Comporre per il Cinema in Italia

Il Manifesto

° La Musica è una componente essenziale dell’espressione cinematografica.
° Il compositore è parte integrante del cast artistico del film.
° Ogni compositore ha la propria identità artistica.
° Il rapporto tra regista e autore delle musiche deve essere ispirato a fiducia e rispetto reciproci nella consapevolezza comune della centralità del film.
° La composizione di una colonna sonora richiede il tempo necessario a garantire la qualità del film.
° Ogni autore contribuisce al valore del film con la sua ricerca e il suo linguaggio personali.

Tutto ha avuto inizio lo scorso gennaio al Future Film Festival, la rassegna bolognese dedicata al cinema fantastico e d’animazione diretta da Giulietta Fara e Oscar Cosulich e giunta alla settima edizione. Su iniziativa di Marco Spagnoli, giornalista e critico cinematografico, sette dei più illustri rappresentanti dell’ultima generazione di compositori italiani per il cinema si ritrovarono per la prima volta intorno allo stesso tavolo, a discutere tra loro e con il pubblico del proprio lavoro, delle soddisfazioni e degli incerti di un mestiere molto particolare. Nonostante la maggior parte dei musicisti non si fosse mai incontrata fino alla sera prima, l’intesa fu immediata, e la loro verve inaspettata diede vita a due ore ricche di informazioni, curiosità e aneddoti inediti, concluse con la promessa di non permettere che l’incontro restasse un episodio isolato. La stessa sera l’impegno fu suggellato da un’inedita e memorabile jam session in una cantina bolognese che vide i compositori sfoggiare altrettanto inattese doti di esecutori in un’esibizione che resterà per lungo tempo nella memoria di chi ebbe la fortuna di assistervi.

La promessa è stata mantenuta. Il quattro luglio, in un ideale “independence day”, Marco Spagnoli ha ripetuto l’exploit e riunito nuovamente il gruppo di musicisti – leggermente mutato nella composizione a causa di impegni di lavoro di alcuni di loro e della presenza di nuovi partecipanti – durante l’ultima edizione del Genova Film Festival, diretto come di consueto da Cristiano Palozzi e Antonella Sica. Con l’occasione, gli artisti hanno creato la prima bozza di un “manifesto” dei compositori che creano “musica applicata”, destinata ad accompagnare le immagini di un’opera cinematografica o televisiva. Il documento, nato – com’è tradizione dei migliori manifesti programmatici – nel corso di un’animata discussione intorno al tavolo di un ristorante, è stato poi presentato ufficialmente al pubblico e alla stampa in un incontro alla Fnac di via XX settembre.

Quello che segue è un estratto delle dichiarazioni dei compositori che hanno partecipato ai due incontri, commenti e osservazioni non organiche che permettono comunque di delineare con una certa precisione il ruolo del musicista che scrive per il cinema e delle condizioni in cui opera oggi in Italia.

Il cinema vive anche grazie alla musica
I film che noi vediamo – spiega Marco Spagnoli – sono opere integrate, e tutto contribuisce alla loro riuscita. Si è sentito molte volte parlare del miracolo del cinema italiano, ma è irritante pensare che i miracoli li faccia solo qualcuno, e non siano frutto di un lavoro di gruppo. Uno dei tanti miracoli è la musica da film. Aldilà del fatto che essa ci regala grandi emozioni, si deve prendere atto che in Italia c’è un gruppo di musicisti che non ha eguali altrove, se non forse negli Stati Uniti, dove però il mercato è completamente diverso. Nessun altro paese ha così tanti musicisti attivi, e così diversi tra loro. Questo, sì, è un miracolo. Il cinema è arte, ma è anche un’industria: e un’industria che non riconosce il valore dei propri collaboratori è incapace di grandi opere”.

Ciò che ci accomuna in questo manifesto – aggiunge Riccardo Giagni, collaboratore tra gli altri di Marco Bellocchio per L’ora di religione e Buongiorno notte è il fatto che a tutti noi il cinema piace davvero, e non soltanto per il mestiere che facciamo, ma perché ci sentiamo parte di quest’opera che è un film. Talvolta vediamo che lo stesso tipo di amore non viene condiviso proprio da alcune specifiche professionalità che nel cinema e sul cinema lavorano e investono. Credo che per questo ci siamo riuniti oggi, perché la gente capisca meglio cosa significa scrivere musica per il cinema, per i film d’autore ma anche per il cinema in generale, focalizzando l’attenzione sull’opera e cioè sul film, e sugli elementi che lo contraddistinguono”.

Con questo spirito, il “manifesto” – termine impegnativo per una prima stesura su cui si dovrà lavorare ancora molto – più che un elenco di rivendicazioni vuol essere l’esplicitazione di convinzioni comuni nelle quali riconoscersi. Ezio Bosso, compositore, virtuosista del contrabbasso e musicologo torinese, al quale si deve la particolarissima partitura di Io non ho paura di Gabriele Salvatores, avverte che “c’è bisogno di grande lavoro di chiarezza e di intenzione prima di dichiarare un manifesto. Perché sia tale, ha bisogno di molti punti da discutere. Per quel che mi riguarda firmerei un manifesto che parli solo di compositori e di proponimenti più che un documento di rivendicazione.”

Bisognerebbe allargare il concetto alla parola compositore”, commenta Paolo Silvestri, autore di musica per il teatro e poi per il cinema, e collaboratore di Marcello Cesena e Peter Del Monte. “Vorrei che qualcuno mi spiegasse cosa si intende con questa parola, non solo per quanto riguarda la musica da film, ma in generale in tutta la musica italiana. Al massimo si conoscono i cantautori, che sono tutt’altra cosa; poi ci sono gli arrangiatori, che sono un’altra parola assolutamente confusa che nessuno sa cosa facciano di mestiere. Questo è un paese di cantanti, e i compositori sono considerati tecnici, anche negli altri generi: la composizione è un concetto da spiegare, compositore è chi scrive la melodia, la melodia e gli accordi, chi orchestra, chi strumenta? I DJ fanno musica, ma sono compositori? Questa figura di chi inventa la musica va ridefinita, e poi dev’essere affrontato il discorso dell’accostamento alle immagini.

Questo è un punto dolente sul quale si è tornati più volte: persino tra gli addetti ai lavori, c’è chi non si rende conto di quanto la musica sia una componente essenziale e irrinunciabile dell’opera cinematografica, e arriva persino a immaginare che un film potrebbe idealmente privarsene. Eppure, anche prima che i film potessero dotarsi della propria colonna sonora, è sempre stato previsto un accompagnamento musicale, e per le prime proiezioni dei grandi film “classici” del muto vennero scritte complesse partiture sinfoniche che un’orchestra avrebbe eseguito dal vivo.

I commenti musicali non si limitano a creare un sottofondo alle immagini, ma giocano con le nostre emozioni, rafforzando le immagini o offrendo loro un discreto contrappunto che le arricchisce di nuovi significati. Nei migliori esempi permettono ad esse di spiccare il volo, come ribadisce Giagni: “Occorre sfatare questo mito, questa banalità che si sente spesso, che la musica nel cinema riesce bene quando non la si nota. Una musica che non si nota è qualcosa di inutile. Ciò che nel cinema è importante è proprio la bellezza della musica, è il suo ruolo. Quello che non notiamo, talvolta giustamente, è il suo funzionamento, gli ingressi e le uscite della musica, le finezze legate ai punti di sincronismo, però viviamo la bellezza della musica, e questo è l’aspetto più significativo”.

Il ruolo del compositore
Nella sua prima stesura , il documento proposto ribadisce il ruolo del compositore come uno degli artisti che contribuiscono alla creazione dell’opera cinematografica, esponendosi in prima persona, con un contributo molto maggiore di quello di un semplice apporto tecnico. Al servizio del film insieme con le altre professionalità, alle quali lo devono legare un rapporto di reciproco rispetto e collaborazione, il compositore aggiunge la propria voce personale e specifica all’identità collettiva della pellicola. In questo lo sostengono non solo l’esperienza e il mestiere, ma anche e soprattutto la sensibilità individuale maturata nel proprio percorso di crescita e di ricerca personale; è grazie a questa che il suo talento può unirsi a quello degli altri artisti e rendere unica ogni pellicola.

Secondo la legislazione italiana – ricorda Ezio Bosso – gli autori di un film sono chi ha redatto il soggetto e la sceneggiatura, chi l’ha diretto, e chi ne ha scritto le musiche. In realtà in questo rapporto, a livello creativo il musicista spesso manca. Manca per questioni produttive, per problemi di fondi, per mancanza di tempo, perché molto spesso la musica arriva naturalmente come ultima cosa, perché andiamo a registrare quando il film è pronto. Il problema è la progettazione di questa musica, anche personalmente se io con Savatores sono stato fortunatissimo.”

Troppo spesso – aggiunge Pivio, genovese, autore insieme con il concittadino e complice Aldo De Scalzi di alcune delle partiture più interessanti e originali degli ultimi anni, tra le quali Il bagno turco di Ferzan Özpetek, Casomai di Alessandro D’Alatri e Per sempre di Alessandro Di Robilant – nei comunicati stampa il musicista viene elencato nel cast tecnico anziché in quello del cast artistico del film. Tra l’altro, per questo motivo, succede che di solito il compositore non venga neanche invitato alle conferenze stampa, anche quando probabilmente avrebbe qualcosa da dire.”

Un’ulteriore conferma arriva da Giovanni Lo Cascio, siciliano di Roma, percussionista e da qualche anno autore di colonne sonore insieme con la moglie Elvira: “L’autore di colonne sonore in effetti è molto poco considerato. Oggi la musica da film è uno dei pochi settori che ti permette di far ricerca e restare sul mercato comunque, però nella macchina cinema non siamo riconosciuti come autori, non veniamo invitati alle conferenze stampa, a volte neanche alle proiezioni: su questo si può fare molto, costruire un terreno che permetta di dire delle cose, di avere una voce.

Il rapporto con il regista
Difendere il proprio ruolo creativo e artistico per un compositore non è obiettivamente facile: il cinema, arte collettiva, vive di scelte e di compromessi tra le differenti forti personalità che lo realizzano.
Il cinema europeo identifica tradizionalmente il regista con l’autore del film, colui che lo firma con il proprio nome ed è quindi responsabile ultimo di ogni scelta, più di quanto accada sia nel cinema hollywoodiano, nel quale spesso sia il regista che il compositore vengono scelti dalla produzione in base a logiche di mercato.
Non tutti i registi hanno istintivamente una consapevolezza dell’importanza dell’elemento musicale. La necessità di un rapporto corretto tra compositore e regista diventa quindi un altro elemento programmatico nel manifesto di questi artisti.

Perché abbiamo sentito la necessità di scrivere questo?” sottolinea nuovamente Ezio Bosso. “Perché per chi fa questo mestiere oggi è importante ricordarlo. Gli americani distinguono tra il soundtrack, il suono complessivo del film, e lo score, la partitura: noi creiamo quest’ultima, parliamo della parte più intima nella visione dello spettatore. Eppure in questo momento questo è stato un po’ dimenticato, e anche molti nuovi registi si confrontano con il cinema con un bagaglio di cui la musica non fa parte. Per citare un’esperienza comune, di recente un festival abbiamo organizzato un incontro per i giovani registi, e non si sono presentati. Mettere nero su bianco questi nostri pensieri etici o estetici è anche un modo per aiutare coloro che iniziano il nostro mestiere, che consiste nel dedicare noi stessi, anche nell’anonimato, al cinema – è una scelta quella di stare dietro, come diceva Pintor, ‘abbracciare qualcuno senza stringerlo, fino a scomparire”.

È chiaro che come musicisti siamo al servizio del film, ma questo non vuol dire che siamo solo esecutori di quello che ci viene impartito o ordinato”, afferma Giuliano Taviani, il giovane compositore di Tutta la conoscenza del mondo e Ora o mai più. “Il rapporto con il regista dev’essere quello di due personalità che si incontrano, magari si amano oppure si lasciano; la fiducia è importante, se no c’e la possibilità che il rapporto si interrompa. Ogni regista è diverso. Anche mio padre e mio zio sono registi, ma io faccio il musicista, il lavoro è differente. Anche se è una soddisfazione andare a lavorare negli stessi luoghi dove mio padre mi portava quando andava a registrare le musiche, di fronte a un regista sono come qualunque altro musicista. Per fortuna non ho avuto grossi conflitti – contrasti tanti, chiaramente, ma a livello di rottura di rapporto per fortuna no.”

Per Giovanni Venosta, autore delle musiche dei film di Silvio Soldini, tra i quali Pane e tulipani e Agata e la tempesta, “il problema è che spesso il regista, non conoscendo la materia musicale, non ha fiducia in se stesso, nelle proprie scelte. Un conto è ascoltare la musica che piace e metterla sotto alle immagini; un altro è proporre, anche in termini astratti, qualcosa che possa andar bene sulle proprie immagini. Innanzitutto deve dare fiducia a se stesso nella scelta del musicista, che non dev’essere semplicemente un amico o il primo che è capitato ma uno che, anche in base alle opere realizzate in precedenza, dà delle qualità di riferimento, e poi dargli la possibilità di fare una prima proposta. Questo accade di rado, anche dal punto di vista produttivo, perché se in un budget per la colonna sonora il 70% è destinato all’acquisto di diritti di brani già esistenti e solo il 30% al resto della musica, compresi il compenso del compositore e di tutti i musicisti, è difficile che ci siano lo spazio e la possibilità di sperimentare, tentare una direzione e poi accantonarla in favore d’un’altra. Questa ansia crea una mancanza di fiducia”.

Andrea Guerra, il compositore di La finestra di fronte, Le fate ignoranti, Prendimi l’anima e molte altre partiture anche per registi stranieri, afferma: “Un regista nella sua carriera riesce a lavorare su quattro, cinque, sei film, mentre invece noi se siamo fortunati possiamo riuscire a farne anche trenta o quaranta, e quindi possiamo crearci una maggiore esperienza. Eppure capitano situazioni assurde, come quando per esempio un regista mi chiede ‘qui la musica la facciamo gialla’ – a me è successo davvero – perché non ha l'esperienza necessaria per spiegarsi. In questo caso o si capisce cosa vuol spiegare, o gli si risponde ‘va bene, la facciamo gialla’; ma quando c'è una collaborazione più attiva si cerca di spiegare, di motivare, di capire il perché e il percome. Tra l'altro io penso che sotto ogni film si possano fare sette o otto colonne sonore differenti, quindi per cercare di illustrarle tutte senza creare confusione, bisognerebbe fare esperimenti e prove, ma cercando di evitare assurdità”.

La ricerca di un terreno comune
È un fatto che il regista spesso non dispone di un alfabeto adeguato per comunicare e comprendere le scelte musicali; e questo gli rende certamente più difficile dare fiducia a chi si esprime in un linguaggio diverso da quello della parola o delle immagini con il quale invece ha diretta familiarità. Ma è necessario trovare o conquistare un terreno comune, e quando possibile svilupparlo nel tempo, affinché per il regista diventi possibile avere abbastanza fiducia in se stesso da poter lasciare ai propri collaboratori la libertà di avventurarsi nelle direzioni che solo loro sanno individuare.

Per Giovanni Lo Cascio, “meno tempo c’è a disposizione, più è necessaria la capacità, l’elasticità, la fantasia del regista nel saper immaginare quello che gli propongo, perché posso al massimo fargli sentire un’idea al pianoforte, non posso certo orchestrarla. È importante che ti conosca come artista, perché io non ho iniziato con la musica da film, ho alle spalle vent’anni di musica suonata e registrata – il conoscersi a vicenda aiuta anche quando in tempi ristretti si fanno proposte e gli si prospetta come potrebbero essere realizzate. Per Rosa Funzeca, mia moglie e io abbiamo dovuto fare novantanove brani prima di trovarne dieci che andassero bene ad Aurelio Grimaldi e a Ida Di Benedetto, rispettivamente regista e interprete del film; in altri tutto è andato estremamente liscio, non tutto quello che proponevamo veniva accettato ma sempre in una dimensione di fiducia. Del resto, ho sempre avuto a che fare con registi che immaginavano cosa avrei potuto offrire, e io a mia volta vado a vedere tutti i film che hanno fatto per capirne l’universo.”

Più fortunati altri, grazie anche a rapporti creati e alimentati nel tempo. “Con i registi – confessa Paolo Silvestri – io sono stato abbastanza fortunato, ho rapporti di amicizia. Con Marcello Cesena ho prima lavorato in teatro, il cinema è arrivato dopo, c’era già un rapporto avviato. Altre volte meno, ma il rapporto con il regista è importantissimo.”

"Anch’io forse sono stato fortunato – aggiunge Giagni – perché ho registrato con un regista come Bellocchio, che ha un'idea del suono e della musica, che è molto vicina per tanti versi all'idea che ho io della colonna sonora. Il doppio lavoro, di creazione originale e di scelta di brani preesistenti, è stato fatto talmente insieme, nel segno di una solidarietà molto forte; naturalmente con tutto quello che questo comporta di contraddizioni, di conflittualità, di discussioni, però all'interno della visione potente del regista, esteticamente molto forte e che pretende delle musiche fortemente emozionali.

Per quanto riguarda in particolare Buongiorno notte, le scene conclusive del film sono accompagnate da un brano dei Pink Floyd in un finale senza dialoghi, unicamente musicale. Questa è stata una scelta abbastanza difficile per Bellocchio, che non conosceva il complesso. La sua cultura musicale è completamente differente, essenzialmente verdiana, legata al melodramma, e conosce bene le canzoni di protesta, soprattutto quelle italiane, degli anni '50 e '60: questa è stata una scelta lontana dal suo stile, dal suo modo abituale di concepire la musica. La motivazione nasce da esigenze legate sia alla storia, che rappresenta la sua personale visione di un fatto (il rapimento di Moro) avvenuto negli anni ‘70, e quindi da criteri temporali; ma anche – e questo è l'elemento a cui il regista teneva di più, e che lo ha convinto ad assumersi la responsabilità di questa scelta – la necessità di sottolineare in modo fortemente emotivo la liberazione del prigioniero, una liberazione che nella realtà non è avvenuta, e che solo il cinema può permettersi di rappresentare come reale. Accanto a un'immagine forte – Moro che cammina in una Roma all'alba, deserta, e si allontana con le sue gambe – occorreva un contrappunto, anzi una solidarietà sonora e musicale che fosse potente ed emozionante - e credo che ci siamo riusciti.

Anche Fabio Liberatori, romano, ex-Stadio, e oggi musicista colto alla ricerca di raffinate sonorità elettroniche, ha costruito un rapporto particolare con un regista. “In modo inaspettato anche per me, con alcune interruzioni, il sodalizio con Carlo Verdone dura da moltissimo tempo. Non saprei dire perché: è un caso molto particolare. C’è un’affinità sicuramente nel tipo di musica che ci piace; è c’è il fatto che questo regista è anche parzialmente un musicista. Molto spesso la sua competenza in quei generi che piacciono anche a me, come la musica elettronica, quella d’avanguardia, è maggiore della mia: io ho forse duemila CD, lui oltre cinquemila. Probabilmente questo suo grande amore per la musica mi fa essere molto più conciliante su eventuali sue impuntature. Indubbiamente percepisco una mia debolezza da questo punto di vista nei suoi confronti, ma è ripagata da parte sua con disponibilità su altri punti, cosa che non tutti fanno. Ricordo un regista che il primo giorno mi disse ‘A me la musica non piace. Però dobbiamo metterla perché i film si fanno con la musica.’ Forse per questo, quando ho rivisto Verdone un anno dopo, l’ho quasi abbracciato: con lui si parla dei Depeche Mode e di Stravinskij, si ha il senso di fare qualcosa insieme.

Fabio Liberatori tiene molto a sottolineare l’importanza di poter sfruttare la propria ricerca personale, musicale ed estetica, nella composizione della colonna sonora. “Sembra pleonastico: ogni film è diverso, ha una sceneggiatura e un regista diverso, e quindi dovrebbe avere un approccio originale anche alla musica. E invece c’è un male profondo che ha afflitto la nostra professione: la difficoltà di avere un terreno favorevole per poter sperimentare, ricercare e quindi affermare la personalità più profonda di ognuno di noi, che è quello che si dovrebbe sempre fare in un’opera artistica. La giusta pretesa del regista di non avere vincoli eccessivi da punto di vista dell’espressività nell’opera del suo ingegno dovrebbe essere almeno in parte riconosciuta anche a noi che scriviamo la musica. Questo non sempre avviene, non solo per un problema produttivo ed economico, ma anche culturalmente per una scarsa propensione di molta parte del mondo produttivo cinematografico italiano ad attribuire alla creatività dei nostri musicisti le stesse potenzialità che hanno alcune opere soprattutto d’oltreoceano; quindi si cercano sempre riferimenti altrove, un déjà-vu, o déjà-ecouté in questo caso, che può essere utile come indicazione, però questo non dovrebbe oltrepassare alcuni confini, che sono quelli dell’impoverimento della ricerca musicale e artistica.”

Per quanto riguarda il mio utilizzo della musica etnica – dichiara Paolo Buonvino, autore tra l’altro delle partiture de Il giovane Casanova di Giacomo Battiato e di L’ultimo bacio e Ricordati di me di Gabriele Muccino – io sono nato e ho abitato fino a non molto tempo fa in Sicilia, che è molto vicina ai paesi arabi. Se ascoltate il grido di chi vende la verdura in Sicilia, sembra un muezzin – usa un altro testo, ma è identico. Per la mia prima colonna sonora, che è quella della Piovra 8, io volevo rendere un canto siciliano stilizzato, e ho chiamato un palestinese. Molti anziani siciliani mi hanno detto "e preciso, è perfetto" e invece lui cantava in palestinese. Per me è una cosa naturale da sfruttare, non mi devo sforzare per usare suoni etnici, perché sono di casa mia, e molto spesso secondo me questi sono emozionalmente su un livello superiore, che non passa attraverso convenzioni formali, arrivano direttamente al ventre. Non subiscono la costrizione in regole, che la musica cosiddetta colta ha sempre; anche se anch'essa parte da un sentimento, c'è comunque una costrizione dettata da schemi, talvolta inconsapevoli. Quando si studia composizione, una delle prime cose da fare è cercare di dimenticare quello che si è studiato, altrimenti non si creerebbe niente di nuovo: però certi schemi ti rimangono. Nella spontaneità della musica etnica credo che ci sia un avvicinarsi al sentimento e al cuore più diretto, e la musica è soprattutto questo ”.

Io mi sento quasi miracolato”, afferma Ivan Iusco, autore delle musiche di Mio cognato e LaCapaGira di Alessandro Piva e L’amore ritorna di Sergio Rubini. “Ho avuto la fortuna di lavorare con due registi, Piva e Rubini, che mi hanno lasciato completa autonomia nel modo di approcciare la loro opera, e mi rendo conto che questo non è facile, non solo dai racconti dei miei colleghi ma proprio per i rapporti che ci sono tra compositore e regista. Per queste mie esperienze io ho proposto un mio punto di partenza a livello compositivo, che è stato subito abbracciato, sposato, e da lì abbiamo sviluppato tutto un discorso. Forse sono il più fortunato, ma finora la mia identità artistica è stata rispettata; in futuro magari mi troverò a lavorare con registi che la rispettano meno, imponendo le loro idee”.

Sì, lui è stato molto fortunato”, conferma Venosta. “Quando il musicista viene chiamato a comporre una colonna sonora, si trova spesso davanti a un film sul quale sono stati appoggiato brani di altri compositori già esistenti al quale spesso viene chiesto di assomigliare, e questo è un grosso problema al quale ci troviamo di fronte, ma credo che bisognerebbe ribaltare questa cosa e portarla a nostro vantaggio. Anch’io mi trovo in un rapporto privilegiato con un regista, avendo fatto tutti i film di Soldini. Anche lui all’inizio della sua carriera non sapeva parlare di musica; adesso non è un intenditore ma attraverso la nostra conoscenza può permettersi di chiedermi qualcosa di musicale riferendosi a degli altri brani già esistenti ma che non mette sul film. Può dirmi ‘ho ascoltato i quartetti di Janacek, mi piacerebbe che ci fosse qualcosa che dà la stessa sensazione, non che gli assomigli, magari un po’ più urbano…’ Se si utilizza la musica preesistente come territorio comune su cui discutere, su cui immaginare una nuova musica, anche il compositore può rispettare la propria identità; nel momento in cui si chiede solamente di sostituire dei brani già esistenti, presi da incisioni realizzate oltretutto con budget ben più consistenti, ecco che l’identità artistica non viene rispettata.”

Non c’è una regola, ogni esperienza ha vita a sé”, conclude Pivio. “Tutti quanti siamo incappati in situazioni di conflitto, e ogni volta la soluzione è stata diversa.

Abbiamo tutti caratteristiche personali, musicali e caratteriali, e ognuno affronta il contrasto nel modo che gli è più congeniale. C’è chi cerca di accondiscendere e trovare un compromesso, altri che sono più rigidi e continuano per la propria strada. Sono ambedue soluzioni condivisibili, non posso dire qual è il modo migliore. È fondamentale sensibilizzare l’altra parte su quella che è la propria poetica e trovare un punto d’unione; non sempre questo è possibile, e dato che nel cinema non esistono matrimoni ma solo fidanzamenti, a volte i fidanzamenti sono destinati a rompersi: è successo anche a noi, magari non per motivazioni artistiche ma per difficoltà di relazione. L’importante è mantenere la propria dignità artistica, e credo che questo sia fondamentale.”

Le dinamiche produttive
È evidente che il cinema non può ignorare precise dinamiche produttive ed economiche, o rischia la sua stessa sopravvivenza: e come in ogni settore il rapporto tra creativi e amministratori è, nella migliore delle ipotesi, conflittuale. Esigenze di tempi e budget possono diventare ostacoli alla piena realizzazione delle potenzialità musicali intraviste dal musicista, e generare frustrazioni che influenzano la qualità complessiva della composizione e ne limitano l’efficacia.

Il budget è il primo, grande problema, soprattutto in Italia. La musica arriva per ultima, non solo com’è forse logico nell’ordine cronologico delle attività necessarie per la realizzazione di una pellicola, ma anche nell’attribuzione delle risorse. Troppo spesso si vorrebbero riprodurre i risultati delle produzioni estere a una frazione del costo. L’ingegnosità e l’impegno possono aiutare, ma solo fino a un certo punto.

Anche Claudio Simonetti, compositore di Profondo rosso e di molte altre indimenticabili partiture per Dario Argento e altri registi, uno dei nostri compositori che hanno raggiunto vera notorietà internazionale, deve riconoscerlo: “Uno dei problemi del fatto che si risparmia nel fare le musiche, e una delle differenze tra noi e gli americani, è che gli americani prevedono nella spesa del film un budget per la musica. Se Mel Gibson costa venti milioni di dollari, John Williams ne vuole cinque. Invece in Italia la musica viene affidata a editori che non c'entrano niente con la produzione del film, che fanno i conti e valutano quanto possono spendere per rientrare nei costi. Per il produttore la musica è una cosa in più, che si fa dopo, e che affida nelle mani di altre persone.

Strettamente collegata al fatto che la musica è l’ultimo elemento creativo al quale si dedica attenzione, spesso a montaggio inoltrato o addirittura finito, l’altra risorsa che spesso manca è il tempo.

"I musicisti hanno bisogno di alcune cose fondamentali: una è il tempo”, riprende Buonvino. “Non si può chiedere al musicista, come succede oggi ‘questa colonna sonora dev'essere pronta ieri’, e poi pretendere ‘ti ricordi quel film americano, c'era questo, c'era quello’... capisco, ma per realizzare la musica per quello hanno avuto otto mesi. Io non voglio mettermi in competizione, ma non posso fare a meno di notare che ci sono differenze di tempi e di budget. Perché magari io ho a disposizione soltanto diecimila euro, e se possibile dovrei farci stare anche la musica del trailer del prossimo film. La tecnologia in questo caso sta diventando un'arma a doppio taglio, perché mi vien detto ‘visto che ci sono i computer, a cosa serve l'orchestra? Ma quanta ne devi fare? Va bene, vai in Bulgaria’ - questo è gravissimo, perché si tende a fare soltanto un discorso di soldi.”

Ciascuno ha i suoi tempi,” ribadisce Taviani. “Per me il minimo è un mese e mezzo, due mesi, questi mi servono assolutamente; c’è chi lo fa in molto meno, però il tempo è fondamentale per avere la possibilità di tentare, provare, costruire un rapporto di fiducia con il regista, fargli capire quali sono le mie idee di musicista in rapporto al suo film. Ci vuole il tempo di assorbire ed elaborare il contenuto del film, le emozioni e poi tradurle in musica filtrandole con la mia personalità. È chiaro che il mestiere serve in tutte le cose. Nella televisione è un po’ diverso, la mole di lavoro è più grande e i tempi sono più stretti, però nel cinema è bello pensare di reinventarsi in ogni lavoro, in ogni film. Abbiamo studiato le regole, ma bisogna sapere anche quando possono essere contraddette.”

La tecnologia: il suono multicanale
Ricorda ancora Buonvino: “In uno dei primi contratti che ho firmato c'era, e non so se c'è ancora, l'obbligo di consegnare il ‘perforato magnetico’ musicale, che non so neanche cosa sia esattamente, perché da quando faccio questo mestiere la registrazione si fa su altri supporti. Sono d'accordo con Ezio quando dice che la tecnologia è una penna che permette tutto – ma il rischio di dare esagerata importanza al digitale è quello di scordarsi, come dice Andrea, la fantasia. La musica non è solo tecnologia: questo è un rischio. Io compongo in uno studio che sembra la NASA: quattro schermi, due computer, un portatile, campionatori eccetera. Però la corsa all'ultimo gadget, l'ultimo software, l'ultima tastiera, l'ultimo suono non ci deve portare fuori strada, perché comunque rimane sempre e solo una penna, che man mano acquisisce una gamma di colori sempre più ampia. Rispetto alla sola orchestra, avere anche quello che ci mette a disposizione l'elettronica significa avere una tavolozza più ampia, però poi alla fine non è quella la sostanza della musica.”

Per Bosso “quello che è cambiato è che la tecnologia permette di approfondire tutti gli aspetti del suono. Il 5.1 è importante non solo per la musica ma per tutto il suono del film. Talvolta non ci si rende pienamente conto è che il suono del film non è solo musica, è fatto di tutti i suoni del film, ed è musica anche il rumore che esce da una parte o da un'altra. C'è una branca della mia formazione di compositore, che si chiama psicoacustica, che si occupa dell'effetto dell'acustica sullo spettatore: l'utilizzo del surround rappresenta davvero una grande esperienza in questo campo. Scrivendo si possono immaginare determinati effetti della musica che arriva dal fronte anteriore o posteriore. Il suono che arriva da dietro influenza una zona determinata del cervello, e rimanda a un messaggio emotivo particolare: l'emozione ha una relazione molto forte con la provenienza del suono. È una relazione provata nella storia della musica: già nel seicento si usava come effetto portare alcuni strumenti dietro al pubblico, o magari fuori dalla porta della sala, e nella prima sinfonia di Mahler, nell'adagio, il corno inglese va dietro il pubblico, addirittura nel foyer a suonare.”

Nel 1977, quando è uscito Suspiria – continua Simonetti – Dario Argento fece disporre delle casse supplementari dentro al cinema, per generare suoni da diverse direzioni: non c'erano ancora 5.1 né surround ma c'era già l'intuizione che avremmo avuto dei notevoli cambiamenti nel suono. Già allora scrivemmo la musica per sfruttare questi effetti, anche se il Dolby non c'era, c'era lo stereo, non ricordo neanche come si chiamava precisamente – con il tempo è cambiata la tecnologia e anche il nostro modo di lavorare. Anche per Il cartaio, che credo sia il film più tecnologico che ho mai fatto, ho già scritto la musica prevedendo dove sarebbe stato posizionato andato ogni suono.

Oggi un musicista tradizionale se non è aggiornato tecnologicamente si trova un po' in difficoltà. Grazie ai midi e ai sistemi digitali possiamo lavorare in maniera completamente diversa. Certo, bisogna aggiornarsi costantemente, ed è anche abbastanza dispendioso.”

Secondo me c'è un problema all'origine di tutte queste questioni”, commenta Buonvino. “Noi stiamo discutendo di tecnologia, e di surround, ma in Italia ci sono circa tremila sale, e almeno la metà di esse è ancora stereo, e forse neanche... È un problema serio. Noi prima facciamo il missaggio della musica, poi la missiamo con i rumori, con la presa diretta e con il doppiaggio, e creiamo un riferimento, che di solito è abbastanza reale... poi andiamo alla prima, o all'anteprima, del film e ci viene un colpo.

Mi ricordo L'ultimo bacio: io ero ragionevolmente soddisfatto del mio lavoro, ma alla prima per poco non sono svenuto. Eravamo in uno dei cinema più moderni di Roma, e sentivo che il multicanale diventava stereo e poi tornava multicanale, c'era evidentemente un problema tecnico di riproduzione per cui il suono invece di provenire da tutta la sala si spostava solo al fronte anteriore e poi di nuovo indietro. Se nel miglior cinema di Roma c'è una testina sporca, in quello di Scordia che è il mio paesino in Sicilia non c'è surround, e magari a Catania in un quartiere c'è soltanto la cassa destra... il problema fondamentale è che alla fine chi usufruisce di questo prodotto lo va a vedere al cinema; e non nella sala in cui è stato fatto il missaggio. Con alcune eccezioni, i nostri cinema non sono assolutamente adeguati alla tecnologia attuale.

Per cui quando si fa il missaggio finale del film, oltre ai problemi di un’eventuale scarsa consapevolezza da parte del regista che oltretutto è nella fase finale della lavorazione in cui ha pressioni da ogni parte, nasce questo problema. E anche un regista che conosca queste possibilità a volte ha paura che usando il surround a Scordia il film diventi un'altra cosa; e come Scordia ce ne sono tantissimi altri. Se questi sono elementi emozionali importanti, è importante averli dappertutto.

In sala missaggio si finisce per cercare un missaggio che funzioni in multicanale ma anche in stereo, il che a volte è impossibile, per cui si deve scendere a un compromesso che non è ideale – il tutto con tempi ridottissimi, perché se in America hai un mese qui devi fare tutto in cinque giorni."

Anche Aldo De Scalzi e Pivio hanno avuto esperienze sofferte, al punto che il primo esordisce: “ Premetto che noi veniamo da Genova, e i genovesi sono mugugnoni per carattere. Però devo dire che abbiamo lavorato su parecchi film, e non sono mai riuscito a vederne uno con un audio decente.

Purtroppo è vero – continua Pivio – e credo che non tener conto della possibilità che il film possa essere visto in qualunque cinema sia a priori una follia. Ancora adesso mi capita di imbattermi in film del periodo d'oro degli anni sessanta del cinema italiano, in cui l'audio monofonico funziona perfettamente e si è in grado di riconoscerne tutti gli elementi, mentre altrettanto non si può dire di film moderni missati in multicanale. Credo che ci sia ancora una sorta di gap generazionale. Mentre tutti i compositori che siedono oggi a questo tavolo hanno comunque anche un approccio tecnologico alla realizzazione delle proprie opere, un'attenzione anche al lato tecnico, quando si arriva alla fase finale della realizzazione del film, e quindi al missaggio, abbiamo spesso a che fare con figure professionali che non hanno ancora assimilato la possibilità di poter distribuire il suono del film in un contesto un po' più ampio. Siamo fortunati quando riusciamo a trovare un tecnico che abbia una vera consapevolezza delle possibilità che gli offrono i mezzi che oggi ha a disposizione – il surround, l'audio multicanale, eccetera – e che cerchi di pensare già in funzione di queste. Per questo motivo già in fase di scrittura dobbiamo ridurre i rischi che si possono creare al momento del missaggio: è un modo di proteggere il nostro lavoro.

Simonetti conferma: “È lo stesso problema che abbiamo avuto con Il cartaio. Abbiamo cominciato a fare il missaggio e a un certo punto, a metà del primo rullo, ho chiesto perché avessimo fatto la fatica di preparare il materiale in multicanale, dato che gli effetti non arrivavano dalle casse posteriori. Il fonico ci ha detto che bisognava fare un missaggio compatibile, perché se si mettono gli effetti solo sui canali posteriori, poi in televisione spariscono. Quando Dario Argento ha insistito, gli è stato detto che sarebbero stati necessari due missaggi separati, uno stereo per la televisione, e uno multicanale per il cinema, nel quale gli effetti surround sarebbero stati ben percepibili. A questo punto è la produzione che deve dare l’accordo; però per la maggior parte dei film che si fanno in Italia non dispone di questo budget. Ma non hanno capito quanto sia importante quando si va al cinema che il film venga valorizzato dalla colonna sonora, dai rumori, e allora per risparmiare succede che venga fuori un miscuglio strano, quando invece bisognerebbe fare due missaggi”.

Riprende Pivio: “Comunque, nei missaggi dei film italiani bisogna aver paura di due elementi fondamentali: le automobili, che quando passano distruggono qualsiasi cosa, e i passanti, o almeno i figuranti. I figuranti hanno rivoluzionato la storia del cinema in Italia. Nel caso specifico, il film era L’odore della notte di Claudio Caligari, storia di una banda di criminali chiamata “la banda dell'Arancia Meccanica”, con protagonista Valerio Mastrandrea. Si trattava della scena fondamentale del film, in cui Valerio viene preso dalla polizia dopo l'ennesimo scippo. Con il regista avevamo stabilito una sorta di climax musicale per cui dal punto di vista musicale il punto culminante di tutta la sequenza sarebbe avvenuto nel momento in cui Valerio, colpito da un colpo di pistola, sarebbe caduto al suolo in una posizione quasi cristologica – c’era tutta una serie di elementi particolari che bisognava in qualche modo mettere in evidenza.

Accadde che durante la ripresa, in alto a destra, piccolissime, vennero inquadrate due persone che da un balcone dicono più o meno (perché in realtà vennero doppiati in seguito ‘cosa sta succedendo?’. Cosa sta succedendo in realtà è evidente, il personaggio, colpito, cade a terra, e probabilmente sarà portato via.

Noi avevamo lavorato su questa complessa costruzione musicale per arrivare al climax in quel punto; ma il nostro amico missatore commentò ‘eh no, si vede che questi parlano, bisogna che si senta’... il risultato è che nel film si sente, fortissimo, la frase che arriva da quelle che sembrano due mosche in un angolo dello schermo, la musica scompare e riappare dopo alcuni minuti.

Un impegno rinnovato
Anche l’incontro di Genova s’è concluso in musica. La sera del 4 luglio, alla multisala America in Via Colombo, Marco Spagnoli e il Genova Film Festival ha offerto ai partecipanti un incontro-concerto con i musicisti. Ogni artista ha presentato e commentato esempi delle proprie opere, sotto forma di sequenze dei film a cui ha collaborato, o di esecuzioni dal vivo con i propri colleghi, un piccolo ensemble d’archi e la splendida voce di Barbara Eramo. Un’altra serata inedita e indimenticabile, conclusa con l’annuncio di un CD in edizione limitata che non è stato purtroppo pronto in tempo per il festival ma sarà distribuito prossimamente, e con la promessa di un nuovo incontro, forse a Venezia, o ancora a Bologna.

L’impegno artistico e professionale di questi compositori continua, come continua la loro musica, in quello che resta uno dei più interessanti mestieri dell’universo cinematografico, e nonostante tutto uno di quelli che danno più soddisfazioni, come ha ricordato Pivio: “Queste sono buone occasioni per parlarne, sfruttare le possibilità che ci sono date per discutere del nostro lavoro, della nostra valenza artistica, ma non vorrei parlare sempre e solamente in termini genovesi di ‘mugugno’. Il nostro è un lavoro meraviglioso, non so neanche se chiamarlo lavoro, io mi sento un privilegiato: mio padre faceva l’operaio, io mi diverto a lavorare su dei film. Ma proprio perché è un privilegio, va continuamente alimentato.”

Future Film Festival, 16 gennaio 2004
Ezio Bosso, Paolo Buonvino, Riccardo Giagni, Andrea Guerra, Pivio & Aldo De Scalzi, Claudio Simonetti

Moderatore; Marco Spagnoli

Genova Film Festival, 4 luglio 2004
Ezio Bosso, Paolo Buonvino, Riccardo Giagni, Ivan Iusco, Giovanni Lo Cascio, Fabio Liberatori, Pivio & Aldo De Scalzi, Paolo Silvestri, Giuliano Taviani, Giovanni Venosta
Crew: Giovanni Arcadu, Cesare Cioni, Oscar Cosulich, Marco Spagnoli, Norberto Vezzoli

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