La musica nel Cinema documentario

locandina_cinematografo_lumiere.gifLa musica nel Cinema documentario

Il termine documento è di origine latina, e indica uno scritto che serve a dar prova o a fornire un’informazione, ed è legato ad una concezione della verità di natura giuridica o religiosa. Indica una testimonianza che si basa su ciò che è possibile vedere, osservare. La dimensione visiva del concetto di realtà appartiene alla nostra cultura, ciò che vediamo è reale, è accaduto in quanto documentabile, in quanto è possibile raccoglierne e conservarne una testimonianza.
L’immagine fissa o in movimento è quindi depositaria di un valore di verità in sé. Questo suo essere vero, questo suo esistere al di là dell’oggetto rappresentato determina poi l’invito ad una riflessione sull’ontologia dell’immagine fotografica.
Sia la fotografia che il cinema delle origini, per divenire linguaggio artistico in senso pieno, hanno prima dovuto lottare e vincere la dimensione documentale che gli apparteneva per natura. Distinguere tra cinema di finzione e cinema documentaristico è per questa ragione davvero molto difficile. È difficile infatti definire su quale piano il cinema documentaristico si distingua dal cinema di finzione. I primi esperimenti dei fratelli Lumière possono essere considerati frammenti (dal forte impatto emotivo anche se realizzati con strumenti ancora rudimentali), dal carattere documentaristico, ma loro non si considerarono mai né dei cineasti, ne tanto meno dei documentaristi. Eppure basta scorrere alcuni dei titoli dei loro lavori, proiettati di fronte allo stupito pubblico borghese della Parigi di fine ottocento, per rendersi conto che i lavori dei fratelli Lumière si inseriscono perfettamente all’interno di quella estetica della rappresentazione del mondo dominato dai progressi tecnici e scientifici della borghesia di quegli anni. Le “vedute”, i “temi di attualità” sono la sfilata degli alpini al passo, la processione di Siviglia, le ballerine di strada a Londra, e temi esotici, come la Sfinge e le piramidi. Il modo di riprendere il mondo dei fratelli Lumière era definito in modo chiaro già nelle note e nelle indicazioni fornite agli operatori: grande profondità di campo (anche in funzione dell’ottica e della bassa sensibilità della pellicola); individuazione e presenza sempre di una linea di fuga preferibilmente decentrata rispetto al soggetto, così da fornire un movimento interno all’inquadratura; nessuna interruzione del movimento del soggetto che veniva seguito per tutta la sua durata. Il modo in cui venivano trattati i soggetti era anch’esso in qualche modo standardizzato, è raro avere soggetti singoli, più facile trovare dei gruppi, composti, disciplinati, o folle scomposte e agitate ma sempre anonime, come espressione di un mondo più complesso che in qualche modo passa sopra le loro teste.
È chiaro quindi che già in origine il cinema dimostra che non è possibile avere una immagine “oggettiva”. Che per quanto possa essere grande la nostra fede nella verità dell’immagine questa non potrà mai restituirci la realtà per com’è. L’immagine filmata è sempre il frutto di una serie di scelte di carattere stilistico e poetico e di limiti e vincoli di carattere tecnico e produttivo. È il modo in cui viene data un’immagine a conferirle un senso diverso, ma non esistono immagini in sé capaci di documentare la realtà e altre invece frutto dell’immaginazione dell’autore.
La musica nei primi lavori dei Lumière proiettati nel dicembre del 1895 non era presente. Dai resoconti della stampa dell’epoca infatti non risulta la presenza di alcun accompagnamento musicale. Quello che è più interessante è però che nei commenti di molti spettatori delle prime proiezioni è possibile cogliere lo stupore per la veridicità delle immagini semoventi, per i loro colori…, per il rumore del muro che crollava, tanto che, ci racconta la contessa de Pange, la nobildonna parigina, ad una proiezione si era “tappata le orecchie”. Ma il cinema, come sappiamo, era allora in bianco e nero e non a colori, ed era ancora muto.
locandina_cinematografo_lumiere2.gifQuesto sta a testimoniare innanzi tutto la forte valenza sinestesica dell’immagine in movimento proiettata su un grande schermo all’interno di una sala buia. Ed in qualche modo fornisce delle informazioni su come, a livello cognitivo, vengano realizzati degli “aggiustamenti” dell’immagine proiettata tali da rendere questa immagine più simile al reale. Si tratta di un meccanismo di “lettura” del testo filmico di cui i cineasti hanno presto preso consapevolezza e che ha giocato un ruolo determinante nella concezione e nell’utilizzo della musica per accompagnare le immagini.
La musica non fa altro che amplificare questa sorta di “inganno” che l’immagine riprodotta sullo schermo offre allo spettatore. E’ per questa ragione che la musica che, dopo i primi esperimenti dei Lumière, avrebbe accompagnato il cinema delle origini, non si limitava ad offrire un commento alle immagini, ma interveniva stilizzando i suoni reali legati all’azione infradiegetica contribuendo così ad aumentare l’effetto di realtà che apparteneva alle immagini e conferendo al testo filmico quella che, negli anni ’30, Béla Balàzs ha chiamato “la terza dimensione”.
Se non è facile distinguere tra cinema di finzione e cinema documentario, se la differenza tra i due tipi di cinema sta nello “sguardo”, ovvero nel modo in cui il regista si pone di fronte alla realtà, se la differenza risiede non nell’immagine in sé ma nei paradigmi comunicativi legati al modo in cui questa immagine viene offerta, allora anche il ruolo che la musica svolge in entrambi i linguaggi cinematografici è, per sua stessa natura e funzione, simile.
Le principali funzioni svolte dalla musica all’interno di un testo filmico sono valide sia che si tratti di un film di finzione sia che ci si confronti con un documentario, variano però certamente degli elementi di carattere produttivo e compositivo nel momento in cui ci si confronta con un film documentario e variano le principali funzioni svolte dalla musica all’interno del film a secondo che si tratti di un documentario di genere storico, naturalistico, di un reportage, di un documentario nato per il cinema o per la televisione.
La presenza della musica, il suo ruolo, all’interno di un film documentario è prima di tutto legato alla presenza e alla funzione della voce off. Confrontandosi con un’opera di carattere documentaristico che abbia una linea narrativa affidata alla voce fuori campo e, ad esempio, a delle interviste, il compositore dovrà, in accordo con il regista, decidere innanzitutto se prevedere una musica che accompagni la voce, e qualora questa sia prevista comporre una musica di riempimento che spesso deve avere un carattere neutro, la cui funzione è semplicemente di cancellazione del silenzio delle pause narrative, e che non deve in alcun modo distrarre l’ascoltatore dalla voce narrante che resta sempre in primo piano. Spesso l’utilizzo di una voce narrante che fa da filo conduttore tra più interviste è previsto in documentari che confinano con il reportage o che ricostruiscono fatti storici recenti. Oltre alla semplice funzione di sottofondo e riempimento è prevista in questo tipo di lavori la funzione di commento quando la musica accompagna le immagini che fanno da corredo alla storia o che ritagliano all’interno del testo, delle parentesi dal forte valore simbolico o emotivo.
Nei documentari di ricostruzione storica (docufiction), invece, in cui è prevista la presenza di attori in costume che si muovono all’interno di un set, la musica svolge delle funzioni del tutto simili a quelle svolte all’interno di un testo filmico comunemente inteso. La funzione informativa, che consente allo spettatore di ricostruire il tempo e il luogo in cui si svolge l’azione, è molto utilizzata, ma anche la funzione ausiliaria d’azione (legata alla presenza di scene che ricostruiscono i balli e i momenti conviviali dell’epoca), così come un ruolo importante è rivestito dall’utilizzo della musica in funzione discorsiva di commento e narrativa (soprattutto nella funzione congiuntiva, transitiva e di demarcazione).
I documentari di genere naturalistico hanno utilizzato la musica spesso con una funzione discorsiva declinata in tutte e quattro le sue sottofunzioni: emotiva (nel sottolineare aspetti emozionali dell’immagine, il contatto con una dimensione naturale ormai lontana per l’uomo), di commento (andando a sottolineare le immagini sia in funzione di contrappunto drammatico o ricalcandone il senso con effetti di congruenza sinestesica), referenziale (utilizzando elementi del racconto filmico per costruire una partitura fatta di suoni e cellule melodiche che stilizzano e si rifanno a suoni reali e movimenti, forme, di animali o piante), spettacolare (utilizzata per richiamare l’attenzione dello spettatore su precisi momenti del racconto ritenuti di particolare importanza o valore informativo). La colonna sonora realizzata da George Fenton per il documentario della BBC Profondo Blu, ad esempio, è caratterizzata da una scrittura orchestrale ricca e complessa e all’interno del film la musica ricopre un ruolo importantissimo. La musica, per locandina_profondo_blu.jpglo più collocata nel livello esterno dell’opera, segue l’intera azione sottolineando i passaggi più significativi del racconto per immagini, con un frequente e sapiente utilizzo del sincronismo, e ricorrendo anche a dei cambiamenti di registro espressivo che l’autore realizza utilizzando stili e paradigmi compositivi differenti, come nel caso della samba che accompagna la “danza” dei granchi sul bagnasciuga.
Non è certo un caso isolato, sono molti i lavori di cinema documentario in cui l’apporto del regista e del compositore della colonna sonora è accurato, attento, sottile, capace di determinare, nel rapporto tra il piano visivo e quello sonoro, il senso dell’opera. Ci sono casi di colonne sonore scritte per film di carattere documentaristico che hanno una forte identità autoriale e che hanno svolto una funzione poetica all’interno del testo filmico capace di conferire unità e senso all’opera. È il caso ad esempio delle musiche scritte da Philip Glass per la trilogia Qatsi di Godfrey Reggio. Si tratta, come sappiamo, di tre pellicole realizzate dal regista nell’arco di più di 20 anni, in cui la musica di Glass è stata chiamata di volta in volta a fornire una parte importante del testo ricalcando, con la musica, le immagini e il racconto nel caso del primo film, divenendo sintesi di suggestioni e ritmi provenienti da diverse parti del mondo nel caso del secondo lavoro (Powaqqatsi), o infine nel terzo film bilanciando, attraverso il suono caldo, naturale degli strumenti dell’orchestra classica (primo fra tutti il violoncello del bravissimo Yo-Yo Ma ), le immagini di sintesi stranianti che raccontano la violenza della nostra era. Se per il ruolo svolto dalla musica all’interno della sua trilogia Reggio ha parlato di “Concert Cinema” in riferimento al lavoro di Glass, è evidente che la differenza tra cinema di finzione e cinema documentaristico è una differenza che, anche per quel che riguarda il ruolo e la funzione della colonna sonora, come abbiamo avuto modo di dire, risiede semplicemente nello “sguardo” dell’autore, nel modo di mettersi di fronte al realtà che viene vista attraverso la macchina da presa. Si tratta quindi di scelte fondamentalmente di carattere poetico / espressivo.
Del resto anche il fatto che molti autori, basti pensare a Kubrick su tutti, abbiano iniziato il proprio personale percorso artistico partendo proprio dal confronto con l’immagine e il racconto di stampo documentaristico dovrebbe aiutarci a riflettere, alla luce di quanto detto prima, sull’intimo legame che tiene insieme i due tipi di cinema.
Esistono però anche dei vincoli di carattere oggettivo, legati a fattori indipendenti dalla volontà del regista e del compositore e che sono fondamentalmente riconducibili a tre questioni: quella del genere/argomento del documentario (a cui abbiamo già accennato), quella del budget a disposizione per la realizzazione del documentario, e infine quella del mezzo/pubblico per cui il documentario è pensato (tv; tv generalista, cinema, home video, che per semplicità è possibile sintetizzare nella differenza cinema/tv).
Spesso dover lavorare con dei budget limitati è un punto debole che può trasformarsi in un punto di forza per quel che riguarda la sperimentazione e l’invenzione creativa. E’ quanto è successo a Benjamin Britten quando negli anni a cavallo tra il 1930 e il 1940 realizzò diverse colonne sonore per dei documentari prodotti dalla G.P.O. Film Unit (il Dipartimento cinematografico delle Poste Inglesi, sovvenzionato dallo stato). Il compositore britannico, come molti altri importanti musicisti, ebbe modo infatti di collaborare con il gruppo di registi e produttori che facevano idealmente capo a John Grierson che, come i suoi collaboratori, teneva molto in considerazione la musica realizzata per i documentari, tanto che il compositore veniva coinvolto già nella fase di progettazione e pre-produzione del documentario. Il limite era già allora, come dicevamo, legato alla foto_benjamin_britten.jpgdisponibilità del budget per la realizzazione della colonna sonora. Ed è per questa ragione che di fatto il compositore della musica era anche il supervisore di tutti i suoni del film, compresi i rumori, gli effetti speciali e spesso anche le parole. Due dei lavori più interessanti di Britten Coal Face (1935, di A Cavalcanti), in cui si racconta del lavoro dei minatori e la voce che elenca termini tecnici si fonde con le percussioni che intervengono saltuariamente a sottolineare le parole,  e Night Mail (1936 di Basil Wright e Harry Watt) in cui la musica è presente soltanto in tre momenti, rappresentano uno dei momenti più alti della produzione di Britten non soltanto di tipo cinematografico. Nella partitura scritta per Night Mail Britten inserì l’aria compressa, per simulare il vapore della locomotiva, la carta vetrata su lastra d’ardesia, il piccolo carrello per ricostruire il rumore della rotaia, la sirena, addirittura il carbone che cade nel condotto. L’idea di una musica che sappia fondersi con il rumore, con il suono diegetico, che mimi la realtà, la riproponga attraverso uno specchio sonoro allo spettatore diviene concreta offerta artistica che nell’incontro con il documentario trova la sua naturale dimensione espressiva. Grierson che con il suo Drifters (Pescherecci, 1929), segnò la nascita del modello britannico, fu più attivo come teorico e animatore culturale, che come regista, pare che infatti il termine “documentario” fu per la prima volta usato proprio da lui in qualità di sostantivo riferendosi al film di Robert Flaherty L’ultimo Eden (1926) in un articolo pubblicato sul “New York Times” nel febbraio del 1926. Ed è a Grierson che si deve in parte la nascita di una forte tradizione culturale legata alla realizzazione di documentari nel Regno Unito.
La musica, i suoni, all’interno della struttura narrativa del documentario, divengono quindi, come per il cinema di finzione, parte integrante dell’opera. Ciò a reso possibile anche la formazione di sodalizi artistici/espressivi, come nel caso citato di Britten con il gruppo di lavoro di Grierson negli ’30 in Inghilterra o in Italia con i lavori di Folco Quilici musicati dal Maestro Lavagnino.
I suoni e la musica anche all’interno di un film documentario intervengono per arricchire di senso l’immagine, per potenziarne la carica espressiva veicolando un senso che va oltre l’immagine stessa, caricandola di un valore simbolico che resta un processo comunicativo, di rivestimento semantico, tipico della musica.
locandina_fahrenheit_911.jpgAccade quindi che anche all’interno di un documentario la musica venga utilizzata per innescare un meccanismo umoristico, come fa Michael Moore nel documentario Fahrenheit 9/11, nel caso della sequenza in cui presenta i protagonisti della guerra in Afghanistan utilizzando la musica dei titoli di testa della serie La casa nella prateria o quella in cui si mettono in evidenza i legami tra gli affari della famiglia Bush, e di un gruppo di notabili americani vicini ai Bush, con i Sauditi in cui viene utilizzata, in funzione di contrappunto, la canzone dei R.E.M. “Shiny happy people”.
Ma sempre all’interno dello stesso lavoro di Moore è possibile individuare un utilizzo diverso della musica e dei suoni come nella sequenza che segue i titoli di testa, in cui è presente la musica di Jeff Gibbs, che sull’ultimo titolo si spegne in un silenzio breve, irreale accompagnato dalla assenza dell’immagine. Lentamente sul nero assolve un rumore che si interpreta con una certa facilità: e il suono di un aereo che sta per schiantarsi, a questo seguono le voci e i rumori della strada di quel terribile giorno, soltanto suoni, nessuna immagine, per un minuto. Come dire che la dimensione del ricordo è sonora prima che iconica, che per il suono, per le orecchie, passa l’immagine divenuta ormai memoria. Dopo un minuto in cui lo spettatore è proiettato nell’11 settembre 2001 di una New York che si è smarrita, che di sé ha smarrito anche l’immagine, assolve da nero il volto di una donna, e presto altri visi, altri corpi, altri movimenti popolano lo schermo, ma nessun rumore li accompagna, soltanto un rintocco di campane e poi di nuovo la musica, da sola a commentare le immagini. Diviene chiaro allora come l’utilizzo della musica sia qui in tutto simile a quello che viene fatto nel cinema di finzione. Nel documentario realizzato da Alessandro De Filippo in collaborazione con l’Università di Catania, Isola Cattura dedicato al mondo dei detenuti in isolamento, i suoni e la musica rivestono un ruolo importante. Il capitolo del documentario intitolato Isola si apre con una inquadratura dal basso di un detenuto che corre nel cortile del carcere di Bicocca, una lunga sequenza in cui la camera fissa posizionata all’altezza dei piedi segue la corsa dell’uomo costretto all’interno del cortile. Ciò che colpisce sono i suoni, piccoli suoni trattati ad un volume tale da risultare assordanti, irreali, il passo cadenzato della corsa diviene insieme il ticchettio di un orologio e lo schiantarsi di un masso sul terreno. Tutti i suoni sono come amplificati in modo irreale. E poi ascolti la testimonianza di uno dei detenuti che racconta di come una delle conseguenze peggiori dell’isolamento sia il disabituarsi ai rumori, alle voci, al contatto con il mondo che passa spesso attraverso l’ascolto.
Come nella sequenza in cui uno dei detenuti in isolamento è seguito dalla telecamera, mentre instancabilmente cammina su e giù per la stanza, con un unico suono ad animare il suo continuo movimento: quello della radio accesa in un angolo della stanza, unico legame con il mondo esterno, con la vita.

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