Lo sguardo musicale di Stanley Kubrick: György Ligeti

giorgy_ligeti.jpgLo sguardo musicale di Stanley Kubrick: György Ligeti

Nella poetica cinematografica di Stanley Kubrick la musica è una presenza determinante. Di norma, salvo che nel ghetto del film musicale, la musica viene occultata e fatta emergere solo di rado pur costituendo il fondo amalgamante dei film, l’elemento che dà unità psicologica al seguito di immagini in movimento nella percezione del pubblico. Kubrick si oppone risoluto a quest’uso della musica con funzioni di “quinta sonora”, e sulla musica lavora con estrema attenzione, costruendo il film sui due piani, sonoro e visivo (1). Egli voleva «che il film fosse un’intensa esperienza soggettiva» disse «che raggiunge lo spettatore a un livello di coscienza più profondo, proprio come fa la musica» (2). Quest’affermazione del grande regista contenuta nel bel libro di John Baxter non lascia spazio ad incertezze.
La musica che costituì ripetutamente un riferimento nei film di Kubrick, a partire da 2001 Odissea nello spazio, è quella dell’ungherese György Ligeti.
Ligeti, compositore legato all’esperienza avanguardista degli anni ’60 e ’70 la cui evoluzione artistica non si è mai interrotta fino alla sua recente scomparsa, è uno dei protagonisti della musica del nostro tempo, completamente svincolato dalle produzioni cinematografiche.
A sottolineare l’indipendenza artistica del compositore, l’episodio legato a 2001 Odissea nello spazio: Kubrick utilizzò la musica di Ligeti senza chiederne l’autorizzazione, procurandosi l’ingiunzione legale del compositore (3).
Il regista americano scelse l’opera del maestro ungherese perché intravide correttamente nella sua musica l’arca devota al “raggiungimento di uno stato di coscienza più profondo”, e, devoto anch’egli all’adempimento artistico, senza alcuno scrupolo né per gli accordi presi precedentemente con Alex North (il quale scrisse l’intera colonna sonora, che non fu utilizzata) né per il permesso di Ligeti, inserì nel film: "Atmosphères", il "Kyrie" dal Requiem, "Lux Aeterna" e "Aventures".
Successivamente, dopo aver risolto i contrasti legali, nel film The Shining venne utilizzato "Lontano" per orchestra e, in Eyes Wide Shut, "Musica Ricercata" per pianoforte.
Mentre in 2001 la musica di Ligeti viene utilizzata in maniera diffusa, nei successivi due film le composizioni di Ligeti occupano solo la posizione più importante nell’architettura cinematografica.
Per capire meglio la preferenza di Kubrick per la musica di Ligeti dobbiamo analizzare alcuni aspetti del suo pensiero creativo. Cominceremo da The Shining, film cult girato nel 1980.
La pellicola viene definita «il più complesso dei suoi film» (4), propriamente un «film sull’enigma» (5); la vera e propria chiave di lettura del film è il Labirinto, indizio che non permette la decifrazione, bensì l’inserimento in un circuito di valore al tempo stesso obbligato e senza uscita. The Shining è un viaggio nella psiche e il Labirinto è il suo centro: tutto sembra uguale, geometrico e ordinato, ma in realtà non si sa mai bene dove ci si trova e che cosa e quando succede. Al tempo stesso è il luogo di un viaggio in cui nulla cambia (6). Sovviene, in parallelo letterario, la prima parte dell’opera dello scrittore tedesco Joseph Roth: ideale odissea o, se si vuole, versione della parabola del figliol prodigo e romanzo del reduce; narra cioè di un ritorno a casa o della ricerca di una casa (7). In una celebre scena del film, Jack Torrance, mentre abbatte a colpi d’ascia la porta, chiama la moglie “Wendy? I’m home!” (“Wendy? Sono a casa!”).
Il riferimento arcaico smaschera le illusioni del passato prossimo e quindi del moderno, svela come falsi i surrogati dei valori trascendenti affermati dall’individualismo, denuncia come falsa l’universalità del soggettivismo (8). L’ingresso nella sfera della più totale secolarizzazione, intesa nel senso più ampio come dissacrazione degli ideali umani, significa, come dice Roth, perdita completa della dimensione «verticale» e religiosa (9).
In effetti, i simboli essenziali dell’uomo e dei miti antichi che li esprimono hanno una forza primigenia che è come radicata nel profondo dell’animo e continuano a possederlo e commuoverlo anche quando il loro significato sembra dimenticato, ossia quando quei miti non hanno più, all’apparenza, la carica sacrale, l’energia luminoso/religiosa che ne aveva accompagnato la nascita (10).
La traduzione italiana del titolo The Shining è La Luccicanza o Lucentezza, intesa certamente come manifestazione dell’energia di cui si diceva. Definendo la centralità onnicomprensiva del Labirinto nel film, Kubrick opera un gesto convenzionale, che viene immediatamente investito da concomitanti emotive così intense da esaltarne subito la funzione. In molte civiltà, tracciare uno di questi segni (la stella come simbolo celeste, il disco come immagine solare, il labirinto come processo di iniziazione) è considerato un fatto magico o sacro. Cioè gli si attribuisce la capacità di agire sulle forze che rappresentano, e non solo di indicarle a chi guarda. La loro vitalità, che si è rivelata quasi perenne, dipende proprio dalla loro capacità di concentrare entro un nucleo semplice e compatto un altissimo tasso di esperienze misteriose, oscillanti fra il tremendo ed il sublime. I simboli sono insostituibili, in quanto creano un concetto, non solo lo rappresentano (11).
2001_locandina.jpgThe Shining si manifesta chiaramente e in maniera diciamo ‘intelligibile’ attraverso i personaggi di Hallorann, il cuoco dell’albergo, e di Danny, il figlio di Jack Torrance. Ogni  affioramento della vera realtà che si concretizza nelle “visioni” di Danny, depositario della percezione della Shining, avviene nel suono di "Lontano", composizione per orchestra scritta da Ligeti nel 1967. Essa fa parte delle opere (come "Apparitions" del 1959 e "Atmosphères" del 1961) fondate sul  principio di elaborazione di trame globali risultanti dalla sovrapposizione di avvenimenti sonori microscopici. Lo stile di Ligeti in questo periodo si evolve nell’atmosfera generale di ricerca di continuità tipica della musica elettronica. La ricerca di continuità tra suono elettronico e suono acustico, tra voce ed elettronica, tra rumore elettronico e rumore d’origine verbale, definiva i principi formali delle opere elettroniche più importanti. Per Ligeti nella stessa epoca l’elaborazione compositiva di una trama complessa elaborata però con i mezzi dell’orchestra (e/o delle voci) poggia sulla stessa idea di continuità, una continuità dei parametri del suono all’interno di una trama complessa: «Gli intervalli ed i ritmi dovevano essere completamente dissolti, e certo non per distruzione gratuita, ma per lasciare il posto alla composizione di forme musicali fatte di reti finemente tessute, nelle quali la funzione determinante dal punto di vista formale è trasferita prima di tutto nella natura della loro tessitura…» (12). Allo stesso  tempo le strutture degli intervalli e dei ritmi non sono assenti: «semplicemente non si può udirle. Non esse, ma una categoria più complessa è determinante per la forma, e cioè il prodotto dell’intreccio di numerose voci, d’intervalli e di ritmi. L’avvenimento musicale non si manifesta dunque più al livello dell’armonia e del ritmo, ma a quello delle strutture sonore in reti, in filamenti…» (13). L’apparente discrasia nella presenza delle modalità compositive tradizionali e nell’impossibilità ad essere udite, che si genera nei procedimenti multipli d’elaborazione della microstruttura nelle trame complesse, mira alla composizione di  differenti “tipi di spazio”, di differenti “architetture nello spazio”. Architetture temporali considerate abitualmente “statiche”.
Si tratta proprio di una staticità apparente, di un simulacro della mancanza di movimento. Perché queste trame multiple, senza sottomettersi necessariamente al movimento teleologico in avanti, sono in realtà l’espressione più chiara del movimento in quanto trasformazione perpetua o variazione universale in tutte le direzioni: ossia “ramificazioni” della materia sonora (14). La totalità dell’opera si crea e non cessa di crearsi come divenire di uno stato qualitativo che si trasforma in un altro. La mobilità è considerata in quanto proprietà immanente della materia sonora . Nella sceneggiatura, altamente strutturata simbolicamente del film, la scelta della partitura "Lontano" per i momenti dedicati alle visioni della Shining indica la consapevolezza delle soluzioni del regista nelle pieghe del pensiero compositivo di Ligeti. In The Shining la vitalità della presenza “nascosta” è certamente riproposta al livello definito nella struttura generativa dell’opera musicale.
Il film dove la musica di Ligeti viene utilizzata in un’economia più vasta è il celebre e precedente 2001 Odissea nello spazio, del 1968. In questo film Kubrick sceglie varie opere di Ligeti: "Atmosphères", parte del Requiem (il "Kyrie"), "Lux Aeterna", e "Aventures".
Non meno elevato il pensiero esistenziale in questo film, Kubrick dichiara in un’intervista: « il concetto di DIO sta al cuore di 2001, ma non quello delle immagini tradizionali e antropomorfiche di DIO. Non credo in nessuna delle religioni monoteistiche terrestri, ma sono sicuro che si potrebbe costruire un’affascinante e interessante definizione “scientifica” di DIO, se si accetta il fatto che ci sono circa 100 miliardi di stelle nella sola nostra galassia, che ogni stella può essere  un Sole che dà vita e che esistono circa 100 miliardi di galassie nel solo universo visibile. Le qualità che potrebbero avere entità extraterrestri sviluppate fino all’incorporeità, sono molto simili a quelle che si usa attribuire a DIO. In ciò mi ha affascinato il soggetto» (15).
Nel titolo del film il termine odissea ricopre un significato propriamente legato all’Odissea omerica; le rivelazioni in merito sono molte, possiamo notare la congruenza fra la posizione centrale di Odisseo, definita nei primi nove versi e l’ossessiva centralità in cui Kubrick pone l’uomo; ma è una centralità che situa l’uomo in posizioni spaziali inedite, con la testa in giù e i piedi in su, oppure trasversalmente con la testa e i piedi a sinistra, o in prospettive strane di inquadrature che operano all’interno della navicella spaziale Discovery sezioni apparentemente casuali. La figura interna dominante è il cerchio, come forma perfetta di cui pare impossibile superare i limiti fisici e logici; l’astronauta corre in un corridoio per tenersi in forma fisica, corre in linea retta e il corridoio non finisce, benché sia dentro lo spazio limitato dell’astronave, sta percorrendo un camminamento circolare, la corsa può essere infinita e apparentemente retta mentre in realtà resta chiusa in esso (16).
Il secondo luogo della ciclicità deriva strettamente dalla concezione classica, infatti dopo i nove versi che presentano Odisseo come l’unità centrale del poema, Omero riprende: «Anche a noi dì di queste avventure», cioè cominciando da un punto qualsiasi, non decorrendo secondo la successione cronologica dei fatti. Ma il decimo verso, più che alludere all’originale composizione circolare dell’Odissea, riecheggerà la vanteria degli aedi che si gloriavano di saper cominciare «da un punto qualsiasi» (17). Anche sotto questo aspetto l’Odissea nello spazio si ricollega più da presso alla vecchia pratica aedica.
Un altro elemento dello stile tradizionale conservato ma anche radicalmente rinnovato nell’Iliade e nell’Odissea (e nel film) è la “scena tipica”. Le fondamentali situazioni ricorrenti in cui un personaggio si può trovare vengono descritte nei momenti essenziali con versi-formula ripetuti senza variazioni o con variazioni di poco conto. Questo lato dello stile omerico è stato studiato in numerose monografie dedicate alle battaglie, alle scene con gli dèi, alle preghiere, alla composizione dei dialoghi, ecc. Si è visto che anche in esso si rivela una differenza essenziale fra lo stile epico e lo stile di ogni altra poesia: «Omero vuole esercitare la sua efficacia mostrando le cose in sé e per sé, il poeta moderno mostrando i sentimenti che le cose suscitano in lui, poeta individuale» (Walter Arend) (18).
Kubrick come Omero, allora, nel modo di condurre la narrazione delle vicende umane, regista dalla poetica classica nel significato di stretta attualità che l’arte impone, tradizione dei nostri giorni e dei giorni che verranno, rigenerata nella continuità dei lustri e dei minuti esteriormente fuggenti.
shining_locandina.jpgNella sceneggiatura di 2001 Odissea nello spazio riecheggia l’Odissea di un altro gigante della letteratura, James Joyce. Se si seguono le varie revisioni dell’Ulysses ci si accorge che l’opera si evolve nella direzione di quella che è stata detta la “forma espressiva”, la forma del capitolo o della parola stessa che ne esprime la materia. In verità si può affermare che questa è una condizione comune a ogni opera d’arte: ma se in ogni opera riuscita l’esperienza si organizza in forma e dalla forma riceve qualificazione e giudizio, tuttavia accade che, anche poggiando su una struttura espressiva che lo “mette in valore”, un dato materiale di esperienza viene di solito comunicato in un discorso che è al tempo stesso giudizio su di esso. Quando invece Joyce vuole bollare la paralisi della vita irlandese e in essa la paralisi e la disgregazione del mondo, a esempio nel capitolo di Eolo, non fa altro che registrare i discorsi vacui e presuntuosi dei giornalisti senza pronunciare alcun giudizio: il giudizio sta unicamente nella forma del capitolo in cui vengono impiegate tutte le figure retoriche in uso, mentre le varie fasi della discussione si dividono in paragrafi titolati a mo’ di notizia giornalistica, in una rassegna progressiva degli stili di titolazione – dal giornale vittoriano al quotidiano della sera a sfondo scandalistico – dal titolo “classico” a quello in “slang”.
Quindi l’esperienza si ostenta, e la forma che essa assume parla per essa. La forma assunta è ancora quella antica; le figure retoriche sono consegnate dalla tradizione linguistica e lo scrittore non le reinventa, le trova come strumenti di uso comune: ma è proprio assembrandole tutte insieme, violentemente, riducendo l’esperienza a quelle formule che per secoli la hanno espressa sino a logorarsi e ridursi appunto a forme vuote, che lo scrittore offre i presupposti per un giudizio, e denuncia un punto di rottura.
Questa forma del racconto che diventa al tempo stesso immagine relativa di tutta una situazione è, a volere impiegare le categorie di Stephen Dedalus, una forma di epifania, è la chiara e cartesiana consistenza di una epifania-struttura (19). Così Kubrick, che ha forse il mito dell’arte, adora la ragione, ma afferma da filosofo settecentesco che «la verità di una cosa si trova nella sensazione di essa e non nella sua concettualizzazione» e sembra dedicare la sua vita a qualcosa di cui riconosce l’inutilità di fondo e la gratuità (il cinema, la ragione stessa), perseguendo la verità disperatamente, magari col “senso in più” della tecnica, facendo entrare a forza nella ragione cartesiana anche l’immaginazione e i sensi di cui Cartesio diffidava. «E’ la felicità dell’arte mostrare come qualcosa diventi significante, non per allusione a idee già formate e acquisite, ma grazie alla disposizione temporale e spaziale degli elementi» (Mérleau-Ponty) (20).
In questo film, l’emersione della ragion ultima nella e della struttura, provoca uno shok temporale in cui le coordinate non sono più riconducibili ad un tempo vissuto cronologicamente; nell’avvicendarsi delle ere dal remotissimo passato primordiale all’avveniristico futuro attraverso salti qualificanti nel meccanismo perfetto della costruzione artistica, il tempo subisce uno spappolamento definitivo, una contrazione. Analogo il pensiero che regola e rende pertinente, direi consustanziale la presenza sonora delle partiture ligetiane che impone un nuovo modello di composizione timbrica dello spazio-tempo, il confronto di questa musica col tempo si esplica nell’assoggettamento del tempo ad una sorta di dilatazione, ad un fenomeno di rallentamento. Già nel suono che avvia la composizione "Atmosphères", privo com’è di cesure rispetto all’antecedente silenzio, vi si percepisce l’indifferente abbandono all’eternità di un tempo oggettivo, l’invito a cedere ad una sorta di ascolto ipnotico (21).
Alla musica il compito di “traghettare” lo spettatore di 2001 in una condizione altra rispetto alla quotidianità contingente, in una dimensione realmente ispirata all’eternità.
Questo brano d’apertura, che precede addirittura la sigla del film e viene proposto al pubblico interamente, durante la composizione è stato pensato da Ligeti come una sorta di “messa funebre nella sfera materiale”. Egli vuole che lo si intenda quasi come un Requiem che si innalzi dal sottosuolo, in lontananza, nell’inconscio. È il tessuto materiale dell’opera che deve mediare punti di contatto e associazioni con l’antica sequenza del Requiem. Così, all’incirca a metà della composizione, c’è un passaggio in cui il suono statico improvvisamente subisce una cesura: dalle frequenze sempre più acute e crescenti, degli ottavini e dei violini, si assiste improvvisamente a una caduta vertiginosa dei contrabbassi. Si potrebbe pensare di trovarsi in un punto chiave; nel trattamento del materiale non è così, ma il significato è questo. Ligeti ammette di aver pensato per questo passaggio a un tuffo nel Tartaro. Successivamente si prepara ora il graduale restringimento della banda di frequenza. Questo momento fa pensare all’inizio di un Dies irae. Dopo il superamento della ‘porta stretta’, dopo una breve apparente pausa, risuona il Tuba mirum (22).
Nel "Kyrie" dal Requiem, composto tra il 1963 ed il 1965, vengono evidenziati toni altamente drammatici ed espressionistici, con la triplice invocazione «Kyrie eleison, Christe eleison, Kyrie eleison» (Signore pietà, Cristo pietà, Signore pietà) intonata dal coro in apertura di sezione, e che corrisponde alle apparizioni del monolito sulla terra, tra le scimmie, e sulla luna. La musica che accompagna il trasbordo tra la stazione spaziale e il luogo lunare dove è stato scoperto il monolito è "Lux Aeterna", una sezione (communio) della  "Messa dei Defunti", l’unica che ha conservato fino a tutt’oggi un’antico versetto, "Requiem Aeternam" (23) e che, nell’opera di Ligeti, viene eseguita da un coro di sedici voci a cappella (composta nel 1966).
kubrick.jpgLa morte è al centro o comunque nel luogo privilegiato di ogni film di Kubrick, sempre come momento di supremo orrore e terrore, mai riassorbito nella convenzione di genere. Se il controllo, anche il controllo tecnico dei materiali filmici, si rovescia nella morte, è comprensibile che proprio la perfetta chiusura dei meccanismi kubrickiani li faccia poi apparire “aperti” agli spettatori. L’assoluto rigore con cui il meccanismo è chiuso e controllato, essendo poi in ogni caso solo un meccanismo filmico, rimando a ciò che non vi è rinchiuso, provoca a una dialettica col “mondo” (24).
Alla fine del “viaggio psichedelico”, nel quale Kubrick utilizza incautamente la musica del "Requiem", mixandola impropriamente con "Atmosphères", l’uomo-astronauta Paul si trova nella camera bianca arredata in stile Luigi Filippo. Il brano che si ascolta è "Aventures", un brano “pantomima” dove il processo compositivo consiste in cinque storie sovrapposte contemporaneamente, generando l’effetto d’urto dell’assurdo. Lo scenario di "Aventures" si dissolve in catene di associazioni, così lo spazio scenico prescritto dal compositore e ripreso par pari dal regista nella camera Luigi Filippo (nel film l’effetto dell’assurdo è nello straniamento prodotto dall’apparente incongruità dell’epoca negli arredi e dal fatto che l’illuminazione proviene dal pavimento; nelle prescrizioni di Ligeti per il quadro finale della sua opera, ricordiamo composta senza sapere che un giorno sarebbe stata utilizzata in un film, la camera Luigi Filippo è girata di 90°, vale a dire con il pavimento con i mobili fissati sul muro laterale della scena, il soffitto sul muro laterale opposto). “Assurdo” non vuol significare assenza di senso, nella sua struttura compositiva l’opera d’arte assurda non si distingue dall’opera d’arte logica. Entrambe sono in confronto con la convenzione. Solo che, nel sistema dell’assurdo, i significati sono spostati verso ciò che non quadra (25).
Nel riferimento costante al trapasso nel mistero possiamo ravvisare nel pensiero musicale ligetiano, la costante e progressiva proiezione in una dimensione temporale non avvicinabile direttamente mediante una razionalità riflessiva.
L’esperienza compositiva di Ligeti unisce paradossalmente due principi: il principio del movimento infinito ed il principio della teleologia fondata sul funzionalismo formale. La forma globale dell’opera equivale al movimento della materia all’interno di un ricettacolo chiuso. È paragonabile per Ligeti al processo di cristallizzazione o al “cristallo liquido” che si sta solidificando. Pur mantenendo l’apertura del gesto formale globale, la forma-movimento in Ligeti cerca sempre l’equilibrio architettonico di una totalità (26).
L’opera di György Ligeti corrisponde nella sua genetica alle “architetture circolari” di Stanley Kubrick, il quale trova nel compositore ungherese il suo alter-ego sonoro, capace di coniugare  sensibilità emotiva e geometrie significative, in una confluenza che raggiunge il compimento dell’arte.

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Note:
1. E.Ghezzi  Stanley Kubrick Il Castoro Milano1995, p.107
2. J.Baxter Stanley Kubrick, la biografia Lindau Torino 2006, p.302
3. E.Roelcke Lei sogna a colori? Colloqui con György Ligeti, ALET Ed. Padova 2004, p.122
4. P.Giuliani Stanley Kubrick, Rivages-Cinéma, Parigi 1990, p.73
5. P.Mayersberg L’Overlook Hotel, in M.Ciment (a cura di), Stanley Kubrick La Biennale di Venezia- Giorgio Mondatori, Venezia 1997, p.5
6. G.Cremonini Stanley Kubrick, Shining , Lindau Torino 2005, p.50
7. C.Magris Lontano da dove , Einaudi Torino 1989, p.26
8. ivi, p.31
9. ivi, p.32
10. P,Santarcangeli Il libro dei Labirinti , Sperling & Kupfer Milano 2000, p.3
11. P,Santarcangeli Il libro dei Labirinti , Sperling & Kupfer Milano 2000, p.129
12. I.Stoianova Ramificazioni timbriche e forma-movimento, in LIGETI, EDT Torino 1985, p.22
13. I.Stoianova Ramificazioni timbriche e forma-movimento, in LIGETI, EDT Torino 1985, p.23
14. I.Stoianova Ramificazioni timbriche e forma-movimento, in LIGETI, EDT Torino 1985, p.26
15. E.Ghezzi  Stanley Kubrick Il Castoro Milano 1995, p.10
16. E.Ghezzi  Stanley Kubrick Il Castoro Milano 1995, p.84
17. F.Codino Introduzione a Omero, Einaudi Torino 1990, p.197
18. F.Codino Introduzione a Omero, Einaudi Torino 1990, p.198
19. U.Eco Le poetiche di Joyce, Studi Bompiani Milano 1994, pp.65,67
20. E.Ghezzi  Stanley Kubrick Il Castoro Milano 1995, p.131
21. E.Napolitano Lontano e il problema del tempo in aavv LIGETI, EDT Torino 1985, p.136
22. H.Kaufmann Strutture in assenza di struttura in aavv LIGETI, EDT Torino 1985, p.79,80
23. W.Apel Il Canto Gregoriano, LIM Lucca 1998, p.256
24. E.Ghezzi  Stanley Kubrick Il Castoro Milano 1995, p.94
25. H.Kaufmann Aventures et Nouvelles Aventures, un caso di musica assurda in aavv LIGETI, EDT Torino 1985, p.119
26. I.Stoianova Ramificazioni timbriche e forma-movimento in aavv LIGETI, EDT Torino 1985, p.26, 27

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