisi costituiranno casi paradigmatici della descrizione dell'interazione transensoriale tra immagini in movimento e musica all’interno del genere, e a tratti anche nel cinema in generale.
Tenteremo inoltre di dimostrare quanto l'effetto empatico tipico della musica per film horror sia determinato da una serie di processi armonici, melodici, strutturali e ritmici ricorrenti, veri e propri modelli consolidati della cultura musicale e cinematografica, i quali, abbinati alle immagini, garantiscono la funzione attivatrice di emozioni della musica, producendo e amplificando nell'audiovisione dello spettatore stati d'animo quali tensione, ansia, paura, spavento, angoscia. Illustreremo, infine, quanto e in che modi lo sviluppo del visibile orrorifico e i cambiamenti socio-culturali della visione filmica abbiamo influenzato progressivamente le pratiche dell’horror soundtrack.

Partiremo, nel primo capitolo, dopo un accenno agli horror del muto, con l’horror dei primi decenni del sonoro, descrivendo i principi classici delle colonne sonore dell’epoca e i primi tratti distintivi del genere. Nel secondo capitolo introdurremo, tra le altre, l’importante nozione di valore aggiunto di Michel Chion, rispetto a Psycho di Hitchcock, e esamineremo l’importanza e le conseguenze audiovisive della violenza primordiale del film. La svolta subita dal genere tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta sarà raccontata nel terzo capitolo, in cui si parla della nuova visione di cui Romero è fautore e delle nuove tessiture e contrappunti sonori importati da Friedkin nell’horror con L’esorcista. Il quarto capitolo affronterà l’innovativa e celebre collaborazione audiovisiva del cinema di Argento con la musica dei Goblin, vera e propria protagonista energica e funzionale dei suoi film. Nel quinto capitolo, l’analisi di Shining di Kubrick si serve di concetti semiotici e psicoanalitici, atti alla descrizione della fruizione spettatoriale disturbante e caotica di frequente suscitata dall’horror. Infine, nel sesto capitolo la figura di John Carpenter chiude il percorso tracciato, in quanto summa e sintesi creativa, perfezione audiovisiva orrorifica, modello esemplare e maggiormente rappresentativo dell’horror music.

locandina_nosferatu_1922.jpgCap. 1 – L’horror classico, dalle origini agli anni ’50

Dracula aveva il potere del male, ma ciò veniva solo suggerito.
Terence Fisher

1. Cenni al cinema muto

Nel cinema muto, la musica divenne quasi da subito una presenza costante, continua e soprattutto necessaria. La proiezione di un film muto senza accompagnamento sonoro stancava e stancherebbe tuttora lo spettatore. L’accompagnamento musicale era spesso eseguito in sala da un singolo pianista, che operava anche la scelta del repertorio, o, più raramente, da un’orchestra. La musica eliminava il disagio della «terribilità» dell’immagine muta, mantenendo viva l’attenzione e alleviando la tensione del pubblico. Inoltre conferiva spessore drammaturgico e maggiore realismo alle immagini. L’effetto spettrale del cinema muto di cui parlava Robert Musil nel romanzo L’uomo senza qualità, e che ne rendeva quasi insopportabile la visione, indusse ad inserire la musica come “antidoto contro l’immagine” (1). Nell’utilizzo di musica all’interno del cinema proto-horror del periodo muto, si ravvisa il ricorso a chiare ed immediate connotazioni, ossia “significazioni contestuali e funzionali di tipo pragmatico legate alle circostanze dell’esecuzione, alle pratiche connesse, agli usi, agli ambienti e contesti storici” (2), che richiamassero ambienti, situazioni e sensazioni specifiche. I direttori musicali del muto ricercavano le atmosfere adatte per conferire unità e continuità alla narrazione filmica. In tale direzione agisce la musica per organo a canne scritta ed eseguita da Timothy Howard in Nosferatu (1922) di Friedrich W. Murnau, le cui sonorità rimandano e si associano all’idea di solennità, misticismo, soprannaturalità. Tuttavia, c’è da segnalare che spesso le attuali copie in circolazione dei film dell’epoca presentano, come in questo caso, musiche aggiunte anche decenni dopo, e quindi diverse da quelle che accompagnavano le proiezioni in sala, spesso andate perdute. La prima di Nosferatu si tenne a Berlino con musica orchestrale originale di Hans Erdmann.
Una versione de Il carretto fantasma (1921) di Victor Sjostrom, considerato uno dei primi esempi di cinema horror, è risultata inguardabile ed appunto “spettrale” ad una nostra visione, poiché priva di sonoro e di conseguenza incapace di infondere coinvolgimento mentale, in quanto l’io spettatore non è in grado di penetrare a pieno nella narrazione filmica e lo scorrere delle immagini risulta freddo, sensorialmente incompleto e privo di un riferimento sonoro che ne scandisca il tempo ed i ritmi. Un sottofondo musicale ritenuto adeguato, e cioè “L’arte della fuga” di Johann Sebastian Bach, ha permesso la percezione del tempo dell’immagine e la visione completa del film, senza impressioni di carenze espressive. In questo modo, abbiamo messo in pratica il cosiddetto “metodo delle mascherature” (3) descritto da Michel Chion, consistente nel guardare prima suono e immagine, poi nel mascherare l’immagine ed, infine, nel mascherare il suono. In questo caso abbiamo operato nella direzione inversa, visionando prima l’immagine priva di musica, poi la musica priva di immagini. Dopo di che abbiamo unito le due, percependo un effetto sbalorditivo per il cambiamento radicale della ricezione filmica. La musica ha la capacità di animare temporalmente il film, vettorializza e drammatizza i piani, orienta l’azione verso un futuro, uno scopo e crea un sentimento di imminenza, di attesa, di suspense (4).

2. L’horror sonoro

cover_nosferatu.jpgIl cinema dei primi decenni del sonoro, dagli anni ‘30 agli anni ‘50, affidava generalmente l’accompagnamento musicale ad un orchestrazione tradizionale e a sonorità di stampo classico, radicate nelle abitudini d’ascolto di massa. Anche nel cinema horror l’orchestra di archi e fiati è stato il principale mezzo di realizzazione della colonna sonora. Tale impiego era quello che meglio si sposava ed entrava in relazione di connotazione reciproca con temi, trame, epoche e luoghi rappresentati e personaggi inscenati dal cinema horror classico di quel periodo, durante il quale la grande depressione economica e le due guerre mondiali fecero emergere dalla coscienza di massa archetipi come Dracula, il mostro di Frankenstein, il dottor Jekyll e Mr. Hide, il Fantasma, derivanti dalla tradizione letteraria gotico-romantica, affiancati dalla anormalità mostruosa dei freaks di Tod Browning, tutti potenti ed evidenti metafore, anche se involontarie, dei conflitti economici e di classe nonché icone evasive delle crisi e dei mutamenti psicologici individuali e collettivi. Con l’avvento del sonoro, risalente al 1927, la fusione di immagini e musica ricontestualizzò la dimensione invisibile e intangibile della paura. I film dell’orrore insegnarono che “suono e immagine sono due cose distinte e assai diverse, e soprattutto che, insieme, possono essere qualcosa di inedito e d’imprevedibile.” (5) Per le sconvolgenti implicazioni apportate e potenzialità aggiunte, l’horror fu forse tra i generi che subirono le conseguenze più significative della rivoluzione del sonoro, la quale “ha per la soggettività spettatoriale cinematografica una portata socio-culturale: la tecnologia audio non solo ha modificato l’assetto delle percezioni, ma ha consentito nuove modalità affettive di fruizione dell’immagine (si pensi al ruolo della musica nel suo rapporto con la scena o la suspense), l’ha arricchita di nuovi elementi estetici.”
Mentre in alcuni film come Dracula di Tod Browning (1931) l’assenza di musica ed i conseguenti silenzi ininterrotti derivavano da una messa in scena e da una recitazione legate ancora al muto e soprattutto al teatro e alle rappresentazioni teatrali dell’opera di Bram Stoker, a partire dagli anni ‘30, si formò ad Hollywood un gruppo di compositori di musica originale per film che aveva in Max Steiner il suo principale esponente. Egli compose le musiche per capolavori come Il traditore (1932) di John Ford, Via col vento (1939) di Victor Fleming e Casablanca (1942) di Michael Curtiz. “Steiner cerca di individuare uno o più temi ricorrenti che possano sottolineare in maniera efficace la natura della scena o il comportamento dei personaggi, e li sviluppa secondo quei principi di composizione e di arrangiamento che possano risultare facilmente orecchiabili e graditi al pubblico.” (7) Una musica edulcorata, come il cinema dell’epoca, che fosse accomodante e non disturbasse il pubblico. In un’epoca in cui si ricorreva ancora a pezzi di repertorio e a brevi brani originali, Steiner iniziò e consolidò l’utilizzo dei commenti musicali scritti appositamente per l’intero film, uno degli elementi costitutivi che negli Stati Uniti garantirono il successo del nuovo spettacolo cinematografico. Le sue partiture si rifacevano al principio che, dagli anni ‘30 in poi, dominerà la stragrande maggioranza della musica da film: il ricorso al leitmotiv, teorizzato dal compositore tedesco Richard Wagner e consistente in un tema ricorrente collegato a personaggi, oggetti, ambienti, rapporti sentimentali (come il classico «tema d’amore»). Il leitmotiv possiede una funzione identificativa finalizzata a una ricezione facilitata e a una comprensione acusticamente guidata delle vicende narrate, ed è atto a venire modificato oppure sviluppato nel corso delle proprie ricorrenze. Tale ricorso conferisce unità e coerenza alla narrazione. Max Steiner compose anche le musiche per le avventure horror, prodotte dal duo della R.K.O. Ernest Shoedsack e Merian C. Cooper, La pericolosa partita (1932) e King Kong (1933), film strettamente imparentati per i quali furono utilizzati anche lo stesso set e le stesse scenografie. Con questi film il suo stile diventava più maturo ed efficace, e ottenne effetti musicali spettacolari e suggestivi. A una musica tipicamente fuori scena, caratterizzata dalla struttura a leitmotiv, affiancò l’introduzione delle dissonanze per suggerire un clima di terrore, e il particolare uso del silenzio nelle scene che presentano spiccate componenti sonore (ad esempio il volo dell’aereo sull’Empire State Building nel finale di King Kong). Lo stile di Steiner preannuncia anche particolari difetti del futuro, come l’eccessiva coloritura e l’abbondanza della musica anche nei momenti in cui sarebbe più eloquente il silenzio.
locandina_king_kong_1933.jpgUna caratteristica fondamentale del cinema hollywoodiano, a partire dagli anni ‘30, divenne la presenza indispensabile dell’happy end come elemento strutturale portante del prodotto filmico, che garantisse un’adeguata, appagante e consolatoria fruizione dello spettacolo da parte dello spettatore, una vera e propria politica economica e sociale del racconto. Nemmeno i film horror dell’epoca, generalmente, si discostavano da questo tipo di canone industriale: alla fine del film il mostro viene distrutto, il male è sconfitto e i protagonisti ritornano alla loro vita di sempre. La pericolosa partita soddisfa pienamente tale meccanismo. Il conte Zaroff (Leslie Banks), un folle aristocratico con la passione morbosa della caccia, dopo aver trionfato su tutti i tipi di prede si dedica alla caccia contro l’uomo. Nel finale viene ferito e soccombe, mentre i due protagonisti fuggono dall’isola su di una barca. Il film possiede un leitmotiv breve, cantabile e facile da ricordare che sentiamo per la prima volta già nel corso dei titoli di testa, e che si ripeterà, come da prassi, più volte nel corso della narrazione, con alcune varianti (ad esempio, con bassa intensità e in maniera soffusa quando i due protagonisti fuggitivi si aggirano nella foresta nascondendosi). Mentre durante tutto il film il leitmotiv si ripete in tonalità minore, senza dare nessun senso di conclusione, ma suggerendo una continuo ripetersi e svilupparsi del tema, nel finale del film la musica si adegua al canone dell’happy end ripetendo ancora una volta il leitmotiv, questa volta in tonalità maggiore, conferendo un senso di conclusione e di progressione armonica risolutiva, segnando positivamente la fine del film e marcando sonoramente la classica scritta finale The End ed i titoli di coda.
Il cinema sonoro classico, ed in particolare quello horror, evitava, per ragioni tecniche, culturali, sociali e produttive, di mostrare determinate cose e chiamava il suono a supporto del proprio divieto visivo affinché suggerisse uno spettacolo molto più impressionante di quanto sarebbe stato se lo si avesse avuto davanti agli occhi. Uno degli esempi migliori a riguardo lo si identifica nel cinema prodotto negli anni quaranta da Val Lewton per la RKO, il quale realizzò un ciclo di film d’orrore psicologico e d’atmosfera, a basso costo e dal grande successo di pubblico. La tecnica di Lewton consisteva nel suggerire l’orrore attraverso ombre e sottrazioni, anziché su rozzi e già visti effetti speciali al trucco. Lewton lasciava che il pubblico si creasse mentalmente i dettagli orrorifici, e ciò avveniva anche grazie ad un preciso ed efficace utilizzo delle valenze del sonoro. Il più importante dei film della serie fu Il bacio della pantera (1942), diretto da Jacques Tourner, con le musiche di Roy Webb, forse il più importante film horror degli anni ‘40, storia metaforica di un risveglio sessuale di una donna repressa che diventa orrore predatorio (tema che deve molto al Dracula di Bram Stoker). In una delle scene più famose, Irina (Simone Simon) segue Alice (Jane Randolph) che cammina per Central Park, dopo averla vista cenare con suo marito Oliver (Kent Smith). Ad una musica inizialmente ieratica, grave e solenne, su un unico accordo minore cadenzato da delle percussioni, segue il silenzio. Passando dalla musica alla mancanza di essa è come se il regista ci avesse invitato ad ascoltare meglio i suoni interni alla sequenza che rompevano quello stesso silenzio da lui creato, e a seguire il rumore dei passi provocato dalle due attrici. L’assenza di musica fa spazio a ciò che nel silenzio inquietante rimane incombente, celato al nostro sguardo ma immaginato nel fuori campo. Ciò che preme sottolineare è l’estrema importanza del silenzio come vero e proprio elemento musicale all’interno di un film, potenzialmente espressivo e significante allo stesso modo, e in alcuni casi in misura maggiore, della musica, anche secondo un’esperienza che sarà portata alle estreme conseguenze dal compositore statunitense John Cage, il quale nel brano "4’ 33’" incorporava nella musica il silenzio che permettesse al pubblico di ascoltare i rumori d’ambiente. Un uso mirato e consapevole del silenzio può essere capace di trascinare lo spettatore in quella dimensione che, insieme alla solitudine e all’oscurità, costituisce uno degli elementi del perturbante freudiano, fonte e ricettacolo delle paure innate e inscritte nell’inconscio, quelle “situazioni alle quali è legata l’angoscia infantile di cui la maggior parte delle persone non riesce a liberarsi mai completamente.” (8) E’ celebre l’affermazione di Michel Chion: “Il cinema sonoro ha introdotto il silenzio.” Il silenzio a volte può risultare spaventoso, suscitare sensazioni di ansia profonda per l’attesa spasmodica e l’attenzione iper-sensibile proiettata su quei suoni e rumori, reali o immaginati, impercettibili o improvvisi, che da esso traggono origine e potere emozionale. L’horror forse rappresenta la migliore dimostrazione dell’osservazione di Chion, secondo il quale “l’impressione di silenzio in una scena di un film non è il semplice effetto di un’assenza di suono; essa si produce soltanto quando viene raggiunta attraverso tutto un contesto e una preparazione. La quale consiste, nel caso più semplice, nel farla precedere da una sequenza rumorosa. Il silenzio, in altre parole, non è mai un vuoto neutro; è il negativo di un suono che si è sentito prima, o che si immagina; è il prodotto di un contrasto.” (9) Solo con la musica e i suoni, e con le loro sospensioni e interruzioni, si riesce a cogliere il silenzio, un particolare stato d’animo che il cinema muto, con la sua innaturale assenza di suoni, di fatto precludeva. Anche il silenzio, anche l’assenza di musica in un film, totale o parziale, può quindi essere in grado di infondere paura e angoscia.
Ritornando alla celebre sequenza, un ringhio off si trasforma in quello che sembra un forte ruggito ma che in realtà è il rumore provocato dall’arrivo dell’autobus (null’altro che un forte colpo su di un piatto). Un’atmosfera carica di tensione suscita la sensazione di una minaccia incombente, interrotta da uno shock auditivo. Il cinema di Val Lewton era magistrale e forse rimane ineguagliato nel creare situazioni di orrore suggerito. Anche la violenza non era mai direttamente mostrata. Nel film, il dottor Judd (Tom Conway) è uno psicoterapeuta incaricato di guarire Irina dalle sue paure sessuali originate dalla discendenza da un’antica stirpe malvagia di mutanti. Nel momento in cui la bacia, Irina si trasforma in pantera, uccidendolo. Ma l’aggressione non è visibile, così come l’entità locandina_cat_people.jpgresponsabile di essa. Sono noti gli scontri di Lewton e Tourneur con i dirigenti della RKO, che reclamavano insistentemente visibilità alla pantera. Il buio domina, aggredisce spazi, nasconde la pantera e la sua trasformazione. Oltre alle ombre dell’aggressione proiettate sul muro, vi è anche la musica che sale di intensità, cresce di ritmo e mantiene in tensione la sua veloce melodia, giocando un ruolo altrettanto importante nel permettere all’occhio della mente di vedere e coinvolgere emotivamente lo spettatore. Il medium radiofonico sfruttò in quegli stessi anni le potenzialità del sonoro. Lo sceneggiatore e produttore Arch Oboler diede vita negli Stati Uniti alla serie radiofonica Lights Out, trasmessa dalla NBC nella stagione 1938-39, e ripresa nel 1942-43, che trattava storie horror e gialli, i quali, per quanto riguarda la seconda stagione, andata in onda in pieno periodo di guerra, avevano spesso un tono propagandistico. “Il pubblico veniva incoraggiato, con istruzioni ossessive, quasi ipnotiche, a immaginare un’America conquistata dai tedeschi, o soldati giapponesi che incombevano minacciosi proprio dietro l’angolo.” (10) Oboler era in grado di creare diverse e sconvolgenti immagini mentali con i mezzi più semplici. Attraverso un uso innovativo degli effetti sonori, riusciva in maniera unica a creare terrore e suspense. “Oboler usava violenza e sangue a secchiate, ma molto rimaneva implicito; il vero orrore non si vede (o si sente in questo caso), ma viene proiettato sullo schermo della mente.”
La “cecità” della radio, tecnologica e imprescindibile, affidava necessariamente le forme della paura totalmente alla componente sonora, eludendo pienamente obiezioni della censura insormontabili per il cinema hollywoodiano degli anni ‘40. Questa comunicazione implicita e invisibile dell’orrore trova sostanzialmente lo stesso procedimento nel medium cinematografico, laddove la “cecità”, la visione limitata era imposta sia dagli istituti censori che dagli stessi Studios, i quali preferivano evitare problemi con la stessa censura, nonché con le istituzioni. Uno sguardo spettatoriale ancora “infante” ed ampiamente turbabile, controllato e continuamente guidato sul cosa potesse e non potesse vedere, rendeva necessario l’intervento del sonoro e della musica nel raggirare la censura visiva e mostrare acusticamente l’orrore, spesso con trovate creative raffinate e ricercate.

3. Terence Fisher e James Bernard

cover_horror_of_dracula.jpgLa musica per i film dell’orrore, nel corso degli anni, abbandonò progressivamente il sinfonismo alla Steiner, tranquillizzante ed edificante, puntando su effetti e sonorità che garantissero, al pari delle immagini o anche più di esse, tensione emotiva e paura.
Un caso esemplare di cinema horror classico, e modello archetipico di funzionamento della soundtrack horror del periodo, lo si identifica nell’opera del regista Terence Fisher, che negli anni ‘50 rilanciò l’horror a basso costo con la casa di produzione inglese della Hammer Film. L’addetto alle colonne sonore della Hammer era James Bernard, il quale, attraverso uno stile melodico reiterato, si prefiggeva di suscitare emozioni simili ad ogni apparizione dei personaggi mitici del fantastico. La musica che accompagna i suoi film si priva della funzione edonica, cioè attivatrice di sensazioni piacevoli, propria di ogni classica colonna sonora. In Dracula il vampiro (1958), ascoltiamo la musica nei momenti drammatici, nei momenti di azione concitata, quando il pericolo è imminente e soprattutto quando il mostro colpisce, mentre è invece assente in molti momenti di dialogo e di pausa dall’azione. Essa, quindi, marca la narrazione, segnalandone le tappe e connotandole a livello emozionale. L’effetto di attesa e di tensione viene tradotto in una serie abbastanza lunga di funzioni armoniche sospese che non trovano risoluzione né quindi suscitano distensione nell’orecchio e soddisfazione nella mente dello spettatore. La musica, inoltre, secondo uno dei criteri di funzionamento della colonna sonora del cinema classico individuati da Claudia Gorbman, non è concepita per essere ascoltata coscientemente: “la sua scrittura (predominanza di strumenti ad arco, ripetizioni numerose di brevi motivi melodico-ritmici) e le sue modalità di apparizione, provocate da avvenimenti sonori o drammatici, contribuiscono a questa «cancellazione».” (12) La musica diviene un tappeto sonoro recepito quasi inconsapevolmente, come se fosse “data per scontato”, una volta ascoltata generalmente viene quasi subito dimenticata. La prima entrata in scena di Dracula, interpretato da Christopher Lee, è accompagnata da un motivo solenne e drammatico, il quale resterà pressoché inalterato in tutte le successive apparizioni del conte, anche nel film di Fisher Dracula, Principe delle tenebre (1966) e in molti film di registi cui la Hammer affiderà la continua resurrezione del conte. (13) L’apice del coinvolgimento della soggettività spettatoriale all’interno dell’opera cinematografica, raggiunto dal cinema classico attraverso il meccanismo passionale del piano-contropiano inquadrante alternativamente i due protagonisti, i cui sguardi si incrociano virtualmente, e seguito dall’inquadratura finale della loro unione, trova nell’horror un ribaltamento, un’antitesi audiovisiva. Da una parte abbiamo una vittima innocente, dall’altra il vampiro, il mostro, il cui morso non è mostrato bensì suggerito nella mente dello spettatore. Mentre il crescendo della dimensione musicale ritmica sottolinea l’animarsi dell’azione, sfruttando livelli potenti di intensità sonora, sono garantite le risposte automatiche e incoercibili di eccitazione, euforia, coinvolgimento ed identificazione emotiva. Un crescendo dinamico sino al fortissimo, nel momento in cui Dracula colpisce la sua vittima, assicura nella maggior parte del pubblico reazioni di paura e terrore. La musica interviene nella fondamentale funzione di commento, attraverso la quale mira a potenziare il senso espresso dal linguaggio visivo, suggerendo aspetti più profondi e meno evidenti, o aspetti non traducibili dalle immagini. Il morso di Dracula non si vede ma la musica aiuta lo spettatore ad immaginarselo, evidenziandone anche il sotteso significato erotico, e la natura simbolica di una sessualità rivoluzionaria che irrompe nell’ordine sociale e morale delle sue vittime e allo stesso tempo complici.
La colonna sonora di Dracula il vampiro costituisce un caso tipico, all’interno di un horror, di musica empatica, la quale “esprime direttamente la propria partecipazione all’emozione della scena, rivestendo il ritmo, il tono, il fraseggio adatti, il tutto evidentemente in funzione dei codici culturali della tristezza, della gioia, dell’emozione e del movimento.” (14) Assai frequente, nel voler suscitare spavento, è il ricorso al punto di sincronizzazione, definito come “un momento saliente di incontro, in una catena audiovisiva, tra un momento sonoro e un momento visivo.” (15) Nel film di Fisher, al morso del vampiro, fuori campo o nascosto dal mantello, corrisponde un accordo di archi più marcato e intenso: sincronizzazione tra orrore celato, in tutto o in parte, e musica che svela mentalmente ed integra sensorialmente l’orrore.



Note:
1.Theodor W. Adorno e Hans Eisler, La musica per film, Newton Compton, Roma, 1975.
2.Cristina Cano, La musica nel cinema. Musica, immagine racconto, Gremese Editore, Roma, 2002, p. 127.
3.Michel Chion, L’audio-vision. Son et image au cinéma, Paris, Editions Nathan, 1990. (trad. it. di Dario Buzzolan, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 1997, pp. 178, 179.)
4.Cfr. Ibidem, p. 22.
5.Simona Marani, Horror. Sedotti e abbandonati, in Gino Frezza (a cura di) Fino all’ultimo film, Roma, Editori Riuniti, 2001, p. 303.
6.Fabrizio Denunzio, Fuori campo. Teorie dello spettatore cinematografico, Roma, Meltemi Editore, 2004, p. 125, 126.
7.Gianni Rondolino, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Torino, Utet, 1991, p. 78.
8.Sigmund Freud, Il perturbante, Torino, Boringhieri, 1989.
9.Michel Chion, L’audio-vision. Son et image au cinéma, Paris, Editions Nathan, 1990. (trad. it. di Dario Buzzolan, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 1997, p. 60.)
10.David J. Skal, The Monster Show, 1993 (trad. It. di Manlio Benigni, Milano, Baldini & Castoldi, 1998), p. 189.
11.Stephen King, Danse macabre, 1981 (trad. it., Milano, Frassinelli, 2000), p. 143.
12.Claudia Gorbman, Unheard Melodies. Narrative Film Music, British Film Institute-Indiana University Press, London-Bloomington 1987, p. 73.
13.Cfr. Fabio Giovannini, Terence Fisher, un artigiano dell’horror, AUT (Associazione Universitaria Teatrale), Roma, 1983.
14.Michel Chion, L’audio-vision. Son et image au cinéma, Paris, Editions Nathan, 1990. (trad. it. di Dario Buzzolan, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 1997, p. 17.)
15.Ibidem, p. 62.

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